lunedì 21 settembre 2020

Una prima analisi del voto: verso la necessità crescente di un populismo progressista

 


Sarò corto e provvisorio, come disse il nano del circo con contratto precario. Solo alcune impressioni, in attesa di disporre di dati più analitici:
  • iniziamo dal referendum. Non cadiamo in squallide recriminazioni. Il popolo sovrano si è espresso con una percentuale di voti che non dà adito a discussioni. 17 milioni di italiani, un numero enorme, superiore a quello degli elettorati di riferimento di Pd, M5s, Bonino e sinistra di governo messi insieme (come da voto ottenuto alle Europee del 2019,in cui questo aggregato è arrivato a 12,5 milioni) hanno deciso per il Si. Evidentemente milioni di elettori di destra, nonostante la possibilità offerta loro di mettere in qualche difficoltà il Governo, o comunque di non rinforzarlo ulteriormente, si sono uniti al concerto dell’antipolitica. A spiegare ciò, in piccola parte, vi è l’atteggiamento ambiguo di Salvini, ma anche della Meloni. Costoro hanno fatto un ragionamento molto semplice: essendo parte costituente dell’antipolitica urlata, di fatto il Si gli fa comodo, sia tatticamente (quando nel 2023 si andrà al voto il raggiungimento di una amplissima maggioranza sarà favorito dalla riduzione dei parlamentari) sia culturalmente, perché prepara la strada ad un Paese presidenzialista e preda di un Uomo Forte, come loro preferiscono.
     
  • Dentro una percentuale di Si così alta non vi è soltanto l’evidente asimmetria mediatica ed organizzativa che il Si ha potuto mettere in campo, e nemmeno soltanto l’irrazionale paura di elettori Pd/M5s di perdere il Governo. Dirò di più: non vi è soltanto la voglia di dare “un segnale” ad istituzioni percepite come inefficienti e corrotte (questo era d’altra parte uno dei refrain dei sostenitori del Si). Vi è qualcosa di più subdolo e pericoloso. Vi è una voglia di Uomo Forte, di superamento delle mediazioni della politica, forse di autoritarismo. Purtroppo non è vero quello che affermava la compianta Rossanda, ovvero che nell’uomo alberga la passione per la libertà. Nelle fasi di impoverimento e di incertezza, la libertà cede il posto alla richiesta di sicurezza, e la richiesta di sicurezza viene meglio intercettata da una forma di governo meno democratica. Nel Paese si agita una voglia di ordine e decisionismo. Come affermava Orban, siamo entrati nell’era delle democrature, cioè di dittature occultate dietro sembianze di democrazia e “benedette” dal voto popolare, in un rapporto fra Sovrano e sudditi sempre meno intermediato dai corpi intermedi. Sarà interessante analizzare il dettaglio del voto referendario, ma, con una percentuale simile, temo che riscontreremo ampia omogeneità fra classi sociali, fasce di età, istruzione, ecc. La voglia di ordine e disciplina pervade trasversalmente il Paese. Nessuno, neanche a sinistra, ha analizzato il salto di qualità della presidenza di Conte: non più un mero tecnico sostenuto dall’intero arco politico per brevi periodi emergenziali, ma un premier senza riferimento politico che può, a seconda dell’aria che tira, governare con Salvini o con Zingaretti, una sorta di “manager” della politica che, fuori da qualsiasi legittimazione elettorale o selezione partitica, agisce “on demand” rispetto alla parte che gli paga lo stipendio, esattamente come un qualsiasi manager che oggi lavora per una azienda, domani, se gli conviene, per la concorrenza. Tale deriva rappresenta, probabilmente, la versione italiana della democratura prossima ventura: un uomo solo al comando, senza riferimenti partitici certi, che catalizza su di sé il potere, saltando a botte di Dpcm, Dl reiterati e fiduce il Parlamento, ridotto a Dieta consultiva in formato ridotto, uomo rafforzato dalla sfiducia costruttiva che si vuole introdurre, che salva soltanto l’aspetto peggiore del parlamentarismo, ovvero il trasformismo patologico della nostra politica.
     
  • Il Pd, partito anfibio e camaleontico per eccellenza, ha fiutato l’aria che tira e gran parte del suo apparato si è schierato per il Sì, da Zingaretti a Franceschini fino ai penosi ex sinistri come Bersani o Fassina che mendicano il rientro, in un modo strumentale alla realizzazione di un imminente più ampio sconvolgimento della Costituzione. Non c’è bisogno di essere indovini: Zingaretti e Delrio lo hanno annunciato urbi et orbi. Con questo clima, si può facilmente far passare una riforma in senso presidenzialista (nel senso del premierato, più specificamente) della Costituzione, per avere finalmente l’Uomo Forte.

     
  • Da un punto di vista meramente elettorale, dal voto regionale escono chiaramente vincitori e sconfitti. Salvando Toscana e Puglia, dopo aver salvato l’Emilia-Romagna, ed incassando il bis in Campania, il Pd è il chiaro vincitore. Si assesta su una percentuale di voto compresa, a seconda dei territori, fra il 15% ed il 35%, con una media nazionale del 20% circa. E’ questa la sua reale base elettorale strutturale, che nonostante tutto riesce a difendere. Mentre chi esce dalla galassia del Pd, come Renzi, si ritrova a dover asciugare risultati umilianti. Nel suo feudo regionale, il rignanese non raggiunge nemmeno il 5%! 
     
  • Viceversa, i grandi sconfitti sono i pentastellati. Nonostante il fatto che la vittoria del Si darà loro una possibilità, puramente propagandistica, di rivendicare una vittoria non loro (nella quale, come detto all’inizio, hanno contribuito anche milioni di voti di destra) e quindi darà qualche mese di sopravvivenza a Di Maio e soci, la cruda realtà del voto dice che al Centro Nord non raggiungono nemmeno il 10% (con risultati umilianti, fino al 3%, in Veneto) e che al Sud, soltanto in virtù di un voto clientelare comprato con il Rdc, arrivano ad un magro 11-15%. Alle comunali, non arrivano mai al ballottaggio, tranne a Matera. Il M5s è in sparizione, con questi numeri non può reggere come partito di potere e di nomenklatura, una scissione di Di Battista non è nemmeno improbabile, e comunque gli apparatchik che Di Maio e soci hanno piazzato nel Deep State faranno presto ad eclissarsi, con questi risultati elettorali. La vittoria referendaria non tira la volata ai risultati elettorali, oramai non sembra esserci più nulla da fare per evitare il declino. 
     
  • Restando a sinistra, il voto finisce di maciullare definitivamente i rimasugli della sinistra radicale. Che stia dentro le liste dei candidati Pd o che si presenti autonomamente, oramai raccoglie risultati miserrimi. Gruppi dirigenti screditati, sradicamento anche fisico dai luoghi della sofferenza sociale, incapacità di proporre qualcosa di utile sui grandi temi che interessano gli italiani, dal lavoro all’immigrazione all’euro fino alla sicurezza nonché un identitarismo obsoleto si combinano con la tendenza maggioritaria intrinseca al voto degli ultimi anni, che premia il voto utile. Sinistra delenda est, lo svuotamento è arrivato al fondo del barile. Persino i gruppi sui quali la sinistra radicale aveva cercato di costruire la sua sopravvivenza, le micro-minoranze Lgbt, i ceti medi istruiti/globalizzati e la militanza nostalgica si sono distaccati, trovano tranquillamente rappresentanza nel Pd o nel M5s, oppure si allontanano nell’astensionismo. E’ finita, una lunga e gloriosa storia è finita e va detto. 
     
  • Infine, nella Lega viene a maturazione il declino di Salvini: l’abbandono ridicolo del Governo nell’agosto del 2019 era stato motivato con la promessa di tornare subito al voto, che non si è avverata, poi co nquella di una conquista lenta delle piazzeforti avversarie, anch’essa tradita dalle sconfitte in Emilia-Romagna e in Toscana. L’esperimento di destra nazionale di Salvini si arena dimostrando tutta la sua debolezza intrinseca: esso non era il frutto di una strategia organizzata, quanto piuttosto della capacità affabulatoria del Grande Banalizzatore, che adesso ha perso smalto e fascino. Si prepara una Notte dei Lunghi Coltelli nella quale Zaia, forte del suo consenso personale (la sua lista civica ha sfiorato il 50% in Veneto) inevitabilmente sfiderà Salvini su un modello di Lega più territoriale, più nordista, più federalista, più simile a quello delle origini. 

     
  • E a sinistra resta pendente la questione del Che Fare: di fronte al clima del Paese, credo sia assurdo ed irrealistico continuare a vagheggiare progetti di ricostruzione di partiti-massa. Nella sudamericanizzazione politica che l’Italia sta subendo, occorre pensare in modo sudamericano. Immaginare un populismo fortemente progressista e con evidenti tratti socialisti, che però rinunci ai simboli identitari del passato e rinnovi anche il suo linguaggio, che guardi non solo alle periferie, ma anche a segmenti ipersfruttati della new economy e a fasce di piccola borghesia a rischio estinzione per la globalizzazione dei mercati e la oligopolizzazione di interi settori economici. Qualcosa che abbia diverse sfaccettature, che si tenga insieme dentro un discorso generale di contrasto all’impoverimento e di interesse nazionale, che valorizzi più la partecipazione che la rappresentanza, secondo l’esprit du temps, qualcosa di simile al Frente Amplio uruguayano o al peronismo di sinistra argentino. Costruito attorno ad un leader carismatico che è ancora da trovare. 
     
     

lunedì 14 settembre 2020

Un confronto fra economisti sulla gestione del debito pubblico prodotto dalla crisi del Covid

 


 Al presente link https://www.project-syndicate.org/bigpicture/the-debt-pandemic?barrier=accesspaylog, vengono esposte in forma rapidamente comprensibile le diverse opinioni dei principali filoni teorici dell'economia in merito al trattamento dell'extra debito pubblico generato dalla recessione del Covid. 

Si parte dall'opinione della Modern Monetary Theory che, come noto, considera il deficit primario del bilancio dello Stato come la precondizione per trasferire risparmio ai privati e quindi ridurre l'esigenza di ricorrere ai prestiti bancari, producendo un calo dei tassi di interesse che, per la loro correlazione interna, genererebbe anche una discesa del servizio del debito. Stephanie Kelton ci dice, quindi, che il problema non è quello di tornare verso l'avanzo di bilancio, ma di regolare la quantità di disavanzo che si produce sulla base della quantità e qualità dello stock potenziale di risorse reali disponibili nell'economia: lavoratori con le loro competenze, macchinari e stabilimenti, grado di innovazione tecnologica di prodotto e processo, risorse naturali. Solo quando la spesa pubblica supera tale stock di risorse disponibili, che di fatto definisce il tasso di crescita potenziale di una economia, allora si genera iperinflazione da domanda e deficit pubblico (quindi debito pubblico) eccessivo. Fino a quando si aumenta la spesa entro il tasso di crescita potenziale, si fa solo del bene perché si trasferiscono risorse di consumo ed investimento al settore privato e si tengono bassi i tassi di interesse, evitando l'effetto snowball del debito. La susseguente crescita economica si incaricherà di ridurre il debito pubblico. 


 

Le cose, però, non sono così facili secondo l'opinione di Raghuram Rajan, dell'Università di Chicago. Il debito prodotto oggi (si stima che le misure finanziarie di sostegno alla domanda aggregata messe in campo dai vari Governi durante la crisi del Covid ammontino al 20% del Pil mondiale) si scaricherà sulle future generazioni. In passato, ciò non costituiva un problema, perché si sapeva che le future generazioni sarebbero state più ricche di quelle attuali, quindi avrebbero facilmente sostenuto l'extra debito. Ma l'invecchiamento della popolazione, l'ivestimento pubblico insufficiente nel settore dell'educazione e della formazione e la minaccia del cambiamento climatico globale pongono seri limiti alla dinamica della produttività futura, conducendo ad un mondo presumibilmente meno dinamico, in termini di crescita, rispetto al passato. La conseguenza è che la spesa pubblica di sostegno alla fuoriuscita dalla crisi da Covid deve essere estremamente selettiva, per non trasferire debito inutile a future generazioni impossibilitate a ripagarlo, e mirare a proteggere i lavoratori, ma non ogni tipo di attività produttiva. Mentre i lavoratori che hanno perso la loro occupazione e le loro famiglie dovrebbero essere, secondo Rajan, aiutati a mantenere uno standard di vita decoroso ed a riconvertirsi professionalmente fino a quando l'economia non riparta ed il settore dell'educazione andrebbe fortemente sostenuto con spesa pubblica perché riduce il gap di produttività delle future generazioni, non tutte le attività produttive andrebbero sussidiate: le  attività ed i settori decotti (come le linee aeree, esemplifica Rajan, forse pensando ad alitalia) o già prima della crisi in eccesso di offerta non vanno sussidiati per farli sopravvivere, perché è più economico pagare l'indennità di disoccupazione ai loro lavoratori; analogamente, non vanno sussidiate le attività che hanno molta domanda e che, in caso di chiusura, possono essere facilmente rimpiazzate con nuove start-up. I sussidi alle imprese vanno limitati alle sole attività non facilmente rimpiazzabili (ad esempio perché ubicate in territori depressi) e che hanno un elevato valore agigunto economico (sono componenti essenziali di filiere vitali per l'industria nazionale) o sociale. E generalmente non vanno sussidiate le grandi imprese, che possono più facilmente trovare credito privato o ristrutturare la propria attività. 

 


 

 Anne Krueger sposta l'attenzione sulla gestione del debito pubblico post-crisi. I Governi, sostiene, potrebbero essere tentati di imporre un tetto massimo ai tassi di interesse, al fine di ridurre il servizio del debito, esattamente come fece il Tesoro statunitense nella fase della Financial Repression dell'immediato dopoguerra. Anche perché potrebbe generarsi nei mercati finanziari l'aspettativa autorelizzantesi di un aumento dei tassi di interesse, per cui nessuno sarebbe disposto ad accettare il rollover del debito sovrano agli attuali, modesti, tassi. Tuttavia, tale strategia funziona se il tetto massimo ai tassi di interesse è ad un livello inferiore al tasso di inflazione, per cui il debito subisce una erosione inflazionistica maggiore rispetto alla sua rivalutazione tramite i tassi di interesse che vi si applicano. Ma nel contesto attuale di deflazione tale strategia è minata alla radice. E comunque esercita un effetto di spiazzamento dall'investimento privato, rischioso, a favore dei titoli pubblici, sicuri, riducendo la crescita. Al fine di gestire il debito post-Covid, sono a suo parere più efficaci misure fiscali targettizzate, ovvero l'introduzione di nuove tasse su attività che si intendono disincentivare: una nuova carbon tax, o una tassa sulla plastica, o sui movimenti finanziari puramente speculativi. 

 


 

Todd Buccholz, ex consulente di Bush per la politica economica, suggerisce, insieme, guarda un pò, a George Soros, di emettere dei bond pubblici perpetui, o con scadenze lunghissime, a 50 o anche 100 anni, a tassi di interesse fissi e simbolici (attorno allo 0,5%), che andrebbero a sostituire le scadenze più brevi ed onerose per il bilancio pubblico, al fine di "congelare" nel tempo un tasso di interesse molto basso e quindi in grado di mantenere il debito pubblico in condizioni di sostenibilità, a prescindere dai cambiamenti nello scenario inflazionistico e dei mercati finanziari nei prossimi 50 o 100 anni. Ciò consentirebbe anche di evitare una eccessiva monetizzazione dei debiti pubblici, che potrebbe condurre ad aspettative inflazionistiche, inducendo quindi gli operatori finanziari ad accettare nuovi titoli del debito pubblico soltanto a condizione che i tassi di interesse siano crescenti, producendo uno scenario di default. I bond perpetui sarebbero facilmente accettati da piccol irisparmiatori e fondi di investimento non speculativi, perché visti come una riserva di valore piccola ma assolutamente sicura ed inattaccabile, e soprattutto perpetua, quindi trasmissibile anche agli eredi, come una casa.  Tale soluzione,a giudizio di Soros, potrebbe essere più accettabile di quella dei coronabonds perpetui anche per la Germania ed i cosiddetti "Paesi frugali" dell'area euro, perché un bond perpetuo, o con scadenze talmente lunghe da essere considerato tale, non potrebbe essere classificato come debito da rimborsare, proprio perché non sarebbe rimborsato mai, ma piuttosto, più accettabilmente, come una sorta di rendita perpetua. Quindi non ci sarebbe una mutualizzazione del debito pubblico. Il ricavato delle aste di questi titoli perpetui, sempre secondo Soros, dovrebbe essere per la maggior parte destinato ai Paesi del Mediterraneo del Sud, quelli più colpiti dagli effetti del Covid e più in ritardo in termini di competitività. 



Lascio al lettore la scelta fra le varie opzioni. Personalmente, io preferisco questa ultima opzione, e in passato mi ero permesso anche di suggerire una veicolazione di una parte del risparmio privato oggi fermo sui conti correnti o in attività speculative verso un bond a basso rendimento come questo. Anche se non trascuro le suggestioni della Kelton, nella misura in cui ci dice che il problema non va visto in termini di saldi contabili del disavanzo da riequilibrare con politiche procicliche, ma di capacità di attivare tassi di crescita in grado di riassorbire il debito.