venerdì 11 novembre 2022

La proposta di riforma del Patto di Stabilità e Crescita della Commissione Europea

 


La Commissione Europea ha appena annunciato le direttrici generali della riforma del Patto di Stabilità che proporrà al negoziato ed all’approvazione con gli Stati membri, attraverso un comunicato stampa e delle linee-guida.

I commenti dei quotidiani italiani sono improntati ad un cauto ottimismo. Evidentemente, dalla fine del governo Draghi le aspettative erano talmente pessimistiche che questaproposta, che va ancora negoziata con gli Stati membri, sembra essere il minore dei danni. E’ veramente così? L’impressione è che la Commissione abbia voluto dare un contentino generico agli Stati membri a più alto debito, in particolare all’Italia, facendo luccicare una sembianza di ritorno ad un certo grado di sovranità sulle politiche di bilancio, in grado di accontentare le narrazioni della destra al potere, senza però realmente incidere sulle radici strutturali della condizione di difficoltà finanziaria e crescita assente di Italia, Grecia e, in misura minore, Spagna, e rinunciando, evidentemente per sempre, a fare il salto di qualità vero e proprio, quello che comporterebbe un bilancio europeo unico, con una gestione unificata del debito pubblica, in definitiva una vera integrazione economica e politica, che evidentemente i Paesi nordici, Germania in testa, non vogliono, e che in futuro potrebbe dare adito a fughe unilaterali dal progetto europeo.

Infatti, la proposta fa piazza pulita delle proposte, soprattutto italiane (a partire dal paper di Giavazzi, che costituiva la posizione ufficiale del governo Draghi) di una presa in carico comune di una parte del debito, almeno dell’extradebito generato dalla crisi pandemica, quindi di quel debito che non deriva da “colpe” degli Stati membri, ma che è stato generato da eventi esogeni ed incontrollabili. Rinunciando a fare questo passo avanti, tutti gli Stati membri si ritroveranno ad avere meno spazi di bilancio ,ed essere più deboli, quando arriverà la prossima crisi sanitaria/ambientale o economica, e ciò vale anche per Germania ed Olanda, il cui rapporto debito pubblico/Pil è cresciuto, rispettivamente, fino al 69% ed al 52% (senza contare l’enorme indebitamento privato di questi Paesi, legato in parte anche al debole intervento pubblico nell’economia e nella società, e, per la Germania, il debito nascosto nel sistema bancario a controllo pubblico dei Lander o nella sua Cassa Depositi e Prestiti) .

Si delinea un sistema che, sicuramente, avrà il pregio della semplicità, cancellando i bizantinismi teoretici del calcolo del trend strutturale del bilancio, dell’output gap e del tasso di disoccupazione di equilibrio, su cui si basava la vecchia versione del Patto di Stabilità, e che tanto male ha fatto all’economia italiana, imponendo una austerità irragionevolmente scollegata dal trend reale di crescita e cancellando l’obbligo di riduzione del debito pubblico di un ventesimo all’anno, del tutto irraggiungibile senza politiche fiscali irrazionalmente restrittive. Ma spariscono anche tutte le clausole di flessibilità che consentivano di supplire parzialmente a questi bizantinismi punitivi, e che regolarmente ogni governo italiano negoziava con la Commissione, anno per anno.

Tutto sarà sostituito da un negoziato one-to-one fra Commissione e Stato membro, per determinare un piano di medio periodo di stabilità finanziaria, di respiro quadriennale, estendibile fino a 7 anni se lo Stato membro dimostra di poterlo basare su investimenti e riforme in grado di supportare, con una maggiore crescita potenziale, la sostenibilità del debito e di raggiungere i target di policy della Ue (ambiente, digitalizzazione, ecc.). Tale piano dovrà collocare il debito pubblico nazionale su un trend ragionevole di discesa o che quantomeno rimanga su “livelli prudenti”, e dovrà fornire assicurazioni che il disavanzo di bilancio totale rimanga sotto la soglia del 3% del Pil, mantenendo in piedi questo parametro del tutto arbitrario ed incomprensibile.

A guidare il piano, che sarà monitorato annualmente, sarà un solo parametro: la spesa primaria netta che, a quanto pare, anche se lo stringato testo della Commissione Europea non lo esplicita, dovrebbe essere un sinonimo del saldo primario di bilancio (differenza fra spese ed entrate al netto della spesa per interessi del debito pubblico). Evidentemente, nel loro piano quadriennale negoziato con la Commissione, i governi nazionali dovranno dimostrare un calo di tale parametro in grado di riflettersi in un deficit/Pil inferiore al 3% ed in un livello discendente, o quantomeno prudente, del debito pubblico. Faranno eccezione a tale percorso di austerità solo gli investimenti pubblici particolarmente qualificanti, o perché manifestamente in grado di aumentare la crescita potenziale, o perché coerenti con i target europei di investimento (gli stessi del Pnrr, per capirci) o perché in grado di fornire un migliore controllo delle finanze pubbliche (ad es. investimenti in sistemi di razionalizzazione degli acquisti intermedi o degli appalti pubblici, o in tecnologie per la repressione dell’evasione fiscale). Ma questa eccezione per gli investimenti pubblici qualificanti non si traduce in una esplicita riserva, in una specie di “golden rule” predeterminata per specifiche categorie di spesa e garantita a priori, essendo necessario negoziarla caso per caso con la Commissione nell’ambito dei piani fiscali di medio termine.

E qui viene il punto più pericoloso potenzialmente per l’Italia: i piani fiscali quadriennali devono essere negoziati fra Stato membro e Commissione. Ed ovviamente in questo negoziato entrano elementi quali la forza contrattuale del singolo Paese, che per l’Italia non è la stessa della Germania o della Francia, la credibilità del governo nazionale che negozia, le pressioni dei mercati finanziari, attraverso i segnali dei rating delle agenzie e dello spread, che spingeranno la Commissione ad essere più o meno severa in sede di negoziato. Anche perché il sistema delle sanzioni sarà molto più rapido ed efficace: per i Paesi, come il nostro, che superano il rapporto debito/Pil del 60%, potrà scattare immediatamente in caso di scostamento del trend di finanza pubblica dello Stato membro rispetto al percorso negoziato con la Commissione, anche solo per un anno. Ci potrà essere anche la sospensione dei pagamenti a valere sui fondi strutturali o del Pnrr dovuti allo Stato membro, se esso non si adeguerà immediatamente alle raccomandazioni per tornare subito sulla “retta via”. Potranno essere imposte sanzioni, sotto forma di percorsi di rientro dal debito più stringenti, anche nel caso in cui lo Stato membro non adempia ai suoi impegni in materia di investimenti e riforme strutturali.

Insomma, rispetto al precedente sistema sanzionatorio, talmente farraginoso e burocratizzato da non essere di fatto attivabile, nel nuovo Patto di Stabilità le sanzioni dovrebbero essere rapide, efficaci e drammatiche. Persino la procedura per squilibri macroeconomici eccessivi, sinora “backward looking”, perché basata sui dati storici dimostranti uno squilibrio, sarà complementata da un approccio “forward looking”, nel quale, oltre agli squilibri preesistenti, si andranno anche a prevedere quelli possibili in futuro, imponendo allo Stato membro politiche e riforme in grado di prevenirli, creando un sistema di vigilanza molto più costrittivo per lo Stato membro, che contempla anche possibili rischi futuri, oltre a quelli presenti. Alla faccia della restituita autonomia nazionale di politica economica di cui la Commissione parla…

La chicca finale della proposta è quella di un potenziamento del meccanismo di sorveglianza post-programma per Paesi, come la Grecia (o come l’Italia, in un futuro che non possiamo affatto escludere) che hanno chiesto assistenza finanziaria all’ESM ed hanno quindi stipulato un memorandum: le politiche di bilancio del Paese saranno ancor più fortemente vincolate di quanto già siano oggi alla valutazione della sua capacità di ripagare i prestiti ricevuti, di completare le riforme strutturali imposte nel memorandum e di riaccedere ai mercati finanziari. Se pensiamo che la Grecia, già con il meccanismo attuale, resterà vincolata a meccanismi di sorveglianza per molti anni, non c’è da essere allegri.

E tutto questo avviene nel quadro di una mutazione della governance macroeconomica, attuata tramite la riforma del MES, che non può essere scissa dalla riforma del Patto di Stabilità, costituendo un pacchetto unico: infatti, proprio in questi giorni la Commissione sta spingendo Italia e Germania a dare l’approvazione definitiva a questa riforma che, ricordiamolo, prevede due linee di credito diverse, con condizionalità differenziate fra Paesi a basso ed alto debito (per i quali è anche prevista una preliminare analisi di sostenibilità del debito, con conseguenti rischi di tipo reputazionale per un Paese che chieda una forma di assistenza finanziaria, magari per difficoltà temporanee legate a fattori esogeni, come una nuova crisi sanitaria), meccanismi legislativi pensati per facilitare il default e la ristrutturazione del debito sovrano (che incidentalmente fanno crescere anche il rischio, e quindi il costo, del finanziamento di mercato del debito pubblico per il nostro Paese), un ruolo parallelo del Mes rispetto alla Commissione Europea nella gestione di crisi finanziarie, che ne fa un organismo politico-tecnocratico pericoloso in termini democratici.

Va infine rilevato che questa proposta, già non molto bella, come si è visto, è già stata aspramente criticata dai governi tedesco e olandese, che la vogliono rendere ancor più pesante. Senza che il Governo italiano, sputtanato per le sue derive sui diritti umani ed isolato a livello internazionale (non sarà certo Orban ad aiutarci) possa mettere bocca e negoziare alcunc

sabato 5 novembre 2022

Elezioni politiche israeliane: preoccupazioni e riflessioni da fare

 



E’ ovviamente molto preoccupante l’esito delle elezioni in Israele. Nasce, con la più alta partecipazione popolare al voto degli ultimi anni, un governo di destra la cui maggioranza dipende in modo vitale dalla presenza di un partito di destra religiosa radicale, che affonda le sue radici ideologiche nelle idee del rabbino Kahane (una teocrazia ebraica estesa ai territori della Cisgiordania assegnati all’Autorità Nazionale Palestinese, dove gli arabi verrebbero privati di qualsiasi diritto, ed anche gli ebrei, se di sinistra o considerati inaffidabili, dovrebbero temere l’espulsione). Partito guidato da un leader violento, abituato a farsi fotografare con la pistola in pugno quando affronta qualche palestinese o quando guida la costruzione di qualche insediamento illegale in territorio palestinese, più volte finito sotto indagine per attività terroristiche o di incitamento all’odio razziale.

Di fatto, con l’alleanza con Ben-Gvir, a capo del terzo partito più votato, e con altre formazioni radicali, il redivivo Netanyahu abbandona l’anima moderata del Likud e, sin dal discorso di celebrazione della vittoria elettorale, vira decisamente su temi identitari, parlando di Israele come nazione ebraica (dimenticando i cittadini israeliani arabi) e basata su Gerusalemme come capitale. Rimosso dal suo incarico a causa di pesanti accuse di corruzione, frode ed abuso di potere, lo storico leader della destra israeliana ha lavorato in sordina, in questo anno e mezzo, per paralizzare il sistema politico parlamentare, logorando i governi moderati di unità nazionale cui lo stesso Likud partecipava, da quello di Gantz a quello Bennett, fino a quello di Lapid, con il risultato che questa risulta essere la quinta elezione politica in tre anni, ed il quinto governo nello stesso arco di tempo.  

Tale esito è, a ben vedere, una ulteriore tappa della crisi delle democrazie parlamentari cui assistiamo in molte parti del mondo, fra cui l’Italia. Si tratta di una fase storica ciclica, nella quale, di fronte a forti difficoltà economiche e sociali, le popolazioni preferiscono affidarsi ad uomini forti ed a governi di impronta autoritaria. Avvenne negli anni del secondo dopoguerra, e sta avvenendo in questi anni, sotto la spinta di una crisi della globalizzazione liberale, che non sembra più in grado di garantire le promesse di crescita e benessere e più in generale di sicurezza. La reazione alla paura, all’impoverimento ed alla crescente instabilità esistenziale è quindi quella di tornare dietro la protezione labile dei confini nazionali, dell’identità etno-religiosa e dell’ordine pubblico, affidandosi a leader che appaiono sufficientemente “forti” da garantire tale difesa. Evidentemente, un simile sfondo non può che favorire la destra, che porta nel suo Dna messaggi nazionalistici, etnocentrici e securitari, aprendo la strada ad uomini “rassicuranti”, anche a costo di pagare tale rassicurazione con una riduzione delle libertà e dei diritti civili.

Poi, su questo scenario di crisi generalizzata delle istituzioni democratiche, si innestano fattori locali: il pluridecennale stato di guerra in cui Israele si trova sin dalla sua nascita come Stato, il fallimento di ogni trattativa o accordo (va detto, anche per colpa di un irrealistico estremismo da parte araba, chissà se nella sua tomba Arafat si pente, oggi, di aver rigettato l’offerta di Barak e Clinton, nel 2000, che avrebbe dato vita ad un vero Stato palestinese, chissà quanto male fanno alle causa palestinese le politiche terroristiche di Hamas, Hezbollah e del Jihad Islamico) hanno instillato, in una quota crescente di popolazione israeliana, l’idea che l’unica soluzione per ottenere la pace sia il genocidio definitivo dei palestinesi e la privazione di ogni diritto per gli arabi israeliani. Le difficoltà economiche legate all’impennata dell’inflazione (salita fino al 5%) ed a una possibile bolla immobiliare (con il costo delle abitazioni cresciuto del 18% in un anno) hanno poi spostato a destra molto elettorato, nell’aspettativa che le politiche fiscali e monetarie restrittive tipiche della destra mettano sotto controllo l’aumento dei prezzi (va poi anche detto che l’espansione delle colonie in territorio palestinese offre, a determinati segmenti di popolazione, una soluzione abitativa a basso costo, purché si sia determinati a difendere la bandiera del sionismo).

Netanyahu, a ben vedere, a fronte della scomparsa delle radici socialiste ed egualitarie del sionismo storico, di fronte all’esigenza di mantenere il potere per depotenziare i processi a suo carico, pensa di realizzare una operazione simile a quella con cui Berlusconi addomesticò e moderò la destra postfascista italiana. Ma le differenze sono tante, e l’operazione di Netanyahu è molto difficile. Intanto la maggioranza è piuttosto fragile, basandosi su cinque parlamentati di vantaggio. Con questa maggioranza fragile, il nuovo governo dovrà affrontare tematiche molto complesse come la gestione dell’inflazione ed il rilancio dell’economia, a fronte di un impoverimento crescente della popolazione (secondo un recente rapporto dell’Ocse, il 18% degli israeliani è in condizioni di povertà relativa, mentre il 16% dei lavoratori deve lavorare per più di 50 ore alla settimana per avere un salario dignitoso, 2,6 volte in più rispetto alla media dei Paesi Ocse) la gestione dell’immigrazione di ebrei russi ed ucraini (circa 40.000 ebrei ucraini e russi sono fuggiti in Israele dall’inizio della guerra, e non ci si aspetta che il flusso diminuisca), che rischia di peggiorare le tensioni sociali interne e, ovviamente, una riforma della magistratura che la metta sotto scacco rispetto al potere politico, per poter uscire dai processi a carico del premier, riforma che ovviamente scatenerà un conflitto istituzionale dagli esiti incerti.

Il tutto avviene in uno scenario internazionale non proprio favorevole: il governo britannico ha già dichiarato che rinuncerà alla sua delegazione diplomatica a Gerusalemme, per protesta nei confronti dell’estrema destra al potere. Dagli USA arrivano segnali di scarso gradimento, anche perché Netanyahu potrebbe (anche se non credo che lo farà, l’uomo è fin troppo prudente) riallacciare i rapporti di amicizia storici con Putin, al fine di ottenere energia a prezzi di favore e/o bloccare l’immigrazione ebraica russa. E’ poi molto difficile che i Paesi arabi possano digerire un governo così spostato a destra, rendendo più difficile, ad esempio, l’attuazione dell’accordo di pace proposto da Trump, molto favorevole ad Israele, e sostenuto da diverse petromonarchie arabe, o la normalizzazione in atto dei rapporti con il Libano.

In sostanza, non sembra che il futuro di questo governo, almeno dentro un quadro di rispetto della Costituzione, sia particolarmente semplice o florido. E’ però certo che la sinistra israeliana debba riflettere profondamente sui suoi errori, ad iniziare dalla frammentazione in liste, listine e listarelle, che ha indebolito il partito laburista senza generare consenso aggiuntivo. Così come i partiti arabi, quasi scomparsi dalla nuova Knesset, debbono ritrovare la capacità di rispondere alle esigenze degli arabi israeliani. Soprattutto Meretz deve riflettere, dopo la sua sconfitta epocale, sul suo posizionamento sociale, un errore fin troppo ripetuto nelle sinistre di tutto il mondo e che ci ricorda quello che è avvenuto con il Pd da noi: secondo Bronner, docente universitario, “il Meretz era in declino da anni, non ha voluto e saputo ridefinire il suo ruolo di forza di sinistra, ha continuato ad essere solo un punto di riferimento per la classe media istruita, progressista, ashkenazita e non si è avvicinato alle classi popolari, alle periferie delle città dove il costo della vita, la disoccupazione e il degrado sono un flagello. Non solo, sotto l’urto delle tendenze ultranazionaliste ora prevalenti nell’opinione pubblica, ha diluito l’impegno per una soluzione negoziata con i palestinesi”.

I partiti arabo-israeliani pagano i loro dissidi interni, l’inconciliabilità fra posizioni vicine al baathismo e posizioni islamiche conservatrici, i rancori fra leader, i frazionamenti a pochi giorni dal voto. Sopravvive, in una posizione del tutto marginale, con appena il 4% e 5 seggi, il partito Ra’am, che di fatto rappresenta solo il segmento più integrato e benestante della popolazione araba in Israele, non a caso vicino a Netanyahu ed a Lapid nel recente passato.

E’ altrettanto certo che ci sono degli spostamenti strutturali nell’opinione pubblica israeliana, in direzione di atteggiamenti sempre più ostili ad una visione negoziata dei rapporti con gli arabi o ad una prospettiva di pace e tolleranza. Questo elemento pone delle questioni importanti alle leadership palestinesi: lo spazio di quello che possono ottenere in via negoziale si sta riducendo sempre di più, perché quote crescenti di elettori israeliani, votando all’estrema destra, si vanno convincendo che la soluzione sia semplicemente quella di azzerare ogni forma residua di autonomia amministrativa e territoriale palestinese e ogni residuo diritto civile e sociale degli arabi. Il passo verso un vero e proprio genocidio non è poi nemmeno tanto lontano. Ciò pone un dilemma ad Hamas, ad Al Fatah ed alle altre organizzazioni politico-militari palestinesi: siccome il loro nemico è incomparabilmente più forte di loro militarmente, la deriva verso forme di radicalizzazione politica dell’opinione pubblica israeliana va fermata in qualche modo, riprendendo la via della diplomazia, non assecondando la radicalizzazione con una ulteriore escalation (piuttosto inutile per la causa palestinese anche in passato, ancor più nel presente, in cui i riflettori dei media e della politica occidentale sul Vicino Oriente si vanno spegnendo), prima che la finestra residua di tale strada si chiuda definitivamente.


lunedì 26 settembre 2022

Una prima analisi del voto politico

In attesa di avere dati più precisi sui flussi, e quelli ufficiali sulla composizione delle Camere, si possono già inferire alcune considerazioni di massima.

A) il vero vincitore delle elezioni è stato l'astensionismo. Che non è di sinistra, come alcuni pensavano, creando liste che si dovevano rivolgere a questa fantomatica figura di elettore deluso di sinistra: Up e i sovranisti di sinistra hanno fatto un buco grosso come la luna. Up ha preso gli stessi elettori della Sinistra Arcobaleno e poi di Pap, senza riuscire ad allargare minimamente l'area del dissenso di sinistra, essenzialmente perché basata su richiami identitari ormai incomprensibili agli elettori e su una proposta poco convincente di movimentismo senza movimenti; Italia Sovrana e Popolare ha evidenziato nell'insieme una proposta velleitaria ed infantile;

B ) l'astensionismo sembra essere connotato principalmente da ex elettori del M5s che Conte non ha recuperato, "duri e puri" incapaci di perdonare la fase governista attraversata dal M5s;

C) l'astensione è cresciuta soprattutto al Sud, il che, da un lato, smentisce le cazzate su un presunto assistenzialismo del Rdc (altrimenti il voto astensionista sarebbe andato al M5s o in misura minore a Di Maio) e dall'altro può segnalare che determinati meccanismi di reclutamento del consenso, tipici del Mezzogiorno, sono parzialmente saltati, come effetto della minore capacità di politici di Fi, Pd e Centro di promettere vantaggi e provvidenze, attesa la prevedibile vittoria dei FdI, la cui crescita e' ancora troppo recente per creare feudi elettorali di grandi dimensioni;

D) Questa è solo una ipotesi, da verificare con i dati sui flussi: riduzioni di partecipazione, seppure su tassi inferiori rispetto alla media nazionale, si sono registrate anche nelle regioni "rosse" del centro nord. Ciò potrebbe essere il risultato di una parziale disgregazione degli apparati di consenso ereditati dal vecchio Pci, sempre meno in grado di tenere in piedi la ruota del voto. Il sistema cooperativo, specie nel commercio ed in edilizia, è meno forte del passato, gli apparati territoriali del Pd si sono parzialmente decomposti, dopo la cura (voluta da Letta) a base di riduzione del finanziamento pubblico ai partiti ed agli organi di stampa. Ciò ha facilitato la penetrazione della destra in tali territori ed anche una astensione di elettori provenienti dal Pd; 

E) il Pd ha perso perché non aveva una strategia. Di fatto, Letta ha vivacchiato esclusivamente su un progetto preso a prestito. Il motivo per il quale è stato richiamato dalla Francia era quello di coprire Draghi e la sua agenda politica. Tutto era costruito attorno a tale  necessità. Persino il progetto di cambiamento della legge elettorale in senso proporzionale era funzionale alla esigenza di mantenere Draghi anche nella legislatura successiva. Ritrovatosi senza Draghi, soprattutto perché Draghi, con il tentativo di andare al Quirinale, ha deteriorato la sua stessa relazione con la maggioranza che lo sosteneva, Letta si è ritrovato senza progetto. Da leader mediocre, ha prima incolpato inopinatamente il M5s per un presunto tradimento inesistente (Draghi si è dimesso con due voti di fiducia a favore) e poi ha cercato disperatamente di costruire una coalizione al centro, naufragando  vergognosamente di fronte al trasformismo di Calenda. Infine, ha vivacchiato su temi tradizionali sui diritti civili e l'obsoleto richiamo al voto utile, che non ha scaldato i cuori, soprattutto perché al Sud il voto utile si è rivelato essere quello per il M5s. È una catastrofe elettorale, che per Letta significa la fine delle sue ambizioni di leader e che apre una fase congressuale contorta, nella quale si confrontano due esponenti del territorio che ha tenuto (tipica scorciatoia che segnala debolezza), uno più vicino alla collaborazione attiva con la destra su temi come l'autonomia differenziata e le riforme istituzionali (non a caso, Bonaccini si è subito complimentato con la Meloni) e l'altra ad una inoffensiva proposta sui diritti civili ed a una angelica posizione antifa, che però non produce niente sul terreno dei diritti sociali e sembra più che altro una forma di distrazione di massa dai problemi materiali delle classi subalterne. Da nessuno dei due candidati alla segreteria può uscire una qualche significativa apertura socialista. 

F) la destra ha vinto, ma ha due enormi problemi. A causa del tracollo della Lega, non ha maggioranza parlamentare senza Forza Italia in nessuno dei due rami del Parlamento, e Berlusconi sta dando chiari segnali di insofferenza per le posizioni dei FdI. O la Meloni accetta di farsi "commissariare" da Berlusconi, con una conduzione moderata e liberale del governo, perdendo però rapidamente il consenso guadagnato grazie a posizioni più radicali, oppure Berlusconi scartellizzera' alla prima difficoltà seria del governo in sede internazionale, creando i presupposti per un nuovo governo tecnico di unità nazionale. Anche perché il ciclo politico di Salvini sembra essere finito, si tratta solo di collocarlo in qualche posizione di governo decorosa, ma l'indirizzo della Lega sarà deciso tra Zaia e Giorgetti, in chiave moderata, liberista ed europeista. O la Meloni si adegua, perdendo gran parte dei suoi voti di protesta, o verrà silurata. I primi movimenti del suo factotum Crosetto, anche su pressioni americane e di Bruxelles, sembrano indirizzarsi verso la moderazione e l'adeguamento, ma FdI ha un personale politico radicalmente nostalgico del fascismo, dal quale la Meloni non può prescindere facilmente senza perdere connessioni con territori strategici. Il secondo problema è che la destra non ha la maggioranza dei due terzi necessaria per cambiare da sola la Costituzione, nemmeno insieme ai centristi di Azione. O abbandona il progetto di riforma presidenziale, con gravi conseguenze elettorali, o per realizzare qualcosa di simile dovrà affidarsi all'azzardo di un referendum, che come si è visto in passato ha distrutto più di un leader, Renzi in primis. O ancora dovrà attrarre nel progetto il Pd, ma così facendo aprirà la strada ad una nuova maggioranza di unità nazionale, cioè ad un nuovo governo tecnico per lei letale;

G) il centro calendian-renziano non ha mostrato alcuna capacità espansiva. Il risultato rispecchia più o meno la quota percentuale della medio-alta borghesia. I ceti medi in impoverimento non hanno abboccato. Calenda stesso e' un leader azzoppato. La sconfitta nel suo collegio, dove ai tempi delle elezioni comunali aveva preso il 27%, ritrovandosi ora con il 14%, peserà sulla sua leadership. Difficilmente Renzi perdona chi si indebolisce. Il rischio è la spaccatura fra calendiani e renziani, divenendo ininfluenti;

H) il M5s vince la battaglia per la vita e mostra segnali di ripresa, legati ad una piattaforma vicina a posizioni socialiste democratiche ed ambientaliste. Il rischio è che questo capitale si disperda in un troppo frettoloso nuovo abbraccio con il Pd o, anche in virtù della presenza pesante di Grillo, in un prevalere di posizioni di carattere giustizialista, moralistico  e manettaro, che lo trasformerebbero in una sorta di replica di Di Pietro. E sappiamo la fine che Di Pietro ha fatto. Occorre aiutare il Movimento, unica forza di sinistra e progressista esistente in Parlamento, ad evitare di autosabotarsi. 

Una conclusione generale: non vi è una possibile prospettiva di sinistra nel Pd, anche se la Schlein vincesse la corsa alla segreteria. La struttura di potere del partito guarda sempre ad un rapporto con gli interessi economici e geopolitici neoliberisti, alla Schlein verrebbe lasciato solo uno spazio residuale sugli Lgtb o sullo ius scholae, ma non potrà mai imporre una piattaforma socialdemocratica sul piano dei diritti sociali, ammesso che lo voglia e che ne sia capace. Figuriamoci se Letta, Franceschini, Zingaretti o Bonaccini le permetteranno di mettere le mani nelle questioni sociali ed economiche in modo progressista. 

D'altro canto, il continuo fallimento degli accrocchi last minute della cosiddetta sinistra radicale, fra la subalternità di Si al Pd e il movimentismo infantile di Up dovrebbe mostrare, dopo enne tentativi, l'inutilita' di tale prospettiva, buona solo per dare illusioni a micro sette sganciate dalla realtà. 

L'unica prospettiva socialista possibile, per esclusione delle precedenti, è quella di un ingresso organico nel M5s di una forte componente socialista, molto agguerrita e preparata politicamente, in grado di influenzare in modo sistematico l'orientamento socialdemocratico, pacifista ed ambientalista.

Non ci sono alternative. Almeno nel medio termine. 

mercoledì 17 agosto 2022

Una analisi delle prospettive politiche della destra

 




E' evidente che andiamo in direzione di una robustissima vittoria elettorale della destra, favorita anche da una legge elettorale incomprensibile. 

E' sostenibile l'idea che la destra riesca a durare per tutta la legislatura, anche in presenza di una vittoria amplissima? Il programma elettorale è chiaramente insostenibile. Ho fatto quattro conti. In base ai dati del Dipartimento Finanze, la versione minimale della flat tax (solo per partite IVA fino a 100.000 euro di reddito e solo per soggetti Irpef che vedano crescere i loro redditi per la parte incrementale) costa circa 6,5-7 miliardi. Il superamento della Fornero, anche nella versione più "soft" della quota 100 introdotta da Salvini, costa 3 miliardi all'anno (quota 41 ne costa circa 4). Un aumento anche assolutamente minimo (20 euro al mese) delle pensioni sociali e minime costa 1 miliardo. Con la riduzione dell'IVA sull'energia viaggiamo sui 3 miliardi all'anno. Un dimezzamento dell'IVA sui soli prodotti alimentari di prima necessità (quelli soggetti alle aliquote del 4% e del 10%) costa circa 3 miliardi. Il cuneo fiscale, anche nella versione minimale proposta dal governo Draghi, con effetti quasi impercepibili, costa 3,2 miliardi.

Siamo già attorno ai 20 miliardi di promesse elettorali. E poi ci sono gli aiuti per le famiglie, per i divorziati, per la natalità...Arriviamo facilmente ai 25 miliardi. E poi c'è la promessa di portare la flat tax, a regime, per tutti, una cosa che costerebbe attorno ai 20 miliardi all'anno, anche con l'aliquota più alta proposta da Berlusconi. E arriveremmo a circa 37-38 miliardi di maggior spesa annua strutturale. E ancora, la proposta elettorale della destra sembra riproporre una qualche forma di bonus per l'edilizia...

E' inutile andare a Bruxelles a dire che la flat tax innesca maggiore crescita economica e riduce l'evasione, o che la riduzione dell'aliquota IVA produce maggiori consumi. Da questo orecchio non ci sentono (anche perché, dalla reaganomics in poi, le curve di Laffer funzionano malissimo). E' inutile pensare di recuperare risorse dall'abolizione del reddito di cittadinanza: la misura costa 8 miliardi all'anno. Basta appena a coprire la flat tax nella sua versione "mini".

Entro l'inverno, è probabile che ci sarà la bozza di riforma del Patto di Stabilità, che con l'incrinamento del rapporto strategico Francia-Italia impostato da Draghi rischia di essere una proposta piuttosto severa, che concederà al massimo qualche investimento strutturale extra deficit e ed un allentamento della regola del pareggio strutturale, introducendo tetti alla spesa corrente.

E' molto probabile, quindi, che il 60-70% delle promesse elettorali della destra sia semplicemente irrealizzabile perché non passerebbe il vaglio della Commissione Europea. I primi problemi con la Ue potrebbero arrivare già ad aprile, se nel nuovo DEF il nuovo Governo anticipasse questa roba qui. Arriverebbero "raccomandazioni" al ribasso durissime.

E poi c'è la promessa di "rivedere" il Pnrr, per togliere tassisti e balneari dalle riforme strutturali concordate con la Ue. Una revisione che ha zero spazi di negoziato. Le liberalizzazioni sono condizione sine qua non per l'erogazione delle rate del Pnrr e la Commissione considera il documento chiuso ed il negoziato finito.

Il capitolo di contrasto alle migrazioni è un altro specchietto per le allodole. La Libia è un Paese pericolosissimo in guerra civile, pensare di mettere hotspot a gestione europea, sostituendo i lager gestiti dai libici, è pura propaganda. Peraltro, le legislazioni di tutti i Paesi dell'Africa del Nord proibiscono di creare sul loro territorio aree a sovranità extraterritoriale gestite da stranieri. Il blocco navale può funzionare, ma se svolto soltanto dalla nostra Marina e Guardia Costiera è costosissimo, richiedendo quindi la collaborazione di altri Stati europei. Ma come dimostra l'esperienza di Frontex, si possono fermare le imbarcazioni soltanto nelle acque territoriali del Paese di partenza, che ovviamente sono gestite dalla Guardia costiera libica, corrotta e poco efficiente. Le imbarcazioni intercettate in acque internazionali, o ancora paggio nelle nostre acque territoriali, non si possono semplicemente prendere e riportare indietro. C'è una legislazione internazionale che impone di portarle nel porto più sicuro. Cioè o da noi o a Malta, ma a meno di non invadere militarmente La Valletta, i maltesi ci sentono poco da questo orecchio, ed i rimpatri sono costosissimi (un rimpatrio di massa di tutti i clandestini presenti in Italia costerebbe circa 3 miliardi) e non fattibili per ostracismo dei Paesi di origine, con i quali occorrerebbe fare ulteriori accordi economici molto onerosi per "ammorbidirli". Quanto poi a una revisione solidale di Dublino per redistribuire gli arrivi con gli altri Stati membri, possiamo anche dimenticarcelo. Con la politica dei porti chiusi di Salvini prima o poi ci scapperà il morto. E allora sì che il governo cadrà. E la pressione migratoria dall'Africa, sotto la spinta dei cambiamenti climatici, della accelerazione demografica e della povertà, crescerà inevitabilmente nei prossimi anni: le previsioni Istat parlano di circa 250-300.000 arrivi all'anno, a fronte dei 150.000 medi del periodo pre pandemico.

Una politica meramente repressiva, come quella della destra, sarà sempre più difficile da esercitare. Secondo l’IFs, entro il 2035 gli africani in povertà saranno 80 milioni in più rispetto a quelli attuali, a causa degli effetti di lungo periodo dell’epidemia di Covid sui tassi di crescita e sulle diseguaglianze di accesso ai servizi sanitari di base. Il 50% di essi avrà meno di 26 anni, quindi sarà in età da emigrazione. 118 milioni di africani saranno inoltre colpiti, entro il 2035, dagli effetti del cambiamento climatico, sotto forma di mancanza di acqua, desertificazione delle terre coltivabili, alluvioni, caldo estremo. E’ del tutto impensabile una politica di blocco che non sia seguita da interventi di sostegno allo sviluppo agricolo, economico, educativo, di institutional building,, infrastrutturale, a volta anche di pacificazione bellica, dei Paesi della fascia sub-sahariana, interventi che la nostra diplomazia può negoziare con i Paesi di partenza dei flussi in cambio di una politica di maggiore contenimento e disincentivo, materiale e culturale, all’emigrazione (anche utilizzando le reti della Chiesa ivi presenti). Interventi che, mirati a 5-6 Paesi principali di partenza e/o transito (Libia, Tunisia, Nigeria, Marocco, Bangladesh e Filippine per quanto riguarda l’Asia, considerando che il grosso dell’immigrazione, proveniente dall’Europa dell’Est, è più facilmente integrabile nella nostra società), potrebbero costare meno di un imponente sistema di blocco, repressione e rimpatrio.

Quanto alla riforma costituzionale, è molto improbabile che la destra abbia i numeri per farla da sola, poiché le proiezioni di voto parlano di un 61-62% di seggi, per cui dovrebbe convincere Calenda e Renzi, che modificherebbero in modo sostanziale i cardini stessi del progetto (essendosi peraltro dichiarati contrari al presidenzialismo), oppure affidarsi all'alea, molto rischioso, del referendum confermativo, che ha dimostrato quanto poco gli italiani apprezzino cambi profondi della Carta.

In breve: nel giro di un paio di anni al massimo, alla seconda legge di bilancio lontana dalle promesse elettorali, la destra rivelerà la sua incapacità di realizzare il suo programma, sarà commissariata di fatto da una nuova austerità, i suoi elettori saranno profondamente delusi, le scadenze per le varie tornate di voto amministrativo diverranno vie crucis, la Lega e i FdI inizieranno a farsi concorrenza ferocemente per scaricarsi a vicenda le responsabilità della mancata attuazione del programma, creando tensioni sempre meno gestibili dentro la maggioranza, e Berlusconi, incassato ciò che gli interessa (la nomina a Presidente del Senato e/o ruolo istituzionale equipollente ed una riforma restrittiva della giustizia che gli chiuda i processi residui) penserà a smarcarsi dal tandem Salvini-Meloni per evitare di condividerne la fine e collocarsi sul suo asse preferito di moderatismo. Seguito quasi certamente da Toti e Lupi, che da soli con la destra più estrema e senza la garanzia di Berlusconi hanno notevoli incompatibilità.

A quel punto, anche se FdI e Lega, insieme, dovessero ancora conservare una maggioranza parlamentare di misura, essi sarebbero di fatto commissariati dall’Europa e in caduta libera di consensi, con un esecutivo molto fragile e sottoposto ai diktat di singoli parlamentari, di fatto ingestibile. La fine sarebbe prossima, e con essa l’avvento di un nuovo governo tecnico sarebbe pressoché certo. Evidentemente, il perno di tale nuovo governo sarebbe il Pd, che si è infatti preparato la coalizione (o ha cercato di farlo, nel tentativo fallito di imbarcare Calenda) per farsi trovare pronto ad un nuovo esecutivo tecnico, cui persino FdI, con la svolta moderata, atlantista, europeista e “antifascista” che la Meloni sta dando al suo partito, potrebbe partecipare, rendendo meno amaro il fallimento del suo tentativo politico.  

martedì 12 luglio 2022

L'Argentina in un tunnel senza fine

 


L'Argentina è di nuovo nell'inferno. Migliaia di persone ieri hanno manifestato contro l'accordo con il Fmi per la ristrutturazione di un maxi prestito di 440 miliardi di dollari concesso, ad un tasso usurario del 7% (in un mondo in cui i tassi erano negativi), al precedente governo liberista di Macri.

Il ministro dell'economia Guzman, che ha firmato l'accordo di ristrutturazione a marzo, fedelissimo dell'attuale presidente Fernandez, un peronista moderato e centrista, si è dimesso, lasciando il posto ad una sodale della vicepresidente Cristina Fernandez. Con la vittoria elettorale peronista di fine 2019, il nuovo governo ha ereditato una economia in recessione da due anni anche per colpa della siccità del 2018, un disavanzo primario di bilancio del 2,2% del Pil ed un tasso di inflazione del 53%. Un quadro di destabilizzazione, aggravato dal fatto che, per sostenere il bilancio pubblico, il precedente governo Macri aveva contratto un maxi-debito di 66 miliardi di dollari posto, con la scusa di voler rassicurare gli investitori stranieri, sotto legislazione statunitense, quindi immediatamente a rischio di pronuncia di default sovrano da parte di qualsiasi tribunale Usa.
È stato necessario quindi rinegoziare immediatamente tale debito nei confronti dei creditori internazionali. La rinegoziazione ha avuto successo, comportando il riscadenzamento delle rate, il taglio del 50% degli interessi ed un haircut dell'1,9% sul valore del capitale.
Ma in conseguenza di ciò i mercati hanno perso fiducia nel Paese ed hanno disinvestito massicciamente, producendo una caduta del tasso di cambio del peso del 50% rispetto al dollaro (sul mercato nero, il cosiddetto "blue dollar", dove avvengono le transazioni maggiori) e la fuoriuscita dell'Argentina dai mercati finanziari, con la necessità di monetizzare il debito tramite emissione di moneta fino al 7,4% del Pil.

Andamento svalutativo del peso rispetto al dollaro sul mercato parallelo

Accelerazione della creazione di massa monetaria per finanziare il Tesoro


Tasso di inflazione in Argentina


Tale inondazione di moneta ed il crollo del tasso di cambio hanno continuato ad alimentare l'inflazione, nonostante il controllo statale dei prezzi dei beni primari. Il tasso di inflazione è attualmente al 48%.
In un Paese fra i più colpiti al mondo dal Covid, messo in ginocchio, nonostante le sue potenziali risorse petrolifere (sottovalorizzate dalla lunga fase di privatizzazione) dall'aumento dei prezzi dell'energia, le stime per il 2022 scontano un forte rallentamento della crescita (il 3-4% a fronte del 10,3% del 2021) ed un ulteriore aumento del rapporto debito/Pil fino al 90%, con un disavanzo primario al 2,5% del Pil che evidenzia il disordine della gestione del bilancio. L'inflazione da costi è schizzata al 66%, mentre i tetti sui prezzi dei beni primari hanno disincentivato la produzione agroalimentare ed energetica, producendo vere e proprie penurie di beni e di elettricità e fenomeni di accaparramento e speculazione sulle merci.

Disavanzo primario in % del PIL


In queste condizioni, evidentemente, era necessario rinegoziare anche l'accordo con il Fmi, divenuto rapidamente non più rimborsabile.
Tale accordo prevede, a fronte di un riscadenzamento delle rate di un debito impagabile e del calo al 3% del suo servizio, un pesantissimo taglio della spesa pubblica, che deve condurre, nel giro di un anno, il disavanzo primario di bilancio dal 2,5% del Pil all'1,9%, fino ad azzerarlo nel 2024.
Il problema è che il 70% del bilancio federale argentino è assorbito da pensioni e sussidi sociali, in un Paese in cui il 38% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Comprimere le spese per sussidi, come voleva fare Guzman su indicazione del Fmi (anche se, a onor del vero, la proposta di tagli era modulata in base agli scaglioni di reddito) può rischiare di gettare nell'indigenza la metà della popolazione e oltre.

Composizione % del bilancio federale argentino per voce di spesa


In una lotta politica interna al peronismo, in vista delle elezioni del 2023, la Kirchner, contrapposta a Fernandez, ha per settimane chiesto pubblicamente, ed infine ottenuto, la testa di Guzman, additato a nemico del popolo.
La nuova ministra, di fede kirchnerista, però, un'ora dopo essere stata nominata, si è attestata esattamente sulla stessa linea del suo predecessore: garanzia del rispetto dell'accordo sottoscritto con il Fmi, presentazione di un primo pacchetto di tagli di spesa concentrato su stipendi ed incarichi pubblici, previsione di aumento dei tassi di interesse ufficiali per raffreddare l'inflazione, fine della monetizzazione del debito.
Evidentemente, la sostituzione ai vertici del Ministero è solo il frutto di una lotta politica fra l'anima conservatrice e quella radicale del peronismo, in vista delle elezioni del 2023, in cui la Kirchner sta progressivamente demolendo il suo avversario interno, il presidente Fernandez.
Altrettanto evidentemente, e questa è la lezione più triste, un Paese nel caos finanziario e senza una base produttiva sufficientemente sviluppata e diversificata non ha alternative al default ed alla ristrutturazione economica e sociale, checche' ne dicano i teorici della monetizzazione dei debiti, della Banca centrale prestatrice di ultima istanza, del controllo statale dei prezzi o del ripudio del debito.
Una sinistra popolare che si trova a governare una situazione simile ha, purtroppo, una sola strada: una redistribuzione sociale dei sacrifici che sia la più equa possibile,. Ad esempio:
- facendo pagare di più chi ha più risorse,
- razionalizzando la selva dei sussidi in modo da mantenere in piedi quelli selettivamente più efficaci nel rispondere al disagio sociale reale, eliminando quelli inefficaci e/o poco equi e riorientando parte di questi alla creazione di occupazione piuttosto che alla sola assistenza,
- migliorando l'efficienza della spesa, riducendo quella socialmente regressiva (ad esempio la Difesa o i consumi intermedi della Pa) e riorientando parte dei risparmi a quella progressiva (sanita', scuola)
- potenziando la capacità di raccolta delle imposte, con una lotta ferocissima e repressiva al lavoro nero (molto diffuso in Argentina),
- tenendo d'occhio le proiezioni di cassa prima della competenza nel decidere le spese pluriennali,
- riducendo la spesa per interessi sul debito pubblico costruendosi una reputazione di affidabilità sui mercati finanziari,
- spostando il carico fiscale dal lavoro al patrimonio, anche con controlli più severi sui movimenti di capitale.
L'unica strada, in sostanza, è quella di stabilizzare l'economia ed i conti pubblici nel modo più equo possibile, senza contrabbandare locas pasiones e sogni da descamisado. Alterum non datur.
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lunedì 13 giugno 2022

Qualche lezione da trarre dalla sinistra francese (o anche da Lisbona?)

 



Va premesso che l’Italia non è la Francia, da noi la protesta di piazza è culturalmente meno frequente e si vede prevalentemente per rivendicazioni ideologicamente affini alla destra, come quelle verificatesi contro la supposta “dittatura sanitaria” all’epoca del Covid, che non c’è una emigrazione di seconda generazione, con diritto di voto, così ampia come in Francia, che la componente giovanile della popolazione non è così importante (l’età media della popolazione francese è di 41 anni, in Italia supera i 46) e che in Francia ci sono spazi, di sovranità nazionale e di bilancio pubblico, per mantenere uno Stato sociale molto generoso, da noi pressoché estinto, alimentando una possibile rivendicazione di espansione della spesa pubblica sociale che da noi è più difficile.

Va anche premesso che la sinistra riformista francese (cioè il Psf) non ha mai realizzato una operazione di trasformismo politico come quella del Pd, che ha spostato i termini della piattaforma programmatica della sinistra italiana verso assetti tipici del liberismo economico, prosciugandone la capacità di rimanere aderente ai suoi ceti sociali di riferimento.

Infine, la Francia rurale profonda, quella delle aree interne, è tradizionalmente, storicamente, innervata di istanze socialiste e anarcoidi, a differenza della dorsale montana e rurale italiana. Nelle aree montane e collinari del Sud, della Linguadoca, dei Pirenei, aree rurali povere e in degrado demografico, Mélenchon conquista più voti che non nelle città industriali in declino del nord est.

Tutte queste premesse, ovviamente, sono necessarie, perché contribuiscono a spiegare il fenomeno-Mélenchon, che da noi non c’è. Come certifica l’analisi della composizione elettorale degli Insoumis fatta dall’istituto Jean Jaurès, per Mélenchon votano in massa immigrati (soprattutto islamici) di seconda o terza generazione e giovani. Due beni che in Italia scarseggiano.

Detto questo, Mélenchon vince per delle caratteristiche per così dire innovative de suo movimento, che possono così riassumersi:

-          Un forte ancoraggio alla tradizione di sinistra della lotta di classe, senza però un identitarismo legato a schemi, simboli o linguaggi vissuti dall’elettorato, a torto o a ragione, come obsoleti. Il linguaggio politico è scevro da richiami al marxismo ortodosso o a terminologie del secolo passato. La stessa lotta di classe viene proposta in termini di “eguaglianza”, “protezione dei più deboli”, ecc.;

-          Il pieno sdoganamento del populismo: il programma viene costruito attraverso una sorta di “Parlamento della società” in cui esponenti del terzo settore, dell’associazionismo politico, del movimentismo, portano i loro contributi in forma orizzontale, mentre il leader opera la sintesi, ricercando quei significanti che l’offerta politica della sinistra lascia scoperti. Per fare ciò, strizza l’occhio all’ampio spettro del ribellismo sociale (un po' come il grillismo della prima ora), anche a movimenti innervati e/o partecipati dalla destra, come i gilets jaunes, a istanze sovraniste ed anti-Nato, fino ai movimenti per la casa (altra grande differenza con l’Italia, in Francia solo il 58% della popolazione è proprietaria di casa, a fronte del 73% italiano – il tema dell’accesso alla casa è quindi molto sentito) oscillando dalla Nouvelle Droite di de Benoist fino alla sinistra radicale tradizionale;

-          La centralità programmatica delle tematiche ambientali, redistributive, pacifiste, democratiche, femministe ed antirazziste, in una narrazione che poggia sull’anticapitalismo e l’antiliberismo, che però strizza l’occhio anche a temi di interesse del ceto medio impoverito e persino del c.d. “ceto medio istruito”, che tradizionalmente vota per il Psf o anche per Macron (controllo dei prezzi dell’energia, animalismo, ma anche diritto all’eutanasia, laicismo moderato che rispetta i diritti religiosi degli immigrati, soprattutto islamici, ma anche potenziamento della sicurezza pubblica con aumento degli effettivi di polizia, creazione di una polizia di prossimità, di una polizia specializzata nei crimini su donne e minori). Infine, Mélenchon non rinuncia, come fa certa sinistra, a stimolare il lato patriottico dei francesi, con una retorica nazionale non dissimile da quella della destra repubblicana;

-          Il ruolo centrale del leader, che può fare leva su una coerenza e credibilità assoluta (ciò che manca agli oscillanti leaderini della sinistra italiana);

-          In misura molto rilevante, la lontananza senza compromessi dal riformismo liberista del Ps o del macronismo, senza accordi politici ed elettorali, senza “campi larghi”, alla ricerca di un posizionamento politico autonomo fra il sovranismo di destra e il liberismo del resto dello spettro politico francese.

Tutto ciò consente a Mélenchon, sempre secondo le analisi dell’istituto Jean Jaurès, di catturare un consenso trasversale alla società, non solo radicato nelle classi sociali di riferimento tradizionale della sinistra. Se il 27% degli operai vota per lui, altrettanto viene fatto dal 22% dei commercianti e artigiani e dal 21% dei quadri e delle professioni intellettuali (cfr. https://www.jean-jaures.org/publication/larchipel-electoral-melenchoniste/ ).

E’ necessario, ovviamente, vedere come tale piattaforma interclassista ed orizzontale possa resistere alla prova del governo, o comunque di un accordo politico di qualche tipo con il macronismo. Spesso tali costruzioni reggono meglio la fase della protesta che quella del governo. Però sembra chiaro che un a-identitarismo che non scade nel negazionismo delle proprie origini, rivestendole di una simbologia ed una dialettica moderne, connotato da contenuti interclassisti, basato su una struttura populista e partecipativa, con una leadership non compromessa, coerente e credibile, è senz’altro molto efficace nella fase della conquista del potere.

E poi? E poi, nella fase in cui il potere è conquistato e si deve governare, sarebbe utile guardare a Lisbona, specie per un Paese ad elevato debito pubblico come l’Italia che, comunque, deve mettere il controllo dei parametri di finanza pubblica fra le sue priorità. E qui il riferimento non è più a costruzioni precarie e isolate nel massimalismo come il Bloque de Esquerda, ma all’intelligente riformismo di Costa, che ha saputo coniugare una austerità i cui costi sono stati ripartiti in misura equa, gravando sui ceti più ricchi in misura senz’altro maggiore che in Italia, con misure progressiste, come l’aumento dei salari minimi, delle case popolari, degli investimenti sanitari, l’introduzione dell’orario legale di lavoro a 35 ore, il ritorno alle assunzioni nella P.A., ecc. ma questo è un altro capitolo. Questo richiede un assetto partitico forte ed una guida condivisa e collettiva. Una selezione politica delle classi dirigenti. Un radicamento sociale robusto e di lunga durata.  

domenica 8 maggio 2022

I conti sulle reali perdite dell'esercito russo e le opzioni militari e politiche di Putin



In base alle fonti dell'ISW e del Ministero della Difesa britannico, la Russia avrebbe immesso nella cosiddetta operazione militare speciale fra i 10.000 ed i 12.000 mezzi di vario genere di cui circa 1.700 carri armati. 

Le stime più o meno indipendenti sulle perdite di equipaggiamento russo, come quelle derivanti da Oryx, opportunamente attualizzate, segnalano quasi 2.000 veicoli blindati, dei quali circa 630 carri armati, distrutti o catturati dagli ucraini, cui occorre aggiungere la perdita di 103 camion da trasporto truppe e materiali, 107 pezzi di artiglieria campale o da traino, 62 lanciarazzi multipli, 58 sistemi missilistici terra-terra mobili e circa 200 altri veicoli di supporto. All'incirca, 2.500 mezzi sono andati persi, ovvero il 22-23% della forza totale (37% nel caso dei carri armati). 

Con un calcolo così, il profano potrebbe dire che l'esercito russo ha spazi infiniti per continuare la guerra. Intanto perché la sua forza di invasione attuale ha ancora a disposizione il 77-78% dei mezzi e il 63% dei carri armati. E poi perché le riserve russe in retrovia sono enormi. Sulla base della stima di Forces.net, la Russia potrebbe ancora schierare 1.200-1.300 carri armati aggiuntivi, quasi 4.000 altri mezzi blindati di supporto alla fanteria, altrettanti pezzi di artiglieria, semoventi, trainati o campali. Tutti equipaggiamenti attualmente in riserva e non ancora utilizzati in Ucraina. 

Tuttavia, non è questo il calcolo corretto da fare. Un sistema d'arma non ha senso se non è inserito dentro una unità, all'interno cioè di una organizzazione militare. Da questo punto di vista, l'unità organizzativa di base delle forze d'assalto russe è il battaglione tattico da combattimento, il BTG, una sorta di divisione "in miniatura", che include fanteria motorizzata, forze corazzate, artiglieria, forze missilistiche, contraerea e reparti di supporto, in grado, virtualmente, di operare in autonomia (così non è stato, e questo spiega gran parte del fallimento militare russo). Si stima che l'esercito russo disponga di 168 BTG, e ne abbia impegnati in Ucraina  il massimo possibile, stanti le capacità logistiche della Russia, ovvero 100 (i migliori, che hanno già esperienza di combattimento, tratti dalle Armate Combinate più prestigiose e beneficiarie dei principali ammodernamenti).

Una stima dell'Esercito statunitense evidenzia che vi è una soglia critica, in termini di perdite di equipaggiamento, oltre la quale un BTG diventa inoperativo: un manipolo di soldati e equipaggiamenti residui che, però, avendo perso una frazione rilevante del proprio armamento, non è più in grado di operare in modo coeso come BTG. Tale soglia si aggira attorno al 30%. Poiché le cifre sopra indicate (23% circa di mezzi persi, 37% di perdite fra le forze corazzate) sono delle medie, è ovvio che vi sia un certo numero di BTG non più in grado di operare. Quanti sono? Difficile saperlo. Gli ucraini dichiarano che 60 BTG, ovvero il 60% della forza, non sono più in grado di operare. Ma si tratta evidentemente di cifre gonfiate dalla propaganda.

Poiché un BTG è composto da circa 800 uomini, e le stime migliori parlano di circa 15.000 russi morti e altri 50.000 feriti o prigionieri, e poiché tali perdite non sono tutte concentrate nei BTG (hanno perso uomini anche le forze speciali, la fanteria di Marina, la Guardia nazionale, il personale logistico e di supporto) è possibile stimare che i BTG non più in grado di operare siano una quarantina, ovvero il 40% della forza totale schierata dai russi. 

Quindi, in termini di effettiva capacità di combattimento, le forze di invasione russe potrebbero aver perso il 40% del proprio potenziale nel giro di due mesi e mezzo di guerra. Con un ritmo simile, anche volendo sostituire i BTG persi con i 68 ancora in riserva, con altri otto-nove mesi di guerra Putin avrebbe bruciato tutte le sue forze. Anche perché un BTG degradato al punto da aver superato la famosa soglia del 30% di equipaggiamenti distrutti deve essere riattrezzato con nuovi uomini e mezzi, o fuso con altri BTG degradati. In entrambi i casi, è necessario un periodo di addestramento di numerosi mesi, indispensabile per creare la coesione e l'affiatamento interno all'unità e ricostruirne la catena di comando. I pochi giorni concessi da Putin ai BTG ritirati dal fronte di Kiev e dal nord dell'Ucraina, presumibilmente gravemente degradati, non sono sufficienti, ed infatti l'avanzata russa  nel Donbass, in questa seconda fase della guerra, è pressoché insignificante. 

Ed il rischio per la Russia è che, a partire da giugno-luglio, gli ucraini, opportunamente riarmati dalla Nato, passino ad una offensiva generale, i cui prodromi si vedono già sul fronte di Kharkhiv, dove l'offensiva ucraina ha respinto le forze russe fuori dalla gittata dell'artiglieria (cioè oltre i 20 chilometri dalla città) e rischia persino di mettere a repentaglio la linea di approvvigionamento principale dei russi, che da Belgorod arriva ad Izyum, attraversando l'oblast di Kharkhiv. 

A questo punto, lo Stato Maggiore russo ha due sole opzioni:

a) ridurre le perdite al minimo, passando da una posizione offensiva ad una difensiva, scavando trincee, minando il terreno, stendendo le linee spinate elettrificate, interrando obici e carri armati, per tenere la porzione di territorio già conquistata, magari provando ad ampliarla ancora, se possibile, con una offensiva di altri due o tre mesi;

b) continuare nella guerra offensiva, ma a questo punto diviene fondamentale dichiarare formalmente la guerra all'Ucraina, in modo da poter passare alla mobilitazione generale, per poter mobilitare una forza umana di quasi 2 milioni di riservisti, oltre agli ingenti armamenti in riserva (obsoleti tecnologicamente, ma funzionanti, almeno in teoria) creando e rigenerando in continuo nuovi BTG o BTG degradati, mantenendo quindi in Ucraina la forza attuale (che, come detto, è il massimo possibile che la logistica russa può consentire) magari sperando, nel medio termine, di ricevere nuovi e più moderni sistemi d'arma dalla Cina, con cui Mosca ha appena stipulato un trattato di cooperazione militare. 

Resta però un fatto indiscutibile: con l'opzione b), Putin deve rinunciare alla retorica dell'operazione militare speciale e passare alla guerra totale. Cioè ammettere davanti al suo popolo che l'intervento militare è fallito, e che occorre passare ad una scala di conflitto più ampia. E' probabile che il popolo russo, la Russia profonda, lo segua ancora, ma con la riserva mentale con cui si segue un comandante che ha già un fallimento alle spalle.