venerdì 4 dicembre 2020

L'Italia sotto la lente del Censis: povertà, rabbia, insicurezza

 Censis, il sistema Italia è ruota quadrata che non gira - Economia - ANSA

E’ stato presentato oggi il rapporto Censis. Come ogni anno, il rapporto approfondisce aspetti della vita sociale e quotidiana degli italiani, attraverso interviste sul campo. Se l’interpretazione che viene fornita dal rapporto può non essere condivisibile, i dati che provengono dalle interviste sono spaccati della vita reale del Paese che non possono essere ignorati.

Nell’insieme, il quadro che emerge da questi dati è, a mio parere, quello di un Paese in preda alla paura che chiede protezione e sicurezza, anche al costo della libertà e di certi diritti. Il sentimento prevalente, in oltre il 73% degli intervistati, è la paura per il futuro. Questo è il dato di fondo, dal quale bisogna partire per spiegare tutto. In una società impoverita già in forma strutturale da anni (il reddito netto medio da lavoro dipendente di una famiglia di 3 persone al netto dell’inflazione diminuisce, fra 2003 e 2017, di circa 6 punti percentuali, ci dice l’Istat) e con una sensazione crescente di insicurezza anche in termini di ordine pubblico (sempre secondo l’Istat i cittadini che dichiarano di vivere in una zona ad alto rischio di criminalità crescono di 12 punti percentuali fra 2008 e 2016) si innesta l’effetto dirompente generato dalla crisi pandemica.

La società italiana si risveglia nel mezzo di un incubo prodotto da uno dei danni più gravi di quasi 30 anni di neoliberismo, ovvero la contrazione dell’offerta sanitaria pubblica, nel pieno della prima epidemia di grave livello dai tempi della spagnola, ed è un risveglio durissimo: spazza via le fragili illusioni di ripresa economica e occupazionale da “austerità” smerciate in questi anni dai cantori della cosiddetta austerità espansiva, accumula nuove diseguaglianze, che potremmo chiamare “pandemiche”, a quelle già presenti da anni e orami sistemiche: disparità nuove fra chi ha il posto fisso e chi no, nell’ambito del primo gruppo fra chi ha il contratto collettivo rinnovato e chi no a causa della paura delle imprese di vedere lievitare i loro costi, e del secondo fra chi ha un’attività legale  e chi vive di lavoretti in nero, fra chi accede all’istruzione, anche a distanza, e chi non ha i mezzi, anche informatici, per accedervi, fra chi ha la garanzia delle migliori cure mediche in caso di infezione e chi no. Fra chi vive in un’area del Paese colorata in un modo da consentirgli un minimo di movimento per tentare di trascinare da qualche parte la sua disperazione e chi no.

Nel mezzo di questo incubo, la constatazione più amara è quella della solitudine: a livello macro, lo Stato non riesce ad andare oltre una miserrima carità da risulta, peraltro distribuita male e in grave ritardo, l’Unione Europea si lacera in penose liti da cortile fra frugali e spendaccioni, con i suoi mirabolanti investimenti che si allontanano ogni giorno di più.

A livello meso, la crisi dei corpi intermedi della rappresentanza, anch’essa smerciata come un presunto ammodernamento, come un affrancamento dell’individuo rispetto alla presenza soffocante e paternalista del sistema dei partiti e dei sindacati, dal portato individualistico tipico del neoliberismo, con le sue grancasse mediatiche (non ultima l’esaltazione folle dell’individualismo politico dell’uno vale uno grillino) lascia l’individuo libero di urlare al deserto la sua disperazione, senza più nessuno che raccolga la sua voce.

A livello micro, la famiglia, che in questi anni ha garantito una rete di protezione sociale che lo Stato non riusciva più a garantire, già afflitta da tendenze centrifughe di ogni tipo (da stili di vita ostili alla famiglia fino alla carenza di servizi di sostegno) si lacera in convivenze forzose imposte dai lockdown e vede allontanarsi e dilaniarsi i legami fra le generazioni, con i vecchi, spesso e volentieri supporto economico dei più giovani, che, “per il loro bene”, causa Covid, finiscono isolati.

Il mix dirompente fra paura, insicurezza e solitudine che, già da prima della pandemia, stava stritolando la società italiana, alimentato da impoverimento, crollo del welfare pubblico, sbriciolamento delle istituzioni rappresentative, nonché dagli effetti in termini di identità e di ordine pubblico dell’immigrazione incontrollata, ha avuto all’improvviso una repentina accelerazione per effetto della drammatica sfida lanciata dal virus ad impalcature collettive e fiduciarie collettive pericolanti.

E come stanno reagendo gli italiani? Cosa ci dice il Rapporto Censis sulla loro reazione? La reazione è quella di una società culturalmente stanca, con una psiche collettiva affollata da troppi problemi insormontabili di una quotidianità divenuta troppo insostenibile per riuscire a guardare oltre la superficie del mare nel quale si affoga, ma è soprattutto la reazione di una società egemonizzata da una cultura di ceti medi, di colletti bianchi, educata allo scambio fra disciplina ed obbedienza all’ordine costituito e benessere che è stato alla base del patto sociale degli anni di crescita rapida e sviluppo della seconda metà del novecento. Dominata da un concetto di responsabilizzazione personale in luogo di quella collettiva generato da quasi quarant’anni di atomizzazione neoliberista. Istruita ad anteporre bisogni personali edonistici ad esigenze collettive primarie nel nome di un mito semi-eroico dell’individuo che, con la sua volontà e la sua intraprendenza egoistica può, alla fine del suo sentiero di solitudine, arrivare a costruire dal basso la società dei giusti.

Un popolo così educato non può capire il senso dell’azione collettiva, non riesce ad entrare nella logica di una lotta comune come veicolo per meglio rappresentare i propri interessi. Ecco allora che, come riproducono i dati del Censis, preferisce spaccarsi lungo la linea di faglia del tutto artificiosa fra presunti “privilegiati” con il “culo al caldo” e presunte vittime: l’85,8% degli intervistati pensa che la “vera disparità” in Italia è fra chi ha il posto garantito e chi no, non fra capitale e lavoro.

Un popolo così educato non riesce ad animare un movimento di protesta di lungo periodo: i primi fuochi di paglia di una protesta sociale, peraltro in larga misura eterodiretti da strane ed inquietanti presenze di estrema destra o malavitose, si sono subito spenti, portando avanti un messaggio di spaccatura del fronte sociale, come se i nemici fossero i lavoratori dipendenti e non élite economiche e politiche convertite al neoliberismo.

Un popolo così educato si rifugia in un atteggiamento difensivo: la convinzione che lì fuori non ci sia nessuno ad aiutare porta, ad esempio, ad una crescita della propensione al risparmio che, sottraendo risorse al circuito della domanda aggregata, peggiora gli effetti della crisi. Il 66% degli intervistati sta risparmiando, oltretutto in liquidità e depositi bancari, disinvestendo dal mercato mobiliare e da quello immobiliare.

Un popolo così educato non sa cosa farsene delle “libertà” formali e dei diritti civili garantiti dal neoliberismo, perché tali libertà sono spesso inessenziali, non di rado si traducono in superficiale civetteria da denunce di carta sui social o in edonistiche soddisfazioni che si possono tagliare in momenti di grave crisi: il 57,8% è disponibile a veder comprimere la propria libertà di movimento e riunione in nome dell’emergenza sanitaria. Addirittura, il 38,5% è disponibile a farsi comprimere i propri diritti civili, ma anche quelli politici e sindacali, in cambio di maggiore sicurezza reddituale e lavorativa.

E si guardi bene: non è un atteggiamento da “Paese anziano”. In nome dell’invecchiamento demografico si stanno giustificando troppe cose: in realtà, le due percentuali sopra illustrate salgono, rispettivamente, al 64,7% ed al 44,6% per i giovani fra 18 e 35 anni di età. Sono i giovani, quelli che vivono la maggiore insicurezza esistenziale, ad essere maggiormente disposti a vedere comprimere i propri diritti.

Alla faccia dei libertari da social che soffiano su rivolte per presunte libertà che interessano a pochi, ed alla faccia dell’ideologia delle Sardine, che rappresenta solo un piccolo segmento di giovani relativamente (anche se non sempre) più tutelati per la classe sociale di appartenenza, le giovani generazioni, che non hanno conosciuto gli anni dello sviluppo del benessere e della democrazia, sono cresciute dentro un sistema che comprimeva la più importante delle libertà: quella di avere un futuro. Per cui, di fronte a questa libertà negata, possono anche sacrificarne altre meno rilevanti, pur di vedersi assicurare quel futuro di serenità tanto sognato.

Ancora una volta, niente di nuovo sotto il sole: nel 1922, in un’altra fase drammatica della storia del Paese, i ceti medi in crisi furono disposti, insieme a strati del sottoproletariato, a convergere sugli interessi della borghesia che si addensavano attorno ad una dittatura dai connotati fortemente paternalistici e “protettivi”. Il corporativismo fascista apparve ai più come una forma di regolazione che consentiva, una volta rinunciato alla libertà di espressione, di avere la zuppa sul tavolo tutti i giorni.

Una dittatura paternalistica deve avere anche connotati fortemente giustizialistici: ecco che, non tanto a sorpresa, emerge un lato forcaiolo negli italiani: il 44% è a favore della reintroduzione della pena di morte; tale percentuale arriva al 45% per i più giovani, che in condizioni “normali” immagineremmo più tolleranti degli anziani. Ma non è più così. Ancora una volta, dove la paura morde più dolorosamente, l’insicurezza è maggiore, la rabbia accumulata è più profonda, ed è più diffuso il riflesso di una giustizia più dura e violenta, che dà un falso senso di protezione, e di una giustizia vendicativa, nel tentativo (vano) di placare la propria rabbia.

Il terreno sociale, e questo è un ammonimento molto serio per le classi dirigenti, è pronto per accogliere una dittatura con forti connotati paternalistici e personalistici. La fiducia verso tutte quelle istituzioni che, nell’immaginario liberale, sono i presidi dell’attuale sistema, è ai minimi storici. Neanche il 30% degli italiani, secondo le indagini di Eurobarometro, ha fiducia nell’Unione Europea. Ma attenzione, a beneficio degli euro-exit: la fiducia nelle istituzioni nazionali (Governo e Parlamento nazionali) è altrettanto bassa, se non addirittura inferiore. In altri termini, non c’è un effetto “britannico” di ritorno verso la casa-madre nazionale, c’è un indistinto disprezzo verso qualsiasi istituzione, un fastidio anarcoide verso ogni forma di potere, che apre la strada a soluzioni fascistoidi, perché il nucleo del fascismo storico è esattamente il disprezzo verso le istituzioni tutte, dalla Società delle Nazioni fino al Parlamento, in nome dell’Uomo della Provvidenza che cancelli tutte queste cose, viste come baracconi, e le sostituisca con il suo comando, inflessibile e giustizialista (quando punisce gli altri) e provvidenziale, consociativo ed assistenzialista (quando si rapporta a noi).

La casa non corre il rischio di bruciare in una lunga fase di lotte di piazza, che non stanno più dentro l’immaginario della maggior parte degli italiani, ma più probabilmente nella presa del potere per vie democratiche di un gruppo sufficientemente determinato a dare la spallata finale a ciò che resta della casa stessa, sostituendola con un governo autoritario, magari solo apparentemente costituzionale. Il popolo che aspetta l’uomo provvidenziale ha già venduto in anticipo la sua democrazia.

 

lunedì 16 novembre 2020

Vincolo esterno e depressione economica: dove stiamo andando in Europa?

 How is EU cooperation on the Covid-19 crisis perceived in member states? –  CEPS

Storicamente, il vincolo esterno, tramite l'adesione a Maastricht e all'euro, fu scelto, in una fase di grande caos (destrutturazione del sistema politico precedente ad opera di Tangentopoli, crisi valutaria nello Sme) da una classe dirigente che non si riteneva in grado di dare una disciplina ad un Paese complesso e fortemente individualistico, nel quale il senso dello Stato non era maturato a sufficienza. In ciò spinta anche da poteri esterni, interessati a liberalizzare il Paese per poi mangiarselo (non bisogna dimenticare che continuiamo a scontare gli effetti di lungo periodo della sconfitta nella seconda guerra mondiale). Si sperava che una disciplina eterodiretta, baluginando la continua prospettiva di una crescente integrazione europea come utopia da vendere ai ceti sociali che avevano dato maggiore consenso a Tangentopoli, fosse sufficiente a dare una disciplina al Paese.

 

Romano Prodi | Ci manca il coraggio di Andreatta

 

Gli anni sono passati, si è esaurita la prospettiva di una costruzione europea nella quale la Germania, da Paese leader, si sarebbe assunta le relative responsabilità, accollandosi in particolare il debito sovrano dei singoli Stati membri, la mitologica "condivisione dei rischi" tanto invocata dai quisling nostrani. Ciò non si è verificato, la Ue è rimasta un campo di battaglia di nazionalismi, i più deboli sono stati schiacciati, la Germania ha piegato la costruzione comune ai suoi interessi, imponendo il suo modello economico senza contropartite in termini di tutela di interessi comuni.

Questo modello non poteva reggere all'urto di uno shock di grandi dimensioni. Quando è arrivato il primo shock, con il fallimento sovrano greco, si è data la classica risposta dei deboli, ovvero una risposta repressiva. La Grecia è stata demolita sull'altare del mantenimento di questa costruzione germanocentrica, con tanto di complicità dolosa dei nostri dirigenti, in particolare Letta, Renzi ed il Pd, incapaci di capire che poi sarebbe toccato a noi, speranzosi di ottenere qualche micro vantaggio in termini di flessibilità di bilancio. Questa incapacità non è sorprendente. Decenni di linea strategica servile agli eurointeressi ha, di fatto, disattivato ogni pensiero alternativo nella nostra classe dirigente. C'è un inerzia che si crea quando una linea viene seguita per molto tempo, e diventa anche moralmente difficile modificarla.

Il Covid ha dato il colpo, a mio parere ferale, a questo modello. Perché la depressione che ne è seguita ha di fatto reso impossibile l'utilizzo del modello ordoliberista persino al Paese leader. Nemmeno la Germania è in grado di rispettare il Patto di stabilità. Il modello-Bundesbank della Bce avrebbe portato ad una catena di default da cui non si sarebbe salvato nessuno. La Merkel e la sua dipendente, la Von Der Leyen, due persone che, per quanto detestabili sotto il profilo politico inteso con la P maiuscola e sotto quello morale, sono estremamente intelligenti, lo hanno capito al volo. La Bce è stata, nei limiti dei suoi trattati, trasformata in qualcosa di vagamente simile ad un prestatore di ultima istanza (non è proprio così, ma ci si avvicina), il Patto di stabilità è stato sospeso, gli aiuti di Stato resi più elastici.

 

 Streit um Renten: Angela Merkel lässt Ursula von der Leyen allein - WELT

 

La situazione nuova ha indotto alcuni segmenti della nostra classe dirigente a riconsiderare l'approccio culturale sin qui seguito. Mentre Letta continua a far finta di non aver capito, e d'altra parte tiene famiglia e lavora a Parigi, e Marattin e Calenda continuano a resistere (ma stiamo parlando di casi umani) ecco Sassoli che butta lì l'idea di un consolidamento del debito, la Serracchiani (rendiamoci conto!) che parla di investimenti pubblici nella sanità, insieme a Speranza (altro riconvertito sulla via di Damasco), Gualtieri che arriva a mettere in atto una resistenza rispetto all'accesso al Mes e chiede di prolungare al 2022 la sospensione del Patto di stabilità, Prodi che avvia un sia pur parziale e timido mea culpa rispetto all'ingresso acritico e senza garanzie nell'euro, Fazio che inizia a parlare di politiche keynesiane. 

 

 Cos'è il Patto di stabilità e cosa prevede? Eccolo spiegato in cinque punti  - Pictet per Te

 

Naturalmente non c'è molto da attendersi, in molti casi si tratta di riposizionamenti tattici, è evidente che, terminata la crisi sanitaria, a partire dal 2022, il tema del ripristino dell'austerità verrà tirato fuori, e l'Italia non ha né la forza, né l'intelligenza diplomatica per resistere.

Io però ho anche la sensazione che i danni culturali ed anche materiali al modello di pensiero dominante degli ultimi trent'anni ci siano stati, siano evidenti e non riparabili. Non si potrà far finta di niente. La Germania sarà la prima a non poter evitare il dilemma fra un cambiamento di modello di leadership europeo, non più sostenibile in una situazione esplosiva di incremento senza limiti dei debiti sovrani nazionali e crescita ancora stagnante (al netto del breve rimbalzo congiunturale post crisi) e l’abbandono, sic et simpliciter, della costruzione europea. Non è facile dire cosa prevarrà, il pensionamento della Merkel priverà la destra tedesca della sua esponente più europeista, e i poteri forti della destra finanziaria, che si esprimono attraverso le posizioni della Bundesbank e della Corte Costituzionale, oltre che in molti consulenti e sodali della Merkel (come Sinn o Schaeuble) sono evidentemente favorevoli all’abbandono dell’euro, o alla costruzione di un euro del nord, espellendo i Paesi mediterranei. D’altra parte l’ascesa elettorale dei Grunen, fortemente europeisti, potrebbe controbilanciare tali tendenze.  

Una cosa però è sicura: non torneremo al Patto di stabilità come era prima. Nessuno è più in grado di rispettarne i parametri, nemmeno la Germania, il cui rapporto fra debito e Pil andrà oltre il 70%, in una condizione in cui la sua industria, fortemente export oriented, avrà difficoltà, in un mondo in crisi, a recuperare rapidamente ed in cui il suo sistema creditizio è oggettivamente pericolante. Il grado di sopportazione sociale ha raggiunto limiti non più gestibili. Se la prossima leadership tedesca dovesse decidere di tenere in piedi l’edificio eurista, nel peggiore dei casi, peraltro il più probabile, si andrebbe verso un Patto di stabilità light, nel quale si imporranno limiti alla crescita della spesa pubblica corrente, lasciando gli investimenti liberi di correre, mentre la Bce manterrà in piedi forme, meno generose di quelle attuali, di copertura dei debiti sovrani dallo spread. Probabilmente avremo anche qualche concessione di flessibilità nell’intervento pubblico a sostegno di grandi imprese o banche in difficoltà, seppur temporaneo e limitato alla fase di risanamento e rilancio e solo per imprese strategiche aventi prospettive di rilancio concrete, con un allentamento permanente, non più solo temporaneo, della disciplina degli aiuti di Stato. Questo perché è lo stesso Ministro tedesco Altmayer ad aver elaborato e ampiamente diffuso un piano di salvataggio pubblico delle imprese in crisi. Sul versante fiscale, l’alleggerimento della pressione sarà consentito solo in cambio di riduzioni strutturali dell’area dell’evasione e si punterà, a gettito invariato, su uno spostamento del carico dalle imprese e dal lavoro verso i beni.

Sarà un mondo migliore? Tutto sommato non credo. Sarà sufficiente a far ripartire l’economia europea? Ne dubito fortemente, perché gli interventi sopra tratteggiati non configurano un cambiamento di paradigma, come sarebbe oltremodo necessario, ma soltanto un adattamento ed ammorbidimento del paradigma esistente. Per il momento dovremo adattarci.

mercoledì 11 novembre 2020

Galleria di personaggi livornesi: la Ciucia

 L'unica foto esistente della Ciucia

 

Nella lunghissima galleria dei personaggi minori che hanno fatto la storia e conferito l'anima a Livorno, un posto speciale va a Bruna Barbieri, da tutti conosciuta come la "Ciucia". Un personaggio talmente importante nella storia popolare della città da aver dato il suo nome ad una espressione dialettale: "sei vestito 'ome la ciucia", si dice di chi esce di casa senza aver curato il suo aspetto.

Bruna Barbieri nasce a gennaio del 1911 nel popolarissimo quartiere della Venezia, a viale Caprera. Chiamato come la Serenissima perché attraversato da canali artificiali, oggi il quartiere è una attrazione turistica ed un luogo di movida, ma nel 1911 era un terrificante concentrato di miseria, costituito da palazzi poveri, senza acqua corrente, che affacciavano direttamente su fossi maleodoranti, con chiazze di nafta navale che galleggiavano sull'acqua, scarichi fognari ed un convivenza forzata fra uomini, topi e malattie endemiche come il colera. Per recuperare acqua potabile, le donne di casa dovevano fare chilometri a piedi con i secchi, fino alle Terme del Corallo o alla Puzzolente. La fame era reale. Un operaio portuale o dei cantieri navali prendeva circa 2 lire di stipendio al giorno, equivalente a circa un chilo di pane o di riso ed un chilo di formaggio. Mezzo chilo di burro costava quanto una intera giornata di lavoro. Per un paio di scarpe dozzinali bisognava lavorare senza mangiare per una settimana. 

 Viale Caprera, la strada dove la Ciucia nacque e visse, fotografata ai suoi tempi


 

Mentre l’Uruguay battllista lancia il primo esperimento di socialdemocrazia, il disordine sociale in Russia prepara la strada alla Rivoluzione di ottobre, mentre le tensioni fra Germania, Francia e Gran Bretagna crescono di pari passo con la decadenza dell’Impero Ottomano e di quello Austro-Ungarico, fino a sfociare nella Grande Guerra, l’Italietta giolittiana si autocelebra nelle eleganti manifestazioni del cinquantenario dell’unità e nel piccolo sogno imperiale provinciale della conquista della Libia. Trascurando le enormi sperequazioni sociali, il governo monarchico-liberale getta, ogni tanto, alcune concessioni, il diritto di sciopero, i primi provvedimenti di tutela del lavoro femminile ed infantile, il suffragio universale maschile, il giovane Vittorio Emanuele III fa sfoggio retorico di apparenti preoccupazioni per le condizioni disperate in cui versano i contadini e le classi proletarie urbanizzate, fra le quali il socialismo cresce, di pari passo con tendenze più massimaliste di tipo anarchico.

In questo contesto di grande deprivazione e di ingiustizia, in una città divisa fisicamente fra ghetti popolari, rinserrati nel malsano perimetro delle acque sudicie dei fossi, e quartieri borghesi più salubremente affacciati sul mare, la piccola Bruna cresce, giocando fra palazzi dall’intonaco scrostato e pratoni sporchi con un gatto randagio ed un amichetto del cuore soprannominato Ciucio (e da lì il soprannome Ciucia dato alla ragazza). La famiglia subisce, nella disgrazia generale, una serie di ulteriori sfortune: il padre muore al fronte nel 1917, la famiglia, originaria della provincia di Ferrara, è molto numerosa: la madre Bois Elettra detta “Narcisa”, i due nonni e ben cinque fratelli. Il più grande, Renato, detto “Attao”, è un’altra figura mitologica di Livorno. Grande e grosso come una montagna, a soli 14 anni diviene l’uomo di casa. Spaventoso scaricatore di porto (si narra che sollevava balle di cotone di diversi quintali con un braccio solo) diverrà un campione di canottaggio con l’equipaggio degli Scarronzoni, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932.

Come in tutte le famiglie colpite dalla disgrazia, arriva anche la malattia. A nove anni la Ciucia si ammala gravemente: probabilmente è encefalite letargica, ma di preciso non si saprà mai, i poveri non avevano assistenza sanitaria (all’epoca, tale malattia era conosciuta come la “nona”). Rimane per quaranta giorni a letto fra sonno e deliri, con la febbre alta. Quando oramai viene data per morta, si risveglia riferendo di aver sentito delle voci, durante il coma, che le dicevano che doveva aiutare gli altri, che questa era la sua missione nella vita. La malattia lascerà segni indelebili: la Ciucia rimarrà leggermente claudicante e strabica, con un fisico molto gracile, probabilmente segnata anche a livello neurocerebrale.

Si tratta della svolta della sua vita e di una sorta di chiamata alle armi. Vestita sempre in modo molto semplice e sciatto, con vestiti rattoppati, i capelli tenuti insieme da una molletta, l’irrinunciabile fazzoletto rosso da anarchica al collo, alle volte una medaglietta della madonna di Montenero, passerà la sua esistenza a correre avanti ed indietro per la città (“andava via come il vento e non era raro che qualcuno affermasse di averla vista in punti diversi della città contemporaneamente”, disse una testimone) per cercare di fare del bene agli altri, nel Paese che pencolava verso il fascismo, nella Livorno inquieta del primo dopoguerra, fra occupazioni di fabbriche, scioperi e manifestazioni, reduci di guerra ridotti alla fame sui marciapiede, la nascita del partito comunista a poche centinaia di metri da dove Bruna abitava e l’ascesa del fascismo di Costanzo Ciano che organizzò, insieme a Dino Perrone Compagni, una vera e propria “marcia su Livorno”, antesignana di quella su Roma, dove, dopo omicidi, pestaggi e devastazioni, invase con le camicie nere la sede del Comune costringendo l’amministrazione a guida socialista di Mondolfi alle dimissioni. 

 Un ritratto della Ciucia fatto da un suo contemporaneo



Gli aneddoti sulle opere di bene di Bruna occuperebbero un intero volume. D’estate organizzava gite balneari per i bimbi poveri del quartiere verso il Calambrone, dove, grazie alle donazioni di commercianti e cittadini, distribuiva fette di cocomero, duro di menta regalato dalla Chiccaia (altro personaggio popolare che meriterebbe una descrizione a parte) pane con lo zibibbo chiamato volgarmente “topa”, oppure li portava al cinema a guardare i primi film americani e, negli anni dopo, i brutti film fascisti di propaganda. Soprattutto negli anni della guerra, dove le donne erano costrette ad inventarsi un mestiere per arrotondare i magri introiti familiari, la Ciucia diventò una sorta di maestra d’asilo per i bimbi del quartiere. Li portava nella caserma Lamarmora, oggi edificio di edilizia popolare, dopo che i soldati avevano mangiato, per raccogliere dalle pignatte della cucina i resti del cibo, oppure ai quattro mori, per raccontare loro favole e leggende. I soldati, specie quelli feriti o malati di ritorno dal fronte, erano un altro oggetto delle sue attenzioni. Portava loro cibo e medicine, o si faceva carico di spedire le loro lettere ai familiari.

Facendosi forte della solidarietà delle popolane, costringeva i commercianti di piazza Cavallotti, con le buone o le cattive, a cederle un po' di cibo, oppure i pescatori di ritorno dalla nottata a darle una secchiata di pesce da zuppa, da distribuire poi alle famiglie più povere del quartiere. Se rifiutavano, erano guai. Si narra che un giorno, per costringere un negoziante a consegnarle della stoffa, si presentò con una gabbia piena di topi, minacciando di lasciarli liberi per la bottega. Un’altra volta, un giovane soldato di partenza per il fronte le confessò il suo rammarico per non poter regalare niente alla sua fidanzata. Allora la Bruna organizzò una colletta, raccogliendo la cospicua cifra di 98 lire. Si recò da un gioielliere di via Grande per comprare una collanina. Ma costava 102 lire ed il commerciante si rifiutava categoricamente di rimetterci 4 lire di differenza. La Ciucia non si scompose, chiamò a raccolta tutte le comari del quartiere che, fra spintoni, urla e insulti, costrinsero il gioielliere a cedere.

Niente tenne per sé, rimanendo povera e vestita male come era sempre stata. Nel suo delirio di generosità, pretendeva soltanto una cosa: attenzione ed affetto. Una testimone racconta che “ogni pomeriggio alle due spaccate, cascasse il mondo, le comari della Venezia se ne scendevano a veglia e Bruna faceva parte della combriccola. Apparentemente se ne stava in disparte, tuttavia sembrava sempre in cerca delle premure del prossimo e, se nessuno la considerava, arrivava a distribuire benevoli scappellotti pur di calamitare l'attenzione su di sé”. In disparte rimaneva anche durante le sagre e feste del quartiere, dove però intimamente sembrava rallegrata dal vedere i bambini divertirsi e ballare. Questa povera anima semplice, infiammata da un bisogno infinito di amore che tracimava in una sorta di ricerca ansiogena continua di mostrarsi tramite la beneficenza, era in fondo una vittima, vittima di un amore paterno non conosciuto a sufficienza, vittima del suo mondo interiore sconvolto dalla malattia infantile, vittima delle distanze invisibili eppure siderali che dividono il marginale, il deviante, il tipo strano, dal resto del mondo. Distanze che, poverina, cercava di ridurre con l’unico modo che conosceva: fare del bene al prossimo. Il bambino povero della Venezia era per lei la proiezione di quella povera bambina cenciosa che era stata, il giovane soldato che le parlava della fidanzata la proiezione di un amore che non aveva conosciuto, il padre di famiglia disoccupato l’immagine di quel padre agognato e perso troppo presto.

 Il suo rapporto con l’Autorità fu burrascoso. Invasata da quello spirito anarchico che è proprio della sua città, quando passavano le camicie nere sputava per terra ed inveiva contro Mussolini, considerato la fonte della italica disgrazia. Due o tre volte questo atteggiamento le costò dei periodi di reclusione nell’ospedale psichiatrico di Volterra, d’ordine del Prefetto. La legislazione fascista associava la ribellione politica ad una forma di malattia psichica e prevedeva l’internamento obbligatorio in ospedali che, in realtà, erano delle carceri vere e proprie.

Ma alla fine non passò inosservata al Ras fascista di Livorno, Costanzo Ciano, che, con il fiuto politico che lo contraddistingueva, capì che questa popolana antifascista, così benvoluta dalla Livorno povera, poteva tornargli utile come strumento di propaganda. Allora la invitò, un giorno, a casa sua. Possiamo soltanto immaginare cosa volesse dire, per una ragazza cresciuta nei gomitoli di strade stretti, fatiscenti e maleodoranti della Venezia prendere un tram per andare nell’altra Livorno, quella dei ricchi, all’Ardenza, fra strade larghissime e pulite, villini familiari immersi nel verde, il profumo di sale del mare anziché il puzzo di botro dei fossi, l’odore dei pini mediterranei anziché quello delle taverne, le signore eleganti, con veti candidissime, che prendevano il tè alle baracchine, anziché le grasse popolane che bevevano il rumme. Un viaggio incredibile, trasognato, qualcosa di simile a quello di un ragazzo uscito da una bidonville africana che arriva in una metropoli europea. Ciano la accolse con tè e pasticcini nel suo studio personale, fra busti marmorei del Duce, dipinti di macchiaioli toscani, mobili antichi laccati. Possiamo solo immaginare la povera Bruna, con il suo passo zoppicante, il suo sguardo strabico, i suoi vestiti rammendati mille volte, la sua criniera mora, tenuta a bada da un mollone, che non conosceva parrucchiera, che avanzava sul parquet dell’enorme stanza, guardandosi intorno come se si trovasse in un pianeta alieno. E le disse “ma dimmi, Bruna, cosa ti serve? Io per te faccio tutto”. Allora lei, ripresasi dalla sua meraviglia, con prontezza e sfrontata gli disse “lo sa’osa, Eccellenza? Vorrei rifammi i denti”. Ciano le pagò il dentista, e da quel giorno, ogni volta che uno squadrista le si avvicinava per pestarla o arrestarla, gli mostrava i bei denti bianchi rifatti e gli diceva “bimbo, sta cheto che sono ami’a di Ciano”. Da quel momento, lo scaltro gerarca non mancò di rifornirla di generi di conforto, che lei regolarmente distribuiva ai più bisognosi, trasformandola, suo malgrado, in un fattore di stabilizzazione sociale. 

 La "modesta" dimora del gerarca Ciano


 

La sua fine è avvolta nel mistero, come per ogni leggenda che si rispetti. Nella Livorno martoriata da ben cento bombardamenti aerei, anche la famiglia di Ciucia fu sfollata nelle colline del Gabbro, attorno alla città. Lì, a giugno 1944, la ragazza, ad appena 33 anni, scompare nel nulla. C’è chi dice che sia saltata su una mina mentre cercava di rientrare a Livorno al seguito delle truppe americane, nell’intento di andare a curare i feriti rimasti in città, chi che sia stata falciata da una mitragliata dei tedeschi in fuga, chi giura di averla vista, ancora viva, ma mutilata ad una gamba, su un barroccio, chi giura di averla vista fucilata dai tedeschi prima che si ritirassero. Nessuno lo sa. Negli anni cinquanta, i familiari la fecero dichiarare morta. Una tomba vuota, con la sua unica foto rimasta, è all’ingresso del cimitero dei Lupi. 

 Il quartiere Venezia di Livorno distrutto dai bombardamenti


 

Siccome nessuno l’ha mai vista morta, allora a me piace pensare che, come per quelli che hanno visto Elvis vivo, sia sopravvissuta alla guerra. Magari andandosene negli Stati Uniti con qualche ragazzone della U.S. Army di cui si innamorò, o magari, stanca dell’aria malsana del suo quartiere di città ed affascinata dalla campagna del Gabbro, che sia rimasta lì, in qualche paesino rurale della Val di Cecina dove la gente pensa ai cazzi suoi e non fa tante domande, con un nome falso, a curare il suo orto, a sputare sui fascisti ed a continuare a fare del bene, in segreto. Se lo sarebbe meritato. 

Per altri dettagli su questo personaggio straordinario, cfr. "La Ciucia per tutti, Bruna per noi", di Tiziana Savi, Books & Company, 2007