La Commissione Europea ha appena annunciato le direttrici generali della riforma del Patto di Stabilità che proporrà al negoziato ed all’approvazione con gli Stati membri, attraverso un comunicato stampa e delle linee-guida.
I commenti dei quotidiani
italiani sono improntati ad un cauto ottimismo. Evidentemente, dalla fine del
governo Draghi le aspettative erano talmente pessimistiche che questaproposta, che va ancora negoziata con gli Stati membri, sembra essere il minore dei danni. E’ veramente così?
L’impressione è che la Commissione abbia voluto dare un contentino generico
agli Stati membri a più alto debito, in particolare all’Italia, facendo
luccicare una sembianza di ritorno ad un certo grado di sovranità sulle
politiche di bilancio, in grado di accontentare le narrazioni della destra al
potere, senza però realmente incidere sulle radici strutturali della condizione
di difficoltà finanziaria e crescita assente di Italia, Grecia e, in misura
minore, Spagna, e rinunciando, evidentemente per sempre, a fare il salto di qualità
vero e proprio, quello che comporterebbe un bilancio europeo unico, con una
gestione unificata del debito pubblica, in definitiva una vera integrazione
economica e politica, che evidentemente i Paesi nordici, Germania in testa, non
vogliono, e che in futuro potrebbe dare adito a fughe unilaterali dal progetto
europeo.
Infatti, la proposta fa piazza
pulita delle proposte, soprattutto italiane (a partire dal paper di Giavazzi,
che costituiva la posizione ufficiale del governo Draghi) di una presa in carico
comune di una parte del debito, almeno dell’extradebito generato dalla crisi
pandemica, quindi di quel debito che non deriva da “colpe” degli Stati membri,
ma che è stato generato da eventi esogeni ed incontrollabili. Rinunciando a
fare questo passo avanti, tutti gli Stati membri si ritroveranno ad avere meno
spazi di bilancio ,ed essere più deboli, quando arriverà la prossima crisi
sanitaria/ambientale o economica, e ciò vale anche per Germania ed Olanda, il
cui rapporto debito pubblico/Pil è cresciuto, rispettivamente, fino al 69% ed
al 52% (senza contare l’enorme indebitamento privato di questi Paesi, legato in
parte anche al debole intervento pubblico nell’economia e nella società, e, per
la Germania, il debito nascosto nel sistema bancario a controllo pubblico dei
Lander o nella sua Cassa Depositi e Prestiti) .
Si delinea un sistema che,
sicuramente, avrà il pregio della semplicità, cancellando i bizantinismi
teoretici del calcolo del trend strutturale del bilancio, dell’output gap e del
tasso di disoccupazione di equilibrio, su cui si basava la vecchia versione del
Patto di Stabilità, e che tanto male ha fatto all’economia italiana, imponendo
una austerità irragionevolmente scollegata dal trend reale di crescita e
cancellando l’obbligo di riduzione del debito pubblico di un ventesimo
all’anno, del tutto irraggiungibile senza politiche fiscali irrazionalmente
restrittive. Ma spariscono anche tutte le clausole di flessibilità che
consentivano di supplire parzialmente a questi bizantinismi punitivi, e che
regolarmente ogni governo italiano negoziava con la Commissione, anno per anno.
Tutto sarà sostituito da un
negoziato one-to-one fra Commissione e Stato membro, per determinare un piano
di medio periodo di stabilità finanziaria, di respiro quadriennale, estendibile
fino a 7 anni se lo Stato membro dimostra di poterlo basare su investimenti e
riforme in grado di supportare, con una maggiore crescita potenziale, la
sostenibilità del debito e di raggiungere i target di policy della Ue
(ambiente, digitalizzazione, ecc.). Tale piano dovrà collocare il debito
pubblico nazionale su un trend ragionevole di discesa o che quantomeno rimanga
su “livelli prudenti”, e dovrà fornire assicurazioni che il disavanzo di
bilancio totale rimanga sotto la soglia del 3% del Pil, mantenendo in piedi
questo parametro del tutto arbitrario ed incomprensibile.
A guidare il piano, che sarà
monitorato annualmente, sarà un solo parametro: la spesa primaria netta che, a
quanto pare, anche se lo stringato testo della Commissione Europea non lo
esplicita, dovrebbe essere un sinonimo del saldo primario di bilancio
(differenza fra spese ed entrate al netto della spesa per interessi del debito
pubblico). Evidentemente, nel loro piano quadriennale negoziato con la
Commissione, i governi nazionali dovranno dimostrare un calo di tale parametro
in grado di riflettersi in un deficit/Pil inferiore al 3% ed in un livello
discendente, o quantomeno prudente, del debito pubblico. Faranno eccezione a
tale percorso di austerità solo gli investimenti pubblici particolarmente
qualificanti, o perché manifestamente in grado di aumentare la crescita
potenziale, o perché coerenti con i target europei di investimento (gli stessi
del Pnrr, per capirci) o perché in grado di fornire un migliore controllo delle
finanze pubbliche (ad es. investimenti in sistemi di razionalizzazione degli
acquisti intermedi o degli appalti pubblici, o in tecnologie per la repressione
dell’evasione fiscale). Ma questa eccezione per gli investimenti pubblici
qualificanti non si traduce in una esplicita riserva, in una specie di “golden
rule” predeterminata per specifiche categorie di spesa e garantita a priori,
essendo necessario negoziarla caso per caso con la Commissione nell’ambito dei
piani fiscali di medio termine.
E qui viene il punto più
pericoloso potenzialmente per l’Italia: i piani fiscali quadriennali devono
essere negoziati fra Stato membro e Commissione. Ed ovviamente in questo
negoziato entrano elementi quali la forza contrattuale del singolo Paese, che
per l’Italia non è la stessa della Germania o della Francia, la credibilità del
governo nazionale che negozia, le pressioni dei mercati finanziari, attraverso
i segnali dei rating delle agenzie e dello spread, che spingeranno la
Commissione ad essere più o meno severa in sede di negoziato. Anche perché il
sistema delle sanzioni sarà molto più rapido ed efficace: per i Paesi, come il
nostro, che superano il rapporto debito/Pil del 60%, potrà scattare
immediatamente in caso di scostamento del trend di finanza pubblica dello Stato
membro rispetto al percorso negoziato con la Commissione, anche solo per un
anno. Ci potrà essere anche la sospensione dei pagamenti a valere sui fondi
strutturali o del Pnrr dovuti allo Stato membro, se esso non si adeguerà
immediatamente alle raccomandazioni per tornare subito sulla “retta via”.
Potranno essere imposte sanzioni, sotto forma di percorsi di rientro dal debito
più stringenti, anche nel caso in cui lo Stato membro non adempia ai suoi
impegni in materia di investimenti e riforme strutturali.
Insomma, rispetto al precedente
sistema sanzionatorio, talmente farraginoso e burocratizzato da non essere di
fatto attivabile, nel nuovo Patto di Stabilità le sanzioni dovrebbero essere
rapide, efficaci e drammatiche. Persino la procedura per squilibri macroeconomici
eccessivi, sinora “backward looking”, perché basata sui dati storici
dimostranti uno squilibrio, sarà complementata da un approccio “forward
looking”, nel quale, oltre agli squilibri preesistenti, si andranno anche a
prevedere quelli possibili in futuro, imponendo allo Stato membro politiche e
riforme in grado di prevenirli, creando un sistema di vigilanza molto più
costrittivo per lo Stato membro, che contempla anche possibili rischi futuri,
oltre a quelli presenti. Alla faccia della restituita autonomia nazionale di
politica economica di cui la Commissione parla…
La chicca finale della proposta è
quella di un potenziamento del meccanismo di sorveglianza post-programma per
Paesi, come la Grecia (o come l’Italia, in un futuro che non possiamo affatto
escludere) che hanno chiesto assistenza finanziaria all’ESM ed hanno quindi
stipulato un memorandum: le politiche di bilancio del Paese saranno ancor più
fortemente vincolate di quanto già siano oggi alla valutazione della sua
capacità di ripagare i prestiti ricevuti, di completare le riforme strutturali
imposte nel memorandum e di riaccedere ai mercati finanziari. Se pensiamo che
la Grecia, già con il meccanismo attuale, resterà vincolata a meccanismi di
sorveglianza per molti anni, non c’è da essere allegri.
E tutto questo avviene nel quadro
di una mutazione della governance macroeconomica, attuata tramite la riforma
del MES, che non può essere scissa dalla riforma del Patto di Stabilità,
costituendo un pacchetto unico: infatti, proprio in questi giorni la
Commissione sta spingendo Italia e Germania a dare l’approvazione definitiva a
questa riforma che, ricordiamolo, prevede due linee di credito diverse, con
condizionalità differenziate fra Paesi a basso ed alto debito (per i quali è
anche prevista una preliminare analisi di sostenibilità del debito, con
conseguenti rischi di tipo reputazionale per un Paese che chieda una forma di
assistenza finanziaria, magari per difficoltà temporanee legate a fattori
esogeni, come una nuova crisi sanitaria), meccanismi legislativi pensati per
facilitare il default e la ristrutturazione del debito sovrano (che
incidentalmente fanno crescere anche il rischio, e quindi il costo, del
finanziamento di mercato del debito pubblico per il nostro Paese), un ruolo
parallelo del Mes rispetto alla Commissione Europea nella gestione di crisi
finanziarie, che ne fa un organismo politico-tecnocratico pericoloso in termini
democratici.
Va infine rilevato che questa proposta, già non molto bella, come si è visto, è già stata aspramente criticata dai governi tedesco e olandese, che la vogliono rendere ancor più pesante. Senza che il Governo italiano, sputtanato per le sue derive sui diritti umani ed isolato a livello internazionale (non sarà certo Orban ad aiutarci) possa mettere bocca e negoziare alcunc
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