mercoledì 29 dicembre 2021

Il teatro di cartapesta


A pensarci bene, ci troviamo in una "drôle de situation" in questo Paese. In questa fase storica, la nostra borghesia, dichiaratamente incapace di trasformarsi in una classe dirigente nazionale, sta pensando ad un ritorno indietro all'Italia post-unitaria, con un Sovrano/Presidente della Repubblica che, dall'alto diuna presunzione di semi-divina competenza, nomina premier e ministri che rispondono, in prima istanza a lui, anche se in seconda battuta devono trovare una maggioranza in un Parlamento ridotto ad un catino di manutengoli e trasformisti. Una restaurazione fondata su una idea imbastardita del liberalismo, il liberalismo all'italiana, drogato dalla morale cattolica, in cui il Bene Supremo da difendere è quello di una pacificazione nazionale all'insegna dell'accettazione del potere esclusivo, naturale e semi-dinastico di una élite riconosciuta tale per diritto di nascita. Una élite che ha manomesso l'ascensore sociale per non farlo funzionare più. 

E' in fondo una rivisitazione del giolittismo, non a caso considerato dalla storiografia ufficiale come una fase felice della nostra politica, e non quello che fu veramente, cioè un porcile. Nel giolittismo, come è noto, si congela la fotografia sociale, eliminandone la dinamica, in cambio di un trickling down di piccole concessioni socio-economiche, quanto basta per ottenere la pace sociale ed impedire che le tensioni sfocino in proteste. A questa visione Draghi è diretto: ecco che al popolaccio infame diamo un pò di decontribuzione, non troppa, per un anno, un aiutino per pagare le bollette, una leggina inutile sulle delocalizzazioni, un pò di formazione professionale, un assegnino per i figli. Purché non chieda una partecipazione diretta alla gestione del potere, purché non faccia scioperi, purché accetti una compressione definitiva della sua rappresentanza politica, purché, in ultima analisi, accetti la realtà di una oligarchizzazione e verticalizzazione della società senza rompere le palle al timoniere, alle lobby di potere che lo circondano ed alla corte di servitori, lobbisti e manutengoli che servono per sorreggerlo.

Questo obiettivo viene pervicacemente ma maldestramente perseguito pensando, tramite il controllo quasi totale dell'informazione, di nascondere sotto il tappeto la polvere delle tensioni sociali crescenti.

Si sparano dati ad cazzum su una pretesa ripresa economica con boom di assunzioni, senza dire che si tratta solo di un fisiologico e momentaneo rimbalzo della congiuntura e che le assunzioni sono quasi tutte con contratti precari e sottopagati, mentre migliaia di lavoratori a tempo indeterminato perdono il posto per la delocalizzazione che, in alcuni settori (automotive, tessile/abbigliamento, elettrodomestici, trasporto aereo) assume le dimensioni di un fugone generalizzato da una barca in affondamento e 200.000 lavoratori in CIG, fra tre giorni dal momento in cui scrivo, si ritroveranno senza nessuna copertura sociale. 

Si fa trasudare una ottimistica e trionfalistica retorica su una presunta progressiva vittoria sulla pandemia, tanto più grottesca quanto più i dati sono lì a smentirla, fino ad arrivare a vette di totale irragionevolezza a-scientifica, come la decisione odierna di non far fare la quarantena a chi è vaccinato, o le torsioni assurde per evitare di tornare indietro anche a mini-lockdown molto limitati nel tempo e nello spazio, che però potrebbero alleggerire le strutture ospedaliere.

Si esalta il piano giavazzian-draghiano di riforma del Patto di Stabilità, chiamando a raccolta anche i pochi economisti ancora di sinistra, senza dire che è un collage di vecchie idee avariate senza nessuna possibilità di essere accettate, senza dire che Macron ci scaricherà non appena avrà convenienza a tornare al dialogo preferenziale con Berlino. 

In definitiva, si conta sul fatto che le tensioni sociali, messe sotto il tappeto di una informazione totalmente avulsa da un minimo senso di realtà e spesso francamente ridicola, non abbiano una direzione politica, speculando sul disastro politico e sindacale della sinistra, smorzando le richieste popolari con i ragionamenti addormentanti e sedativi di un Letta o di un Orlando o con l'ecumenica pacatezza di un sindacato giallo. Si manda in avanscoperta Mattarella a dire che lascia un "Paese unito", quando le strade e le case ribollono di una tensione mai più vista negli ultimi trent'anni.

Ma le tensioni intanto crescono, e non possono trovare uno sbocco a sinistra, perché la possibilità che rinasca una sinistra politico-sindacale sufficientemente all'altezza dei tempi è pari allo zero termico, per una serie di fattori concomitanti (sgretolamento dell'unità di classe e della relativa coscienza come effetto della disgregazione del mercato del lavoro, retorica dell'individualismo libertario che è penetrata a fondo nell'identità collettiva, posizionamento - unico in tutta Europa - di un partito dichiaratamente non socialista nell'area sociale tradizionalmente di proprietà della sinistra, arretramento culturale del sindacato e frammentazione alla sua base). 

Non trovando sbocco a sinistra, esse transitano attraverso la retorica poujadista e antistatalista della piccola borghesia, che si manifesta nel movimento no-green pass, attraverso il libertarismo dirittocivilista ed elitista dei ceti medi istruiti sardinati, direttamente cooptati nel sistema oligarchico con un posizionamento solo apparentemente, e nel solo breve periodo, favorevole, attraverso l'autorganizzazione scoordinata, rabbiosa ma sterile, dei gruppi di lavoratori che perdono il lavoro, attraverso la solitudine disperata, consumata per ora tra le mura domestiche, del cinquantenne che ha perso il lavoro, o del pensionato che non arriva a fine mese, o di chi è lasciato solo con un disabile o un malato cronico, e che si manifesta all'esterno con l'impressionante crescita degli omicidi-suicidi di interi nuclei familiari. 

La pura e semplice legge di gravità, però, vale anche in politica, e ci dice che, prima o poi, tutte queste proteste isolate e prive di una possibilità di coordinamento, perché esprimenti idee ed interessi molto diversi (niente unisce il millenial o il negoziante che protestano per una idea di "libertà" individuale legata alla mercificazione di ogni aspetto della vita con l'operaio che lotta contro la delocalizzazione della sua azienda) finiranno per collassare in una massa unica, attirandosi l'una con l'altra per inerzia. L'unico collante possibile sarà quello di una rabbiosa e cieca rivalsa contro il potere, anzi, contro tutto ciò che ha abbastanza autorità per far parte della sfera ampia del concetto di potere: la casta politico-imprenditoriale, con i suoi addentellati consulenziali e giornalistici, la scienza, percepita come asservita al potere, la scuola, la legge e l'ordine pubblico, e così via. Una furia cieca e senza direzione, che farà esplodere un incendio, pronta, probabilmente, a farsi addomesticare dall'Uomo Forte, l'ennesimo avventuriero con mascella di acciaio, virtù salvifiche e con una idea di "terza via" che affolla l'italica storia. 

Ciò potrebbe avvenire a breve. Nel giro di un paio di anni, il rimbalzo congiunturale spacciato per "ripresa" si incarterà su sé stesso, il Paese si ritroverà impoverito e precarizzato ulteriormente, con l'aggravante che finirà anche il sostegno monetario a manetta della Bce, per cui per evitare il default, in condizioni di isolamento politico e diplomatico, occorrerà tornare a forme di austerità dolorose e da macelleria sociale. A quel punto, anche il Corpo Mistico del Santo Banchiere, rivenduto al popolo come demiurgo infallibile, si scioglierà, rivelando la realtà di un tetragono e un pò grigio burocrate con una fame di incarichi senza fine. Il teatrino di cartapesta, pietosamente usato per smerciare l'idea di un Paese in rinascita, brucerà, e i suoi burattinai resteranno nudi di fronte alla loro stessa sconfitta. 

L'Italia probabilmente scivolerà rapidamente verso una crisi da default, un arretramento definitivo verso il gruppo dei Paesi a reddito medio-basso, forse anche una fuoriuscita "forzata" dall'euro ed una disgregazione territoriale "de facto" sotto i vessilli del federalismo, sarà necessario ricorrere a forme di autoritarismo caudillistico per tenere insieme i brandelli strappati del Paese. 

Chi è causa del suo mal pianga sé stesso. 

sabato 9 ottobre 2021

L'astensionismo alle ultime elezioni amministrative: una analisi più da vicino

 


La tornata di voto amministrativo, significativa numericamente perché coinvolgeva circa un quarto dell’intero corpo elettorale nazionale, è stata dominata dall’astensionismo. Questo è probabilmente il dato più significativo di tutti. A votare è andato il 54,7% degli elettori, con un calo di quasi 7 punti rispetto alle precedenti amministrative.

L’analisi interna dell’astensionismo è fondamentale, oramai, perché tale fenomeno ha una incidenza molto importante nel determinare gli esiti finali di un voto, ed anche per segnalare lo stato di salute di una democrazia. Va premesso, peraltro, che tale fenomeno, per la sua liquidità e soggettività, in parte basata su considerazioni emotive o non del tutto razionali, rifugge da qualsiasi codificazione rigida dei motivi ed andrebbe analizzato in modo puntuale per ogni tornata elettorale (l’astensionismo alle politiche può avere un significato diverso da quello delle amministrative), per ogni territorio (probabilmente l’astensionismo al Sud ha motivazioni parzialmente diverse da quello del Centro Nord) e per ogni tipo di area (non sono identici i motivi dell’astensionismo nelle grandi città – ed all’interno di queste fra i centri gentrificati e le periferie più estreme – e nelle aree periurbane e rurali).

In altri termini, il fenomeno va analizzato per quello che è nell’hic et nunc, e non con categorie analitiche utilizzate in precedenti tornate elettorali, oppure, peggio ancora, con la lente deformante dei nostri desideri. Mi riferisco in particolare ad un bizzarro editoriale sul Corriere della Sera a firma di Polito – peraltro analista politico molto acuto, in altre circostanze – in cui il Nostro, mosso dal pio desiderio di portare un soccorso (peraltro inutile) al già fortissimo Governo Draghi, evince dall’elevato astensionismo un misterioso e non riscontrabile clima di “tregua nazionale”, in cui gli elettori, lasciate a casa le rabbie antisistema dei tempi giacobini del M5s e dei tempi sovranisti della destra, avrebbero deciso di restare a casa perché non avvertono, in una politica commissariata dai tecnici alla Draghi, l’esigenza di esprimere un parere su visioni alternative del mondo, che peraltro i partiti non sono in grado di fornire.

Ora, a parte il fatto che parlare di un clima di “calma piatta”, per cui gli elettori avrebbero segnalato che “non è il tempo della protesta”, è una palese, e direi anche psicologicamente preoccupante, dissociazione dalla realtà del Paese, attraversato da correnti multicolori di protesta (dai no green-pass alle ben più serie proteste dei lavoratori delle fabbriche in chiusura), la considerazione di Polito potrebbe avere un qualche minimo rilievo se stessimo parlando di elezioni politiche nazionali. Alle amministrative ci si concentra sulle proposte per il proprio Comune, quindi su un elenco di progetti di natura prevalentemente amministrativa, più che politica. Il voto è mosso più dalle proposte su dove disegnare le strisce blu dei parcheggi che da considerazioni “macro” sulla capacità dei partiti di rappresentare interessi sociali generali.

E però…però…una parte di ragione Polito ce l’ha, quando afferma che “molti italiani mostrano poco interesse per la gara dei partiti, perché la reputano irrilevante rispetto alle cose che contano”. Guardiamo il fenomeno in modo oggettivo, curiosando dentro i primi dati sui flussi e le motivazioni di voto provenienti dalle prime elaborazioni, purtroppo ancora limitate alle grandi città (in particolare Milano, Bologna e Napoli, i dati su Roma sono ancora parzialmente latenti). Manca quindi la foto dell’Italia profonda, del reticolo di piccole e medie città che costituisce, forse più delle grandi aree metropolitane, la radice del nostro Paese, mancano, inoltre, le cosiddette “aree interne”, montane e rurali, che però in alcune delle regioni della dorsale appenninica, specie quelle del Sud, hanno un peso elettorale importante, nonostante lo spopolamento e la marginalizzazione.

Con questo limite metodologico non indifferente, concentrandoci sul voto metropolitano (che però è spesso anche il più informato, almeno mediaticamente) notiamo come il grande serbatoio dell’astensionismo, tradizionalmente collocato a Sud (ancora a queste elezioni, le regionali calabresi vedono una partecipazione di appena il 44,4%), l’astensionismo attacchi i grandi centri urbani, anche del nord. La partecipazione al voto nelle città di Torino, Milano, Roma e Napoli è stata, in termini aggregati, del 48% appena, a Bologna è scesa fino al 35%, tutto nettamente sotto la media nazionale del 54,7%. Regioni tradizionalmente considerate affette dall’astensionismo, come la Basilicata o la Campania, hanno messo a segno percentuali, rispettivamente, del 58,5% e del 58,1%, inferiori ai dati della precedente tornata ma superiori alla media nazionale. Il Molise, tipica regione “interna”, ha messo a segno un 58,4%.

Possiamo già qui scardinare un luogo comune, ovvero quello per cui le aree extraurbane hanno un grado di partecipazione politica necessariamente inferiore a quello delle aree urbane, dove esiste un elettorato più consapevole e più inserito nelle dinamiche amministrative e di governo. Questo non è sempre vero e dipende dalla natura di chi, volta per volta, si astiene (dipende anche dalla presenza o assenza di fenomeni di voto di scambio e consociativismo a livello locale, che a volte “gonfiano” artificialmente il voto).

Stavolta si è astenuto, perlopiù, un elettorato urbano, il più delle volte residente nelle periferie o nei quartieri in degrado. Vero è che a Bologna, in periferie come Borgo Panigale, si sono avuti dati di affluenza più alti. Però a Roma si è determinato un più “classico” differenziale fra quartieri benestanti (Parioli, Roma nord) che hanno votato in modo più diffuso, e periferie in degrado, specie della zona est o anche Ostia. Analogo risultato si è avuto a Napoli: al Vomero vota il 40% degli elettori, a Poggioreale-Zona Industriale o a Secondigliano e Scampia votano fra il 30 ed il 35% degli aventi diritto. A Milano, al netto dell’anomalia relativa al centro storico, si vota di più nella benestante e centrale zona di via Buenos Aires-San Vittore che in quella del Forlanini-Ponte Lambro e del Corvetto, e meno ancora si è votato nella zona Barona-Gratosoglio-Primaticcio, fra le meno prospere della città in termini di reddito medio pro capite (fonte Youtrend).

Questi dati scardinano del tutto il postulato di Polito: se dovessimo dargli retta, i quartieri più arrabbiati sarebbero quelli centrali e benestanti, mentre le periferie in degrado sarebbero pacificate. Ovviamente non ha senso, mentre ha senso dire che, quando si vota per il Comune, la disaffezione elettorale, un po' come i fenomeni di inurbamento dei Paesi poveri, si trasferisce dalle campagne alle città, fermandosi nelle periferie scassate. Questo perché, mentre i centri medio-piccoli sono relativamente più facili da amministrare ed il rapporto fra sindaco e cittadini è più diretto, nelle sterminate periferie dei grandi centri urbani il senso di abbandono delle istituzioni alimenta una maggiore disaffezione elettorale.

La composizione sociale e culturale non può che seguire la geografia urbana: secondo le prime elaborazioni di Swg, infatti, a Torino il 66% del voto operaio è andato in astensionismo. A Milano, il 67% degli elettori a bassa scolarità è rimasto a casa. Analoga percentuale (64%) per gli elettori di bassa scolarità romani e per quelli napoletani (65%). A Trieste ha rinunciato al voto il 47% degli operai ed il 71% dei disoccupati. Tra l’altro, in tali categorie, fra chi è andato a votare ha prevalso quasi sempre la scelta per il candidato di destra.

Continuando nell’analisi del voto delle grandi aree urbane, vediamo altre cose che appaiono evidenti. Come appare dai dati elaborati da Youtrend, a Torino e Milano l’astensionismo crescente è alimentato in primo luogo da elettori del M5s, in secondo luogo da elettori di centrodestra, leghisti e dei FdI. A Napoli, il flusso crescente di rifiuto del voto è alimentato in primo luogo da elettori di centrodestra, ed in secondo luogo, e ciò costituisce una specificità locale, da voto in uscita da De Magistris, quindi da un elettorato tendenzialmente di sinistra radicale che non ha trovato più un suo candidato e non ha voluto sostenere il centrista Manfredi, proposto dal Pd. Anche a Bologna c’è una particolarità: l’aumento dell’astensionismo è, sì, collegato in primo luogo al M5s (4,2% punti in più) ma, in seconda posizione, vi è astensionismo in uscita dal Pd (2,3% punti di maggior astensionismo) che supera quello in uscita dalla destra (0,8 punti in più). Ciò è l’effetto, molto probabilmente, di un esito elettorale assolutamente scontato, che ha indotto elettori piddini a restare a casa (anche perché a Bologna era periodo di ponte per via della festa patronale).

Nella sostanza, tirando le somme di questi dati, l’astensionismo alle recenti amministrative appare essere un fenomeno perlopiù metropolitano, concentrato soprattutto nelle periferie del disagio sociale, fra i ceti sociali “sconfitti” dalla ristrutturazione liberista di questi anni, allegramente proseguita con l’idea a-scientifica e pseudo-schumpeteriana di Draghi della ristrutturazione “creatrice” dei settori produttivi. Da un punto di vista più strettamente politico, è il frutto della delusione per idee di alternativa sociale propugnate dal M5s delle origini e dalla Lega nella sua fase sovranista e populista (e a Napoli dalla presunta “rivoluzione arancione” di De Magistris, mai comparsa all’orizzonte), oramai collassate nella versione draghiana del “there is no alternative”.

Va aggiunto, peraltro, che se viene meno una proposta di alternativa allo stato di cose esistente ed i partiti finiscono per proporre piccole alternative adattive ad una linea comune (e qui concordo con Polito) allora le organizzazioni partitiche che dovrebbero sostenere una idea diversa del mondo vengono abbandonate. Il degrado delle organizzazioni partitiche, a sua volta, determina maggior astensionismo perché viene meno una struttura organizzativa radicata sul territorio che porti gli elettori a votare (non a caso, l’astensionismo più forte è fra ex elettori del M5s e della Lega che, in tutto il Paese nel primo caso e nel Centro Sud nel secondo, hanno un radicamento territoriale meno forte, quindi minori capacità di fidelizzazione dell’elettorato).

A quel punto la differenza la fa, in un paradosso aberrante, la figura del leader: infatti, secondo la rilevazione Demopolis, il 60% degli elettori delle 4 aree urbane principali ha scelto il candidato non per appartenenza partitica o di campo, ma per la sua identità personale. Solo un residuo 14% ha scelto il partito a prescindere dal candidato che presentava (ciò spiega tra l’altro il successo di Calenda, privo di qualsiasi struttura partitica che lo supportasse). Il paradosso è aberrante perché tale orientamento degli elettori, tipicamente populista, è stato facilitato proprio da quelle parti politiche che, a parole, hanno sempre combattuto il populismo, ma che poi hanno contribuito, ad esempio tramite la glorificazione del leader o l’abolizione del finanziamento pubblico, a demolire i partiti. Adesso siamo ipso facto in una condizione di populismo strutturale.

Alle politiche si giocherà una partita diversa, ovviamente. Il M5s, che più ha contribuito all’aumento dell’astensionismo su base territoriale, potrebbe recuperarne una parte non indifferente su scala nazionale. Lega e centrodestra usciranno dall’attuale fase di riorganizzazione e di stallo, e probabilmente saranno in grado di rafforzare la loro proposta fra il sottoproletariato urbano ed i ceti popolari abbandonati dalla sinistra, recuperando altre quote di astensionismo. Avremo una riduzione di questo bacino, ed un parziale cambiamento del suo colore. È possibile che esso verrà alimentato maggiormente da elettorato centrista e moderato, non ritrovatosi nel governo di Draghi e nelle proposte che verranno fatte dai due schieramenti in gioco (Calenda e Renzi sono meteore, a vario titolo, Forza Italia si sta sgretolando sotto il declino fisico del suo fondatore) e, in misura molto minore, da elettori di sinistra radicale che abbandoneranno, almeno in parte, le proposte fake di LeU, Sinistra Italiana e frattaglie varie, o da elettorato di sinistra attualmente dentro M5s che sarà deluso dall’inevitabile svolta centrista e moderata che Conte imprimerà al movimento.


sabato 25 settembre 2021

Salario minimo: sì, ma a quali condizioni?



L’incontro bolognese della Cgil ha rimesso al centro il tema del salario minimo orario, sul quale, tradizionalmente, e con più di una ragione, i sindacati avevano fatto muro, per il timore di una demolizione della contrattazione collettiva, che nel nostro sistema stabilisce, di fatto, salari minimi per categoria professionale e settore economico, legati alle condizioni specifiche di mercato e concorrenza di tali settori, con un meccanismo che agisce per via negoziale e non legale. Oggi, la nuova apertura di credito da parte del segretario generale della Cgil, seguita a ruota dai principali partiti del centro sinistra, Pd e M5s, impone di analizzare questa proposta più nel merito.

Parafrasando il Manzoni, sul salario minimo si potrebbe usare la frase “adelante, con juicio”. Si riscontra, con un certo grado di tristezza, che il sistema della contrattazione collettiva non riesce più, da solo, ad assicurare una “giusta” retribuzione del lavoro. I motivi sono diversi.

Vi sono diversi fenomeni malsani, ovvero le false cooperative che, oggi, dopo i passi avanti sul Protocollo sulla Sicurezza, sono parzialmente sostituite dalle “false Srl semplificate”, che utilizzano le semplificazioni ed i risparmi di costo introdotti dal Governo Monti per creare imprese esterne al circuito dei controlli sul rispetto del proprio CCNL di appartenenza. Tali imprese, attraverso appalti di manodopera fittizi, società “fantasma” di intermediazione della manodopera che applicano contratti-pirata ed all’abuso della figura del socio-lavoratore, riescono ad eludere gli obblighi retributivi e previdenziali. Si tratta di un fenomeno molto consistente: nel solo 2017, le false Coop e Srl individuate sono state quasi 2.000, per circa 17.000 lavoratori non regolari.  

Poi vi è il fenomeno del caporalato, che in edilizia ed in agricoltura, ma anche in alcuni settori terziari a basso valore aggiunto, raggiunge dimensioni ragguardevoli, non solo al Sud. Secondo Ambrosetti, i lavoratori sottoposti a caporalato, in Italia, sono circa 400.000. Di questi l’80% è straniero, con paghe che oscillano fra i 2 ed i 3 euro all’ora.

Infine, vi è il fenomeno dei “nuovi lavori” (il rider ne è il simbolo e l’esempio), concentrati soprattutto nei servizi alla persona e nella logistica, che non sono coperti da contrattazione collettiva e la cui retribuzione dipende dalla volontà del datore di lavoro. Secondo l’Inps, vi sarebbero 2 milioni di lavoratori che non superano una paga di 6 euro all’ora.

Nell’insieme, il fenomeno della “working poverty”, cioè di chi è in povertà relativa pur avendo un impiego, colpisce, secondo stime aggiornate al 2020 da parte della Etuc, il 12,6% degli occupati italiani, a fronte di cifre più basse in Europa (9,6%). Se pensiamo che uno dei Paesi con la più lunga esperienza di salario minimo, la Francia (che aveva lo SMIG dal 1950 e poi l’attuale SMIC dal 1970) ha solo il 7,4% di working poors (fonte Eurostat), capiamo bene quale possa essere la rilevanza redistributiva potenziale di questo strumento nel nostro Paese, con le sue caratteristiche specifiche di arretratezza salariale.

Nel confermare l’utilità dello strumento in generale, occorre ovviamente sapere che, come sempre, il diavolo è nei dettagli. Molto dipende dal modo e dalla forma in cui il salario minimo viene implementato. Non sono pochi i rischi, come d’altronde la lunghissima esperienza francese ha messo in luce. Nel Paese transalpino, infatti, sono stati notati non pochi effetti distorsivi, anche sotto il profilo redistributivo, oltre che di quello dell’efficienza economica generale. In particolare:

a)       Un salario minimo relativamente alto (in Francia esso è cresciuto del 30% dal 1994 al 2015) schiaccia verso il basso la piramide salariale. Le imprese tendono a recuperare i costi del salario minimo abbassando quelli delle categorie professionali superiori, rendendo la scala retributiva più compatta (l’indice del Gini sul salario disponibile equivalente è del 29,2, in Italia è del 32,8) ma compattandola verso il basso: il salario mediano francese è pari a 22.562 euro, superiore, è vero, ai 17.165 euro italiani, ma nettamente inferiore a quello di Paesi con grado di sviluppo economico analogo e privi di salario minimo – la Svezia ha un salario mediano di 24.700 euro, il Regno Unito di quasi 23.000 euro). Evidentemente, scarse opportunità di crescita salariale scoraggiano l’impegno lavorativo ed hanno effetti deleteri sulla produttività e sull’efficienza di sistema;

b)      Il salario minimo, come conseguenza di quanto sopra, ha una capacità pressoché inesistente di produrre effetti sulle fasce salariali superiori: secondo calcoli dell’Ocse, un rialzo dell’1% dello SMIC produce rialzi salariali dello 0,2% nei decili di salario compresi fra il secondo ed il quinto, e pressoché nessun effetto dal sesto decile in su. Ciò sfata in larga misura la credenza, diffusa, che il salario minimo aiuti i sindacati a spuntare condizioni salariali migliori in sede di negoziazione del CCNL, per i livelli professionali superiori al minimo;

c)       Il salario minimo, soprattutto se in crescita dinamica o attestato su livelli relativamente alti, tende a produrre effetti disgregativi sul mercato del lavoro, generando una selezione avversa per i profili professionali più fragili, cioè quelli meno qualificati, la cui produttività finisce per risultare inferiore a quanto l’impresa paga per lo SMIC. Secondo Laroque e Salanié (2000) un incremento di un punto dello SMIC distruggerebbe 29.000 posti di lavoro prevalentemente dequalificati; secondo Kramarz (2013) l’effetto sarebbe compreso fra i 15.000 ed i 25.000 posti di lavoro.

d)      Tale effetto va però ben delineato: a livello complessivo, non è affatto detto che il salario minimo comporti un calo del numero totale di occupati. La teoria del salario di efficienza di Shapiro e Stiglitz, infatti, prevede una correlazione positiva fra salario e produttività: salari minimi evitano produttività troppo basse ed alimentano la crescita, anche per il tramite dell’effetto sulla domanda aggregata, creando quindi più impieghi. Senza contare che, secondo uno studio del Senato francese, abbinare allo SMIC uno sgravio sui contributi sociali pagati dalle imprese a fronte di un aumento dello SMIC comporta la difesa di almeno 400.000 posti di lavoro. Uno studio del 1993 su due Stati americani, uno dei quali aveva introdotto un salario minimo, ha mostrato effetti occupazionali migliori per lo Stato con il salario minimo (Card, Krueger). 

e)      Il problema risiede a livello più micro, cioè nella composizione interna dello stock di disoccupati. La disoccupazione si può suddividere in quattro componenti: quella ciclica, dovuta a crisi congiunturali, che tende a riassorbirsi con la ripresa, perché comunque costituita da persone qualificate ed occupabili, quella frizionale, generalmente riguardante posizioni professionali qualificate, che trovano facilmente e rapidamente un nuovo impiego; quella volontaria, costituita da persone che potrebbero lavorare e scelgono di non farlo, e quella classica, costituita perlopiù da persone con un livello di qualificazione e di produttività particolarmente modesto e difficili da impiegare. Di fatto, un salario minimo orario non incide sulla disoccupazione ciclica e su quella frizionale, ed anzi, tramite gli effetti di efficienza e di salario può ridurle, specie la prima; ha effetti ambigui sulla disoccupazione volontaria, perché dipende dal livello al quale viene fissato (più alto è più incentiva i disoccupati volontari a cercare un impiego); può avere effetti negativi su quella classica, il cui livello di produttività finisce per essere inferiore al costo complessivo del lavoro. La combinazione di questi effetti, ad un livello aggregato, può ovviamente dare luogo ad aumenti o riduzioni del tasso di disoccupazione, o ad una indifferenza del suo valore. In Francia, laddove esiste un ampio bacino di lavoratori dequalificati, soprattutto immigrati, l’effetto complessivo tende ad essere negativo.

f)        Il salario minimo non è uno strumento di riduzione della povertà per chi non lavora. Può sembrare una ovvietà, ma non lo è, perché delimita bene il campo, anche ideologico, di utilizzo di tale strumento. Uno studio, sempre condotto in Francia, fra percettori dell’equivalente del nostro reddito di cittadinanza (che i francesi chiamano “RMI”) mostra come la scelta di passare dalla condizione di disoccupato percettore dell’RMI, quindi di uno strumento di contrasto alla povertà, a quella di occupato con lo SMIC, consente un guadagno di reddito non superiore al 50% per il 70% dei soggetti. La scelta di passare dal non lavoro (che, soprattutto nel nostro Paese, comporta tempo libero che può anche essere usato per ottenere guadagni in nero) al lavoro “al minimo” significherebbe quindi passare, per una persona sola, da 500 euro a 700-750 euro al mese, un guadagno che potrebbe non essere allettante in cambio del sacrificio del proprio tempo necessario a lavorare.

Fatta quindi la tara agli effetti positivi e negativi del salario minimo, è chiaro che la sua introduzione, in Italia, deve seguire alcune avvertenze specifiche, correlate alla nostra realtà economica e sociale. Le soluzioni “in quota fissa” che spesso circolano (in particolare, un salario minimo di 9 euro all’ora, valore scelto perché è usato come linea di discrimine per la definizione di working poverty) rischiano di essere apodittiche e poco flessibili. Suggerirei quanto segue:

a)       Scegliere con grandissima attenzione il livello di salario minimo, in modo che non sia troppo alto rispetto al salario medio, comportando quindi effetti di schiacciamento della gerarchia salariale e di crescita della disoccupazione classica e dequalificata (in Francia, il rapporto fra SMIC e salario mediano è del 67%, il più alto fra i Paesi europei che hanno tale strumento) e non troppo basso, scoraggiando l’avviamento al lavoro per i percettori di reddito di cittadinanza e creando una trappola della povertà. Il salario mediano del nostro Paese, pari a 1.430 euro netti al mese, potrebbe condurre ad un salario minimo di circa 920-930 euro netti al mese, con un rapporto del 65%, più basso di quello francese, ma sufficientemente alto da indurre un percettore individuale di reddito di cittadinanza a rientrare nel circuito lavorativo. Ciò corrisponderebbe, a tempo pieno con 40 ore settimanali, ad una paga di 5,75 euro netti all’ora (circa 7,07 euro lordi all’ora);

b)      Se il valore approssimativo è quello sopra esposto, il suggerimento è di calibrare tale valore in base al settore/professione: settori privi di contrattazione collettiva, come quello dei rider, dovrebbero avere un salario minimo più alto, in modo da compensare la particolare debolezza di tali categorie di lavoratori, di fatto privi di copertura sindacale. Quelli coperti da contratto collettivo, presumibilmente, potranno spuntare valori salariali superiori, grazie al negoziato sindacale. Anche le categorie che operano in contesti settoriali più dinamici, dove c’è maggior valore aggiunto da spartire, dovrebbero avere, per equità, un salario minimo più alto, riflettente il maggior apporto produttivo fornito (920-930 euro al mese può essere un salario minimo concepibile per un cameriere, meno per un operaio, anche al livello contrattuale minimo, che lavora in una azienda aerospaziale);

c)       Le possibili perdite occupazionali legate alla disoccupazione classica e dequalificata possono essere molto efficacemente contrastate con provvedimenti mirati di riduzione del cuneo contributivo perle imprese: non uno sgravio contributivo universale, che è una cazzata ed un regalo alle imprese, ma uno sgravio mirato soltanto ai lavoratori che percepiscono il salario minimo e vengono assunti a tempo pieno ed indeterminato, di entità crescente al crescere del fabbisogno di formazione e qualificazione professionale degli assunti;

d)      Il salario minimo non può in nessun caso essere una alternativa al contratto collettivo. Da solo, infatti, non garantisce una piramide salariale sufficientemente sviluppata e riflettente il maggior apporto lavorativo. Quindi, esso non può che essere un argine retributivo minimo in un contesto in cui si lavora per potenziare ed allargare il CCNL, anche alle categorie che ne sono prive;

e)      Attenzione va posta anche agli aumenti del salario minimo. Il meccanismo del “coup de pouce” francese, poco razionale e molto legato a congiunture politiche, va superato in nome di un incremento strettamente legato a quello del costo della vita;

f)        Il salario minimo non è uno strumento generale di lotta alla povertà. Non può sostituire il reddito di cittadinanza ed il welfare (sanità pubblica, edilizia popolare, ecc.). Tali strumenti devono essere conservati, perché lavorano su una logica diversa, estranea al mercato del lavoro e legata a diritti di cittadinanza universale che vanno garantiti a tutti i cittadini.

RiRiferimenti: 

E  En marge de la Protection Sociale : le SMIC est-il le salaire minimum institutionnalisant le chômage ? Dossier : L'Europe sociale, Magazine N°530 Décembre 1997 

    Sénat de la République: Les perspectives de retour au plein emploi, 25 septembre 2021 

   Sébastien Grobon, Quels effets du salaire minimum sur le chomage, Regards Croisés sur l'Economie, 1/2013 

   Chauvin V., G. Dupont, É. Heyer, M. Plane et X. Timbeau, 2002, « Le modèle France de l’OFCE. La nouvelle version : e-mod.fr », Revue de l’OFCE, n° 81, avril. 

    D. Card, A. Krueger, Mimimum Wages and Employment: A Case Study of the Fast Food Industry in New Jersey and Pennsylvania; National Bureau of Economic Research, WP 4509, 1993





 

 

lunedì 26 luglio 2021

Tronti: la sconfitta ed il lascito intellettuale

 


Tronti è stato, per certi versi, l’operaista di maggior caratura intellettuale, insieme a Panzieri ed  alle sue intuizioni metodologiche sulla con-ricerca di classe. Lontano dai deliri di Cacciari, ruppe con l’orientamento confuso e inconsistente di Negri proprio sul piano del luogo in cui condurre la lotta politica: non in orizzontale e dal basso, nell’iper-Urano dell’operaio sociale negriano, cioè sul campo di una presunta autonomia sociale dalla politica, che andò a sbattere nel ’77, ma in verticale e verso l’alto, con l’idea dell’autonomia del politico.

L’idea cioè che la politica condotta nelle istituzioni dello Stato ha un ciclo di durata diversa da quello del capitale, e può, anzi, condizionare quest’ultimo, rallentandolo o accelerandolo con la sua opera di mediazione, necessaria per salvare il capitalismo da sé stesso.

Così la politica sceglierà un maggiore intervento dello Stato in economia, costruendo sistemi capitalistici misti, quando una crisi di domanda o un crinale di innovazione tecnologica radicale minacciano gli assetti produttivi; per altri versi, quando si aprono nuove opportunità di mercato, la politica accelererà la naturale tendenza privatizzatrice del capitale, con interventi liberisti. Questi sono solo due esempi: un altro è insito, ad esempio, nella mediazione politica rispetto alle regole del mercato del lavoro o alle politiche dei redditi, o rispetto alle regole di comportamento dei mercati finanziari ed al relativo sistema di controllo, che in diversi contesti storici rallenta o accelera le tendenze economiche del capitalismo, prevenendone l’insorgere di contraddizioni che la sola funzione economica non può risolvere, oppure accelerandone lo sviluppo.

Per il Tronti che negli anni settanta elabora il concetto di autonomia del politico, il capitalismo è sull’orlo di produrre un enorme cambiamento di struttura, che sarà guidato da incisive riforme politiche, ed occorre, quindi, che la classe operaia anticipi queste riforme prendendo il controllo politico dello Stato, in una logica schmittiana di amico/nemico. In effetti è così: gli anni ottanta segnano una svolta profonda del capitalismo, accompagnata da altrettanto profonde innovazioni politiche: la fine del fordismo, con l’emergere di modelli produttivi non gerarchici e collaborativi e il frazionamento della fabbrica verticalmente integrata in lunghe filiere di PMI; l’emergere di un ceto medio indifferenziato che rivendica uno spazio culturale, economico e di posizionamento produttivo autonomo, e per molti versi antagonista, a quello tradizionalmente occupato dal proletariato. Accanto a questo, i grandi cambiamenti politici: il declino della socialdemocrazia e del marxismo rivoluzionario, l’emergere del liberismo politico con la sua idea di individualizzazione e privatizzazione della società, la crisi del sindacato e dei modelli concertativi.

Per questo Tronti tornerà nell’alveo del PCI, lasciando i suoi vecchi compagni operaisti baloccarsi con costruzioni teoriche astratte e desideri insoddisfatti. Ma Tronti, purtroppo, non è stato capace di sopravvivere intellettualmente alla sconfitta del suo pensiero. La politicizzazione della classe operaia altro non era, infatti, che una forma di riformismo. Certamente una via alta al riformismo, ma questo era. E, dopo aver prodotto la sconfitta del compromesso storico, questa via alta al riformismo è degenerata in una stradina stretta e fangosa.

Questo è avvenuto proprio perché la classe operaia è stata sconfitta sul piano economico: frammentata dall’outsourcing, in perdita di coscienza di classe nei nuovi modelli produttivi toyotisti, affiancata da figure sociali emergenti non cooperative, precarizzata dalle riforme del mercato del lavoro, la classe è sconfitta sul piano economico, e quindi su quello politico non riesce più a produrre una idea di mondo originale, in grado di superare la crisi della socialdemocrazia e del socialismo reale, finendo per acquisire i modelli liberisti altrui nel tentativo di renderli meno crudeli o più “sociali”. Da qui nascono i tentativi, sempre più edulcorati, di tenere in vita un progressismo sempre più scialbo, fino ai veri e propri tradimenti perpetrati dal Pd e dallo stesso Tronti, che votano il  Jobs Act.

In altri termini, l’anti-economicismo del pensiero trontiano si rivolge contro lo stesso Tronti: la sconfitta sul piano economico impedisce alla classe operaia di conquistare quello politico. Il meccanismo gira alla rovescia rispetto a come pensava lui: va dall’economia alla politica, non viceversa. La strada della sconfitta e del convento si apre inesorabilmente.

Cosa rimane del pensiero trontiano? Rimane indubbiamente il fascino dell’analisi della relazione reciproca e stretta che esiste fra economia e politica, e che vediamo all’opera oggi, con il Governo Draghi, che agisce esattamente come grande mediatore in grado di rettificare e raddrizzare gli eccessi contraddittori prodotti da una rapidissima fase di evoluzione del capitalismo, coinvolto in un enorme ciclo di distruzione creativa schumpeteriana. Questo ci insegna che la politica non è affatto morta sotto i colpi della globalizzazione e dell’oligarchizzazione delle multinazionali e dei grandi operatori finanziari. Essa, semplicemente, si adatta a tale fase del capitalismo e, sotto la spinta della Ue o di altri grandi accordi economici o commerciali internazionali, si globalizza. Essa non è morta e non può semplicemente considerarsi l’ancella di trasformazioni nei modi di produzione. Essa vive in mezzo a noi. Sta a noi capire come utilizzarla, senza però pretendere che essa possa autonomizzarsi dall’economia ma, anzi, sapendo vivere nella complessità dell’intreccio reciproco di queste due dimensioni, entrambe essenziali.

venerdì 26 marzo 2021

Euro-integrazione e destra tedesca: il ruolo della Corte Costituzionale di Karlsruhe

 


Dunque, quanto si paventava da tempo si è realmente avverato: il processo legislativo di approvazione del Next Generation Fund si è arrestato, proprio nel cuore dell’’impero, ovvero in quella Germania che ha di fatto conformato le regole di funzionamento della Bce e dei Trattati. Si è fermato perché la Corte Costituzionale di Karlsruhe ha ordinato al Presidente della Repubblica Federale di non ratificare la legge di approvazione del Recovery Fund, votata a larga maggioranza in Parlamento, nelle more della discussione di un ricorso presentato da Bernd Lucke, economista accademico ed ex membro di Afd (la destra sovranista tedesca).

Lucke contesta che il meccanismo del Recovery Fund produca di fatto un trasferimento di risorse finanziarie dagli Stati più virtuosi (come la Germania) a quelli più indebitati, come il nostro, e che questo trasferimento sia incostituzionale in base alla Legge Fondamentale tedesca. Da un punto di vista strettamente costituzionale, in effetti, Lucke potrebbe avere alcune ragioni da vendere: il meccanismo costituzionale tedesco prevede un limite inderogabile all’indebitamento (il c.d. “debt brake”, che impedisce al Governo federale di superare un disavanzo strutturale dello 0,35% del Pil) ed un limite a risorse prese a prestito, che non possono superare l’ammontare degli investimenti (ovviamente quelli tedeschi, non quelli di altri Paesi).

Naturalmente, però, la questione è strettamente politica: la Corte Costituzionale tedesca ha già dimostrato, con la sentenza del maggio scorso sul vecchio meccanismo di quantitative easing, di pendere verso gli interessi della destra euroscettica del Paese. Questa destra, ben rappresentata nella Confindustria germanica, diffusa, ben oltre Afd, anche fra i liberali e gli accademici (con esponenti come Schaeuble, che con la sua proposta di rating del debito sovrano avrebbe fatto esplodere l’Eurozona in un secondo, Werner Sinn e Lars Feld, entrambi consiglieri economici della Merkel) in fondo ritiene inutile e dannoso, per la Germania, perseguire ulteriori cessioni di sovranità in nome di una costruzione europea sempre meno strategica. L’export tedesco verso gli USA, la Cina e la Gran Bretagna supera di gran lunga quello diretto verso i Paesi dell’area euro, ed in particolare l’export verso i Paesi euromediterranei è diventato trascurabile: l’Italia è solo al settimo posto nella graduatoria delle vendite estere, la Spagna al dodicesimo. In questi termini, dal punto di vista degli industriali e delle loro cerchie di economisti, assumere rischi finanziari crescenti, che possono mettere in discussione il modello competitivo deflazionistico tipico del Paese, è più pericoloso che lasciare che i Paesi mediterranei escano dall’euro, magari con procedure di default pilotato del loro debito pubblico, per minimizzare gli impatti sul sistema finanziario globale. Sinn, in una intervista di quest’estate, ha esplicitamente proposto che l’Italia venisse avviata verso un programma di ristrutturazione del suo debito sotto la regia del Fmi e del club di Parigi.

D’altro canto, la battaglia politica interna alla stessa Germania è oramai al calor bianco. A pochi mesi dal voto politico, i sondaggi sembrano propendere verso la fine del dominio della Cdu/Csu con i suoi alleati liberali, che aveva irretito i socialdemocratici in una gabbia di politiche neoliberiste. Si profila, infatti, la vittoria di una coalizione rosso-verde, composta dai socialdemocratici, guidati dall’attuale Ministro delle Finanze Scholz, insieme ai Verdi. Il programma elettorale proposto da Scholz è molto socialdemocratico, ed inevitabilmente, se venisse messo in atto, scuoterebbe alla radice il modello ordoliberista che la Germania ha voluto imporre a tutti i Paesi europei. Aprirebbe spazi per fare politiche di spesa anche in altri Stati membri. Ridurrebbe i margini di manovra dei falchi dell’austerità, anche in modo involontario, se vogliamo (Scholz non ha infatti mai deviato dalla posizione classica tedesca che vuole il ritorno del Patto di Stabilità dal 2022, ma ovviamente se facesse politiche di spesa dentro il suo Paese, avrebbe ben poca autorità per impedire agli altri di imitarlo).

Cosa succederà, dunque? La Corte Costituzionale tedesca sposa sicuramente posizioni ostili al Recovery Fund e fondamentalmente nazionaliste come quelle della componente euroscettica della destra tedesca. Difficilmente potrà spingersi fino a bloccare completamente il Next Generation Fund, perché considerazioni istituzionali (evitare un conflitto esplicito con il Parlamento che tale fondo ha appena approvato a larghissima maggioranza) e politiche (un recente sondaggio evidenzia che più della metà dei tedeschi è favorevole al Recovery Fund ed a una maggiore solidarietà europea) andranno inevitabilmente a pesare. Però è anche chiaro che i giudici costituzionali di Karlsruhe non potranno smentire la loro linea oramai consolidata e cedere su tutto il fronte. Intanto ci vorranno mesi prima che la sentenza sia emessa, e ciò comporterà inevitabili ritardi nell’erogazione dei fondi, riducendo ulteriormente l’impatto macroeconomico del Recovery Fund, già eccessivamente diluito. E poi è molto probabile che verrà presa di mira la parte di contributi a fondo perduto del Recovery Fund, che configurano nel modo più esplicito un trasferimento diretto di risorse dalla Germania ai Paesi euromediterranei, su cui più facilmente possono attecchire le osservazioni di anticostituzionalità.

Nell’insieme, tutto ciò non potrà che indebolire chi chiede maggiore integrazione europea nel nome della solidarietà e della condivisione dei rischi, superando le regole obsolete del Patto di stabilità e chi, sul fronte interno tedesco, vorrebbe cambiare la direzione delle politiche economiche e sociali, iniziando dall’abolizione degli odiosi provvedimenti Hartz. Draghi, che ha antenne molto attente, ha subito captato l’aria che tirava e forse il suo ultimo discorso parlamentare, per certi versi “sorprendente”, in cui rivaluta il ruolo degli Stati-nazione nei confronti del mercato comune europeo, è una sfida diretta alla destra euroscettica tedesca.

Chi vivrà, vedrà.

 

venerdì 5 marzo 2021

Riduzione del lavoro e reddito di cittadinanza

 



 La crescita economica di lungo periodo è alimentata dalla produttività totale dei fattori, fra cui anche quella del lavoro. In questi termini, il monte-ore lavorato da ciascuno di noi e, più in generale, lo stock occupazionale, a parità di evoluzioni demografiche, tende, nel lungo periodo, a diminuire. Nelle società tradizionali, era normale che si iniziasse a lavorare, accompagnando il padre nei campi o nelle prime manifatture, attorno ai 14 anni, per poi non smettere più per tutto il resto della vita.

Il progresso tecnologico ed organizzativo ed i suoi riflessi sulla produttività ha ridotto tempi e necessità di lavoro. Tale riduzione è stata affrontata, a livello sistemico, prolungando il tempo di vita in cui l’individuo non lavora, o perché studia (con l’ingresso nel mondo del lavoro che per molti avviene ben oltre i 20 anni) o perché va in pensione ed accettando la presenza di una disoccupazione strutturale e permanente (che, nel mondo precapitalistico, era un fenomeno pressoché inesistente e limitato a sparuti gruppi di marginali, vagabondi o criminali).

Più di recente, non volendo più agire su educazione e previdenza, il sistema ha dato alla riduzione del monte di ore lavorate una risposta in termini di precarizzazione dei rapporti di lavoro, riducendo l’area del lavoro fisso, per aumentare quella del lavoro strettamente connesso ad una effettiva esigenza, cancellandolo quando l’esigenza viene a cessare.

La rivoluzione tecnologica in atto, caratterizzata dall’integrazione di saperi scientifici diversi (cibernetica, robotica, meccanica e microelettronica, Ict, digitale, biotech e nuovi materiali) produrrà una nuova ondata di crescita della produttività, quindi ridurrà ulteriormente il tempo di lavoro e l’occupazione, prima di crearne di nuova con i noti meccanismi schumpeteriani (che agiscono nel lungo periodo) e tale ulteriore riduzione della massa di lavoro non sarà più affrontabile, se non parzialmente, con ulteriori prolungamenti della fase inattiva della vita di ciascuno o con ulteriori precarizzazioni che difficilmente sarebbero sopportabili socialmente e che alla fine, spinte all’estremo, condurrebbero a lavoratori totalmente sganciati dalla possibilità di acquisire una conoscenza “job-specific”, cioè formata specificamente sul lavoro da svolgere in quello specifico posto di lavoro, quindi con effetti negativi sulla produttività e la competitività.

 Occorreranno nuovi meccanismi. Occorrerà un processo di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e occorrerà un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato, non legato cioè a meccanismi di politica attiva del lavoro. In questo articolo mi occuperò di questo secondo strumento.

Nel loro minuzioso lavoro di raccolta ed elaborazione statistica di dati su serie storiche lunghissime, Giattino, Ortiz-Ospina e Roser (2013)[1] mostrano con chiarezza come il numero di ore lavorate annualmente tenda a ridursi drammaticamente nell’arco di un secolo e mezzo in tutti i Paesi sviluppati.

 Andamento del numero di ore lavorate per addetto, periodo 1871-2017 in alcuni Paesi sviluppati


In particolare, il numero medio di ore lavorate diminuisce al crescere della ricchezza del Paese: i Paesi a più alto Pil pro capite, quindi con sistemi capitalistici più evoluti e consolidati, hanno un minor numero di ore di lavoro medie per occupato. Detto “en passant”: l’Italia è rappresentata dal punticino blu appena a sinistra e sotto quello giapponese. Lavoriamo molto di più dei nostri colleghi tedeschi, olandesi, francesi e lussemburghesi. Questo per smentire le affermazioni dei tanti idioti con posizioni ministeriali o parlamentari che parlano di un Paese di pelandroni che vivono al di sopra delle loro possibilità.

 Relazione fra numero di ore lavorate annualmente per lavoratore e Pil pro capite nei principali Paesi del mondo



La riduzione del monte ore per addetto non ha bisogno di grandi spiegazioni: è legata alla straordinaria crescita della produttività del lavoro indotta dalle innovazioni tecnologiche, organizzative e di formazione della manodopera generate dalle trasformazioni dei sistemi socio-economici nel tempo.

Questo andamento delle ore lavorate per occupato non può non avere riflessi anche sul monte occupazionale complessivo. In base ai dati elaborati da Robert Feenstra, Robert Inklaar e Marcel P. Timmer (2015)[2] l’occupazione in Italia, che fra 1950 e 2019 cresce del 28,5%, se depurata dalla crescita della popolazione, nel medesimo periodo rimane sostanzialmente immutata, con un lieve decremento (-0,2%). Il tutto a fronte di un incremento in termini reali del Pil del 1.057% nel medesimo periodo storico!

In altri termini, al netto di effetti puramente demografici (cioè la crescita della popolazione) il monte occupazionale non cresce e, anzi, manifesta segnali di riduzione, pur in presenza di aumenti molto intensi della ricchezza prodotta.

 Andamento del numero di occupati lordi e netti (depurati cioè dall’effetto dell’aumento della popolazione) in Italia fra 1950 e 2019

Fonti: Penn World Tables

Tali considerazioni, proiettate sul futuro, hanno ricadute molto chiare. Le previsioni di produttività e di cambiamento del mercato del lavoro, indotte dalla nuova trasformazione tecnologica imminente, non potranno che generare un ulteriore calo delle ore lavorate per addetto e dell’occupazione complessiva. Le previsioni di Unioncamere/Excelsior su un arco di tempo medio (al 2024) stimano, nello scenario più ottimistico di una espansione economica, una sostanziale stazionarietà del fabbisogno occupazionale complessivo sul mercato del lavoro italiano (+0,75% fra 2019 e 2024) e, nello scenario più pessimistico, addirittura una riduzione (-2,3% nel medesimo periodo, con un calo di quasi 600.000 addetti richiesti).

Guardando più avanti, combinando le previsioni di lungo periodo formulate dall’Ocse per il Pil reale e quelle sulla popolazione in età lavorativa dell’Istat, fra 2020 e 2060 la produttività del lavoro italiana potrebbe aumentare del 102,8%, crescendo in misura lenta fino al 2030, per poi accelerare nettamente, probabilmente in corrispondenza con la piena implementazione dei nuovi processi produttivi basati sull’integrazione fra robotica ed intelligenza artificiale, dopo le prime fasi di sperimentazione ed introduzione parziale.

Se applichiamo tale trend a ciò che è avvenuto in passato, notiamo che negli ultimi 40 anni disponibili statisticamente (1977-2017) nel nostro Paese, ad ogni punto di aumento della produttività del lavoro è corrisposto un calo del numero di ore annualmente lavorate per addetto di 0,0577 punti.

Proiettando quindi nel futuro la produttività del lavoro prevista al 2060, otterremmo un ulteriore calo del numero di ore lavorate del 5,9%. In termini di occupati equivalenti, parliamo di circa 10,2 milioni di persone che entro il 2060 non lavoreranno più. Anche considerando il parallelo calo di popolazione in età da lavoro previsto dall’Istat entro il 2060, stiamo parlando di un esubero di manodopera di circa 2 milioni di persone.

2 milioni di persone che entro i prossimi 40 anni saranno presenti nel nostro Paese ma non lavoreranno, una disoccupazione tecnologica aggiuntiva rispetto a quella già presente fisiologicamente (che ovviamente non verrà assorbita, stante l’aumento della produttività di chi già lavora) e che nel 2019, anno pre-Covid, quindi non influenzato da fattori straordinari, ammontava, fra disoccupati e scoraggiati, a circa 5,4 milioni di persone.

Detta più brutalmente: nei prossimi decenni, rischiamo di trovarci innanzi a quasi 8 milioni di italiani senza lavoro. Certo, poi sono vere anche le considerazioni schumpeteriane sulla distruzione creatrice: quei 2 milioni di disoccupati tecnologici, nel lungo periodo, potrebbero essere compensati dalla nascita di nuove figure professionali legate all’innovazione tecnologica, che potrebbero intaccare anche la componente non tecnologica della disoccupazione. Però intanto per anni rimarranno lì, costituendo un problema sociale enorme. Perché 8 milioni di persone possono significare 5-6 milioni di famiglie, cioè 10-12 milioni di persone in disagio sociale.

Da questo punto di vista non appare assolutamente comprensibile l’ostracismo ad un reddito di cittadinanza di tipo universalistico, incondizionato, non legato cioè a bizzarre alchimie circa la partecipazione di progetti di reinserimento lavorativo ed a “politiche attive del lavoro” che nell’esperienza pratica si vanno configurando sempre più come forme di bricolage creativo di formazione, esperienze on the job, stage e tirocini, con ricadute stabili sulle vite delle persone molto ridotte. E non solo nel nostro Paese. Nel grafico seguente, riportato da uno studio valutativo di Altavilla e Caroleo[3] (2002) Paesi come Italia, Finlandia, Germania o Francia, pur presentando un livello alto di spesa per politiche attive del lavoro sul Pil (variabile ALMP/PIL in ascissa) hanno tassi di disoccupazione comunque elevati, mentre i Paesi con bassa spesa per politiche attive del lavoro hanno tassi di disoccupazione molto bassi (Giappone, USA, ecc.). Paesi con sistemi di reddito di inserimento (cioè un sostegno monetario temporaneo combinato con azioni di formazione e di inserimento lavorativo obbligatorie per il beneficiario) da lungo tempo, come il Belgio, si collocano sul quadrante medio-alto del tasso di disoccupazione, pur con una spesa elevata per politiche attive del lavoro.

Relazione fra tasso di disoccupazione e quota di spesa in politiche attive del lavoro sul Pil per alcuni Paesi

Fonte: Altavilla-Caroleo

Qui il tema, che renziani e neoliberisti di vario genere, anche collocati a sinistra, non riescono a capire, è che occorre un reddito minimo di cittadinanza incondizionato per questioni di tenuta stessa della coesione sociale. Un futuro in cui la cittadella di chi ha un lavoro sarà sempre più piccola e circondata da milioni di persone tagliate fuori dall’accesso all’occupazione, e che non potranno essere reinserite neanche con politiche attive o redditi di inserimento, non è sostenibile: sarà luogo a conflitti sociali sempre più acuti, allargamento della devianza sociale e della criminalità, probabili soluzioni repressive ed autoritarie. Un futuro da incubo.

Tra l’altro, diversi studi condotti su schemi di reddito minimo incondizionato mostrano come esso non sia affatto incompatibile con la creazione di nuovo impiego. Uno studio pionieristico di Bowles (1992) evidenzia che la sostituzione dei sussidi di disoccupazione con un reddito incondizionato sia in grado di ridurre il salario di riserva dei lavoratori, inducendo quindi effetti occupazionali favorevoli. Groot et al. (1997) dimostrano la stessa cosa, ovvero che un sussidio monetario incondizionato è compatibile con la crescita occupazionale e economica.

In linea di principio ed in teoria, un reddito minimo incondizionato, non dipendente quindi dallo status lavorativo del beneficiario o dal fatto che esso si collochi o meno al di sotto della soglia di povertà, non esercita alcun effetto sul tasso di rimpiazzo, cioè sul rapporto fra sussidio percepito e salario medio offerto dal mercato del lavoro, quindi non genera nessun effetto di azzardo morale e nessuna trappola della povertà. E’ di fatto uno strumento neutrale rispetto allo stock occupazionale.

In un quadro più realistico, un reddito di cittadinanza erogato solo a chi non ha un lavoro ed in presenza di fenomeni di isteresi della disoccupazione e di rigidità del salario, in condizioni di concorrenza imperfetta in cui il salario è influenzato dalla produttività del lavoro e dalla pressione fiscale sull’impresa, l’erogazione di un reddito di cittadinanza aumenta la domanda aggregata e quindi la domanda di lavoro. In presenza di salari rigidi perché prestabiliti in anticipo mediante la contrattazione, si verifica quindi un aumento di occupazione che non genera pressioni particolari sul salario reale.

Tutt’al più, si possono generare alcuni “effetti di reddito” (lavoratori che con il reddito di cittadinanza rifiutano offerte di lavoro) ma questi ovviamente riguardano soltanto i segmenti più bassi del mercato del lavoro, i lavoratori meno qualificati che lavorando otterrebbero salari solo di poco superiori al reddito di cittadinanza, quindi segmenti di lavoratori a bassa specializzazione e che non contribuiscono all’incremento della produttività e della competitività d’insieme dell’economia. Gli effetti di reddito tanto declamati dal povero ed ignorante Renzi (i camerieri di Recco che con il Rdc grillino non sarebbero disposti a lavorare) sono quindi irrilevanti per la competitività e la crescita complessiva del sistema, hanno un impatto macroeconomico trascurabile, non impediscono un aumento complessivo dell’occupazione nel sistema, e, nella misura in cui il reddito di cittadinanza sostituisca altri sussidi, come quello di disoccupazione, divenuti inutili, anche l’impatto sulle finanze pubbliche potrebbe essere neutro.

In conclusione, nel mondo che viene, se si vuole tenere insieme crescita per la via dell’innovazione tecnologica ed organizzativa e quindi incremento della produttività e coesione sociale, la previsione di uno strumento reddituale universalistico ed incondizionato, sganciato da politiche di inserimento lavorativo, diviene uno strumento non più evitabile dal dibattito pubblico e non più affrontabile con la retorica dei pelandroni di una Fornero qualsiasi, ma con strumenti di analisi economica.



[1] "Working Hours". pubblicato online at OurWorldInData.org

[2] The Next Generation of Penn World Table, American Economic Review, 105(10)

[3] “Evaluating Active Labour Policies in Italy: A Regional Analysis”, paper presentato alla XIX National Conference of Labour Economics