domenica 23 agosto 2020

Il Mali: l'ultima frontiera del colonialismo occidentale

 

Introduzione e contesto

 

Di tutta l’Africa, il Mali è uno dei Paesi più interessanti, forse insieme a Sudan ed Angola, per altri motivi, ed è un Paese-chiave nello scenario globale da almeno 10 anni a questa parte. Tale Paese è ancora immerso nella guerra civile innescata nel 2012 dall’indipendentismo tuareg, presto inquinata e parzialmente scavalcata da una ondata islamista radicale, attiva nel nord e nel centro, animata in parte da Daesh e in parte da altri gruppi salafiti, quali ma’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM), Al-Qaeda nel Magreb islamico (AQIM), il potente movimento Ansar al-Dine (AAD), che oltre ad un connotato religioso ha anche un tratto etnico, essendo rappresentativo dell’etnia Fulani, e il Macina Liberation Front. Di fatto, il Mali rappresenta la frontiera meridionale della lotta dell’Occidente contro il dilagare dell’islamismo radicale in Africa, che, ove vincente, avrebbe conseguenze geopolitiche catastrofiche, stante l’enorme numero delle masse africane, oltretutto popoli giovani ed irresistibilmente attratti dalla migrazione verso i nostri Paesi. In tal senso, peraltro, il territorio del Mali è area di transito di grandi flussi di migranti provenienti dall’Africa occidentale. La sua perdita sarebbe catastrofica per l’Europa.

Resosi indipendente senza un grosso movimento di guerriglia nel 1960, nell’ambito di una decolonizzazione pacifica pilotata dalla Francia, dopo un breve periodo di socialismo africano ad economia pianificata e di forti relazioni con l’Urss, interrotto nel 1968 dal colpo di Stato militare dell’allora tenente Moussa Traoré, il Mali è da allora stabilmente nella sfera di influenza dell’ex metropoli, ovvero della Francia, persino da quando, con l’ennesimo colpo di Stato del 1991, è stata introdotta la democrazia con il multipartitismo. I vari leader “democraticamente eletti”, al netto di fenomeni endemici di corruzione e truffa elettorale, da Alpha Konaré (per la verità l’unico un po' più autonomo) fino a Ibrahim Boubacar Keita, sono stati, a diversi gradi, cloni costruiti in laboratorio dalla Francia tramite le proprie università e la propria diplomazia. Il controllo francese è talmente capillare che persino il campionato di calcio e la relativa nazionale sono in larga parte gestiti da dirigenti ed allenatori della ex metropoli. Il francese è la lingua ufficiale.

Con il 56% di popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno, è il settantesimo Stato più povero del mondo. E’ praticamente privo di settore industriale, ad eccezione delle miniere d’oro, sfruttate da compagnie canadesi, australiane e cinesi con concessioni di favore pagate corrompendo politici e funzionari locali, e delle fabbriche di tessitura del cotone della CMDT, di cui il Mali è uno dei principali esportatori mondiali. La CMDT è in mano allo Stato e da lungo tempo oggetto di famelici desideri di privatizzazione portati avanti dal FMI, grande creditore del Paese, cui si oppongono, per primi, i contadini, che riescono a vendere all’impresa statale a prezzi più alti di quelli che spunterebbero con un privato. L’impossibilità di privatizzare CMDT ha fatto sì che i dirigenti politici maliani, fedeli al FMI ed alla Francia, abbiano scientemente fatto fallire l’impresa, facendole venire meno i fondi pubblici di sussidio, che servivano per pagare ai contadini prezzi più alti di quelli medi del mercato. Il resto dell’economia è fatto di agricoltura e di allevamento di sussistenza, con la produzione e la distribuzione organizzata su base tribale e di un poverissimo tessuto di microcommercio, servizi alla persona ed artigianato nei centri urbani. Il turismo, che vive di escursioni nel deserto, della Parigi-Dakar, della città di Timbouctou e delle suggestive iscrizioni rupestri dei Dogon, è in completa rovina a causa della guerra.

Il Mali usa il franco CFA, che di fatto impedisce uno sviluppo economico autonomo tramite la fissazione di un tasso di cambio fisso con l’euro, garantita dalla Francia, in modo tale da impedire una svalutazione in grado di favorire le esportazioni, mantenendo di converso molto alto il prezzo delle importazioni. Con la riforma prevista da Macron, che dovrebbe sostituire il franco CFA con una nuova moneta comune all’area (chiamata “eco”) la Banca Centrale comune ai Paesi dell’Africa occidentale, la CEDEO, non avrà più l’obbligo di versare la metà delle sue riserve valutarie estere al Tesoro francese, un obbligo che da tempo faceva strillare al neo-colonialismo, ma in compenso, esattamente come avvenuto con Maastricht, i Paesi che aderiranno a tale nuove moneta, fra i quali il Mali, dovranno sottoporsi a pesantissimi programmi di riaggiustamento macroeconomico, mirati ad azzerare l’inflazione, portare il deficit di bilancio al 4% del PIL, far crescere il gettito fiscale del 10% ogni anno, dotarsi di riserve di valuta in grado di coprire almeno tre annualità di importazioni (strangolando il piccolo commercio di questi Paesi che, fuori dai circuiti ufficiali, vive di scambi in valuta estera, essenzialmente euro e dollari). La nuova valuta continuerà inoltre ad essere fissata in modo rigido rispetto all’euro, continuando così a bloccare le esportazioni e rivalutare le importazioni, ma creando un meccanismo monetario e macroeconomico stabile in grado di attrarre capitali esterni, proseguendo nel neocolonialismo per la via degli IDE.

 

Il mosaico etnico e sociale

 

Geograficamente ed antropologicamente, il Mali è diviso in tre macro-regioni: il nord, desertico e semi-disabitato, popolato da tribù semi-nomadi di Tuareg e da Mauri (e dagli ex schiavi neri dei Tuareg, affrancati e riuniti nell’etnia Bella) il centro, appartenente alla fascia del Sahel, coperto da steppa e paludi, abitato essenzialmente da popolazioni di etnia Fulani e dai misteriosi Dogon, le cui iscrizioni rupestri e conoscenze astronomiche hanno fatto pensare per un certo periodo che fossero entrati in contatto con civiltà aliene ed il sud, la zona più urbanizzata e ricca dal punto di vista agricolo, dominata dalla savana e dalla foresta, abitata dai Bambara, l’etnia dominante, che rappresenta poco meno di un terzo della popolazione totale del Paese, strettamente imparentata con i Mandingo e da altri gruppi etnici minori quali i Bozo, che vivono essenzialmente di pesca lungo il fiume Niger e sono gravemente minacciati dal suo inquinamento. I grandi spazi aridi e disabitati, l’assenza di sistemi di trasporto aventi un minimo di efficienza e la debolezza enorme del tessuto produttivo e delle istituzioni politiche, persino rispetto agli altri Stati africani, hanno sinora  impedito il fenomeno di macrocefalismo urbano: la capitale, Bamako, collocata nella fascia tropicale del Sud, non arriva a 3 milioni di abitanti ed assorbe appena il 13% della popolazione totale. Tuttavia, sta crescendo a ritmi molto rapidi (circa il 5% annuo) attraendo popolazioni in fuga dalla guerra civile, e si sta trasformando nella classica capitale africana sovrappopolata, con crescenti problemi abitativi, igienico-sanitari (in particolare rispetto all’accesso all’acqua potabile), ambientali, sociali e di concentrazione di bidonville miserrime.

Questo Paese così diversificato e composito sotto il profilo etnico, geografico, tenuto insieme perlopiù da una singolare unità religiosa (il 95% della popolazione è di fede musulmana sunnita) derivante dal suo passato imperiale pre-coloniale, non ha sviluppato istituzioni politiche e sociali solide e radicate, apparendo molto fragile anche rispetto ai suoi vicini africani. La democrazia molto recente (solo a partire dal 1991) non ha creato organizzazioni partitiche o sindacali durature. I partiti politici hanno spesso natura movimentista ed opportunistica, formandosi su base etnica per specifiche battaglie, per poi dissolversi o fondersi con altri. L’Islam di tipo sunnita, privo quindi di un clero organizzato gerarchicamente, e l’assenza di una famiglia dinastica riconosciuta non hanno consentito alla religione di farsi fattore di agglomerazione, benché singoli imam possano essere di volta in volta molto popolari e seguiti.

In tale magma, l’Esercito rappresenta, quindi, l’unica organizzazione sociale minimamente strutturata e ordinata gerarchicamente, benché anch’essa molto fragile: poco professionalizzato ed ampiamente sottopagato, spesso composto da una geometria variabile di bande armate di base etnica che, in base ai diversi accordi politici o alle congiunture del momento, entrano o escono (disastrosa la scelta di far entrare nell’esercito, dopo il 2013, bande di ex ribelli tuareg, che alla ripresa del conflitto hanno disertato o addirittura sabotato le operazioni militari governative contro il nazionalismo tuareg), gravemente carente di equipaggiamento (non esistono carri armati, gli ultimi T-54 di fabbricazione sovietica sono oramai rotti da anni, la forza corazzata è garantita da pochi carri leggeri sovietici degli anni cinquanta e da autoblindo, l’artiglieria da pochissimi mortai da campo e lanciarazzi cinesi degli anni sessanta, la difesa aerea è affidata a tre aerei da attacco al suolo subsonici Embraer Tucano di costruzione brasiliana e a quattro vecchissimi elicotteri d’assalto Mi-24 di origine sovietica).

Inoltre, fatto ancora più grave, la catena di comando è totalmente anarchica: i dittatori o presidenti di turno favoriscono ora l’una, ora l’altra forza militare (ve ne sono tre: l’Esercito vero e proprio, la Gendarmeria Nazionale, con compiti di polizia militare ma anche giudiziaria, analogamente ai nostri carabinieri, e la Guardia Nazionale, una specie di corpo di pretoriani a difesa del presidente di turno, spesso avvicendata su base etnica e nepotistica), le singole unità vengono create, fuse, soppresse o dislocate in modo capriccioso e caotico, le carriere sono basate su fattori politici ed etnici, la corruzione è dilagante, con il risultato che le truppe più impegnate in prima linea finiscono spesso per trovarsi senza stipendio o senza gli incentivi economici promessi per il loro impiego, finendo per divenire fonti di possibili colpi di Stato da “frustrazione”. I continui cambiamenti di assetto dei reparti impediscono la nascita di qualsiasi spirito di corpo, così come il ricambio continuo ai vertici ostacola la definizione di una dottrina militare coerente.

 

La maturazione del colpo di Stato

 Forze francesi nel Mali

In questo grandissimo casino, nei mesi scorsi è venuto maturando un movimento di crescente insofferenza popolare verso il presidente Ibrahim Boubakar Keita (soprannominato IBK). Questo prodotto del colonialismo francese, oramai vecchio e malato, incapace di difendere l’economia nazionale dalle pretese dei programmi di riforma del FMI, dal debito estero soffocante, dal taglio delle già deboli spese previdenziali ed assistenziali, ivi compresi i sussidi alimentari, alimentata dalle spese militari e dall’esigenza di tenere il rapporto deficit/Pil sotto il 4% imposta dalla partecipazione alla moneta unica africana, si teneva in piedi da anni grazie, da un lato, a brogli elettorali ed alla diffusa corruzione (la corte costituzionale, dopo l’esito delle elezioni legislative che davano la maggioranza agli oppositori di IBK, ha arbitrariamente ridefinito l’esito di un centinaio di collegi elettorali, in modo da creare una maggioranza artificiosa) e dall’altro alla pesante cooperazione militare francese e degli altri Paesi dell’area controllati dalla Francia. Tramite l’operazione Barkhane, la Francia tiene stabilmente nel Mali oltre 1.000 uomini dei suoi migliori reparti (paracadutisti, fanteria navale e Legione Straniera) insieme a circa 400 uomini della Repubblica Ceca, dell’Estonia, della Danimarca e della Gran Bretagna, appoggiati dall’Aviazione (6 Mirage, 10 aerei da trasporto ed una ventina di elicotteri d’assalto), con centinaia di blindati pesanti e veicoli da trasporto corazzati. Inoltre, la missione di peace keeping sotto egida ONU, che agisce in parallelo e di fatto cooperando con le forze francesi nel garantire protezione al governo dagli attacchi provenienti da nord, è costituita da quasi 13.000 militari e 1.700 poliziotti.

Nonostante ciò, fra 2019 e 2020 le forze governative del Mali subiscono, per la loro fragilità già sopra descritta, numerose sconfitte. La linea difensiva più a nord, composta dai tre forti di Anderamboukane, Indelimane e Labbezanga viene abbandonata, a seguito di centinaia di perdite dovute agli attacchi jihadisti. Nei primi mesi del 2020, circa 90 militari governativi muoiono a seguito di continui attentati. Al-Qaida riesce persino a sequestrare Soumaila Cissé, il leader dell’opposizione parlamentare.

Ad aggravare la situazione, accanto al conflitto religioso nel nord, a fine 2019 esplode un conflitto etnico sanguinoso nel centro, fra i Fulani ed i Dogon, supportati dai Bambara. Quasi 400 civili perdono la vita nel 2019, ed altri 600 nei primi sei mesi del 2020, in stragi comunitarie legate all’accesso all’acqua ed ai terreni di pascolo.

L’insoddisfazione popolare per ciò che viene avvertito come un crollo verticale dello Stato si fa sentire a marzo, complice l’ulteriore aggravamento delle condizioni economiche della popolazione dovuto al coronavirus, le cui cifre sul numero di contagi e di morti sono del tutto incerte: i principali gruppi di opposizione, civici e religiosi, formano un movimento unitario, il M5-RFP. L’imam Mahmoud Dicko, figura molto ascoltata e rispettata nel Paese, importante uomo di mediazione fra il governo e le forze jihadiste, un tempo alleato di IBK, ne chiede le dimissioni. Il 10 luglio esplode una manifestazione popolare in tutto il Paese. Le forze di sicurezza lealiste rispondono, il bilancio è di oltre 11 morti, centinaia di feriti e di arresti politici. IBK, spalleggiato da Macron, cerca di resistere offrendo un governo di unità nazionale, le dimissioni del figlio dalla carica di presidente della Commissione parlamentare sulla Difesa e la dissoluzione della corte costituzionale responsabile della truffa elettorale del 2018, ma oramai il dado è tratto.

L’Esercito, infatti, sta covando troppe frustrazioni. I soldati al fronte sono demoralizzati: gli attacchi jihadisti li ammazzano come mosche, molti non ricevono l’incentivo economico specifico per i combattenti. IBK compie l’errore fatale di rimuovere dal ruolo di comandante della forza di sicurezza presidenziale il tenente colonnello Ibrahim Traoré, molto rispettato nello Stato maggiore. E’ la goccia che fa traboccare il vaso. Il 18 agosto un gruppo di ufficiali di livello intermedio attacca Kati, la principale base militare del Paese, a 15 chilometri dalla capitale, requisisce armi, veicoli e blindati e da lì muove verso Bamako, senza incontrare alcuna resistenza, fra ali di folla gioiosa. In un colpo di Stato totalmente incruento e manifestamente perfettamente organizzato in anticipo, il presidente IBK ed il Primo Ministro Boubou Cissé, ex economista della Banca Mondiale ed altra creatura francese e del FMI, vengono arrestati presso le loro residenze private (con la scusa ufficiale di garantirne la sicurezza), portati alla base militare di Kati e da lì costretti a dare le dimissioni in diretta televisiva.

Si forma immediatamente una giunta militare evidentemente anch’essa preparata in largo anticipo, autodenominatasi “comité de salut populaire”, che assume i pieni poteri. Il ruolo di presidente viene dato al tenente colonnello Assimi Goita. I colonnelli Camara, Koné e Diaw, insieme al portavoce, il tenente colonnello Ismail Wagué, vicecomandante dell’Aeronautica, compongono la Giunta. Nessun comandante militare si dissocia dal golpe. Il movimento M5-RPF fornisce immediato sostegno all’azione, pur chiedendo di aprire un processo di dialogo nazionale con i golpisti. Scene di giubilo attraversano il Paese.

 

Cosa può succedere

 La giunta militare: al centro, il portavoce



Speculare su cosa succederà a questo punto è molto difficile. La rottura degli equilibri sanciti dal 2013 con l’ascesa al potere di IBK è stata quasi immediatamente interpretata come una intrusione di forze esterne nella governance, ai danni della tradizionale capacità di controllo da parte della Francia. Indubbiamente, il governo appena rimosso era fortemente legato alla ex metropoli, così come fa sospettare il fatto che uno dei componenti della Giunta, il colonnello Camara, il comandante della base di Kati, sia partito a giugno in Russia per un periodo di addestramento. Qualche commentatore ha voluto vedere dietro al golpe la manina della Turchia, che avrebbe interesse ad indebolire la Francia di Macron, schieratasi contro Erdogan nel Mediterraneo.  D’altra parte, la Francia ha immediatamente stimolato una risoluzione ostile al golpe da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ed ha essa stessa condannato l’azione della giunta.  

Tuttavia, altre voci, raccolte da Africa Report, spesso molto affidabile nell’analisi dei fatti africani, lasciano pensare ad atre possibilità. Queste voci fanno trapelare che l’eminenza grigia dietro il golpe sia il generale Cheick Dembélé, uomo fortemente legato alla Francia: formatosi all’Accademia militare francese di Saint Cyr e poi nell’Accademia militare tedesca di Monaco, è stato direttore di una scuola di peacekeeping di Bamako finanziata dall’ONU ed ha lavorato con l’Unione Africana, oltre che svolgere funzioni di carattere politico-amministrativo (è stato direttore degli acquisti di armamenti del Ministero della Difesa). Quest’uomo non ha motivi per essere ostile alla Francia o all’Occidente, benché sia un oppositore di IBK (ha recentemente sposato la figlia della leader femminile del movimento 5S, la Kidiatou Sow, ex governatrice del distretto di Bamako, femminista poco incline all’islamismo ed anch’essa formatasi in Francia).

La stessa Giunta militare appena formatasi, evidentemente in base ad un piano di preparazione ben studiato e non frutto di fattori immediati di risentimento antifrancese, sta adottando un approccio molto cauto e diplomatico: il portavoce ha immediatamente annunciato che il ruolo della giunta è meramente transitorio, l’obiettivo essendo quello di tornare alla democrazia in “un tempo ragionevole” (non ha specificato però quanto) tramite un processo di transizione che sarà gestito da un presidente ad interim civile e non militare, da identificarsi in modo concertativo tramite l’apertura di un dialogo con tutte le forze politiche e sociali. Durante l’intervista concessa, il portavoce (peraltro famoso nel suo Paese per aver sfasciato completamente l’ultimo Mig 21 ancora volante in un incidente) ha peraltro sottolineato il ruolo di servizio assunto dalle Forze Armate, in un contesto in cui l’esautorazione del governo era desiderata dal popolo ed ha auspicato che non vengano prese misure di sanzione, perché esse colpirebbero il popolo del Mali.

Altro elemento significativo è che, dopo un colloquio con la nuova giunta militare, l’imam Dicko, quello che si era impegnato in un equivoco (e poco gradito da Parigi) processo di mediazione fra governo e jihadisti, ha dichiarato di volersi ritirare dalla politica. Le dichiarazioni venate di prudente antifrancesismo, cui era solito abbandonarsi salvo poi correggersi, erano una costante di tale religioso, ed erano evidentemente poco apprezzate all’Eliseo.

La sensazione di chi scrive è quella di un golpe pilotato da Parigi, con il quale Macron si è liberato di un alleato oramai scomodo ed inutile, sgradito alla popolazione ed evidentemente incapace di tenere le redini del governo, al tempo stesso sbarazzandosi anche di figure ambigue di cui IBK si era circondato (come per l’appunto Dicko) oppure di un golpe subito, ma per l’attivazione di forze interne, non esogene, cui Parigi ha dato un sostanziale lasciapassare per non mettersi contro l’opinione pubblica maliana (facendo buon viso a cattivo gioco, e sperando che i militari si allineino all’Eliseo). Vedremo cosa succederà, ma è altamente improbabile che, in un Paese in cui la forza militare francese tuttora presente ed operativa può spazzare via i fragili golpisti locali in un secondo, Parigi abbia veramente lasciato passare un regime change ad esso ostile senza reagire, se non al mero livello diplomatico. Per il momento le paventate sanzioni economiche non sono ancora scattate. Ed i golpisti mostrano il loro volto più democratico, sorridente e dialogante (almeno negli intenti ed in prospettiva), evidentemente rivolgendosi anche alla comunità internazionale che sentono di non dover agitare troppo.