lunedì 30 marzo 2020

Heimat, ecologismo tedesco e regressione della storia



Rifkin annuncia che la globalizzazione è stata terminata dal coronavirus, distrutta dalla necessità di creare distanze e chiudere frontiere. Ed è interessante l'utopia che predica per il post-globalismo, ovvero quella delle bioregioni, un derivato delle sue concezioni sui sistemi territoriali energeticamente autonomi ed in rete, danti luogo a forme di potere “laterali” e on più gerarchiche, presentate nel libro Terza Rivoluzione Industriale” del 2011, perché rappresenta quella dei verdi tedeschi, il modello dell’Heimat (parola tedesca che può vagamente tradursi come Patria, nel senso affettivo del senso di radicamento su un territorio): un mondo senza Stati nazionali, organizzato in macro-regioni ecologiche, trasversali agli attuali Stati su confini naturali ed etno-culturali, in rete tra loro in una forma confederale molto lasca, in cui lo sviluppo economico e sociale vengono regolati tramite meccanismi di pianificazione partecipata (i principi del Parecon) in forme di democrazia diretta ed assembleare. I servizi e le politiche indivisibili (come la difesa, la moneta, la politica estera, la gestione delle catastrofi o delle epidemie, come ahimé vediamo in questi giorni) verrebbero garantite dalla “rete”, ovvero dall’aggregazione, sempre in forma libera e democratica, di diverse Heimat coinvolte.
La visione del modello dell’Heimat è intrisa di idealismo e romanticismo. Affonda le radici nella filosofia e nel romanticismo da Sturm und Drang tedesco del XIX secolo. Ha valenze diverse, che rinviano ad una idea di “terra madre” di provenienza e che era la base del rabbioso rimpianto della terra abbandonata dalle tribù germaniche migranti verso il Sud dell’Europa. E’ un concetto politico, in quanto rappresenta una delle due basi, antagoniste l’una con l’altra, del nazionalismo tedesco (l’altra è il concetto di Vaterland, caro al nazismo, che richiama ad una unità pangermanica, piuttosto che ad un regionalismo etnico) filosofico, letterario e, per l’appunto, ambientalista.
Secondo Peter Blickle, Heimat è una “concezione spaziale dell’identità”. Radica così forte il concetto di identità che il suo contrario è “entfremdung”, ovvero alienazione. L’alienato è colui che non può riferire la sua identità ad una terra, è quindi uno “sradicato” nel senso letterale del termine. Questo legame costituente con la terra diventa legame con la natura. l’idea di heimat è anche dietro la costituzione delle prima Comunità montane tedesche a fine ottocento, intese non come enti amministrativi di gestione, quanto come aree naturali protette di tipo montano. L’Heimat diventa una forma tutta tedesca di rifiuto della modernità con il suo carico di sradicamento ed alienazione, l’urbanizzazione forzata, il lavoro industriale che distrugge le relazioni umane genuine e deturpa l’ambiente in cui ci si culla, una sorta di Patria idealizzata, del pensiero e del sentimento, fatta di relazioni umane genuine, armonia con l’ambiente, pace ed accoglienza, da contrapporre ai vizi ed ai pericoli del progresso.
Questa forma di campanilismo germanico ha, nella sua forma deteriore, dato vita anche alle peggiori manifestazioni sociali: una piccola borghesia di paese e piccola città di provincia stolida, ignorante, passiva e culturalmente intorpidita, rapidamente acquisita dal nazismo come base del suo consenso ed una nobiltà terriera di Junckers politicamente reazionaria. Questa idea romantica di “spazio dell’identità” si è, alla lunga, dimostrata incapace di resistere alla sfida della modernità: laddove è necessario gestire reti relazionali lunghe e complesse, laddove i problemi geopolitici diventano troppo ampi e globali, laddove l’evoluzione stessa delle piattaforme tecnologiche, richiedono livelli di integrazione multiregionali, l’Heimat va in crisi. La Vaterland nazista, che di fatto mette a sistema idee pangermaniste esistenti sin dai tempi di Bismarck, distrugge il concetto di Heimat in nome di una idea di potenza etnica di un popolo presunto superiore, rafforzando lo Stato centrale ma, e questo è significativo, recupera il concetto di Heimat nel suo armamentario ideologico razzista. Gli ebrei diventano, così, quelli che non hanno un heimat. Ed in fondo, questa idea ha attraversato la storia tedesca, ed ancora oggi ne modella le sue forme istituzionali, dal federalismo al municipalismo.
Il contenuto reazionario del concetto di Heimat è talmente forte che se ne è appropriata dal Nouvelle Droite di de Benoist, così come il federalismo con tratti destrorsi di Miglio, Acquaviva e della Lega e ha assunto tratti escludenti, aggressivi ed etnocentrici nel senso deteriore del termine. I Grunen tedeschi cercano di recuperare la fascinazione della “piccola Patria” parlando di reintrodurre “l’incanto in un mondo senza più incanto”, sempre secondo Blickle. Questo modello di “bioregioni”, cui allude anche Rifkin, è quindi una forma, appena appena idealizzata, di un mondo regressivo, selvaggio, economicamente decrescista, escludente, incapace di gestire le grandi sfide, che in fondo rifiuta in nome del ritorno ad una forma di vita bucolica, nascondendo le differenze di classe dietro una illusione partecipativa ed orizzontalista, che di fatto, in un mondo complesso, non può che perpetuare élites dotate del necessario sapere tecnico ed amministrativo, così come nelle antiche tribù germaniche e slave la conoscenza dell’arte della guerra e della religione perpetuavano élites di nobili guerrieri e di sciamani.
Non è, quindi, difficile capire come mai i Verdi siano così graditi alle vecchie sinistre riformiste vendutesi ai poteri finanziari. Con la loro visione di una “piccola Patria” distruggono le Patrie reali, ovvero gli Stati, e poi, una volta raggiunto lo scopo, come tutti gli utopisti, potranno essere facilmente liquidati dalla semplice constatazione che, se anche lo Stato ha difficoltà a gestire le complessità del presente, la dimensione macroregionale, a maggior ragione, non può farcela.Sarà i lcaso di impedire a questi predicatori del nulla di interpretare quella che verrà dopo la globalizzazione.

lunedì 16 marzo 2020

Qualche riflessione di prospettiva post-virus

 
 
Il decreto "Cura Italia" è, stante la distruzione economica prodotta dalle misure di contenimento sanitario del virus, una gocciolina d'acqua in un mare. Servirebbero misure strutturali e molto potenti per far ripartire il motore dell'economia, un sostegno mirato ai redditi, iniziando da quelli più bassi a più alta propensione marginale al consumo, per riattivare i consumi, giganteschi programmi pluriennali di investimenti pubblici, attuati da agenzie pubbliche sganciate dal rispetto delle regole degli appalti, scalati su priorità precise di rendimento sociale (in termini di attivazione occupazionale di cantiere nell'immediato, ma anche di sostegno alla produttività totale dei fattori nel medio periodo) concentrando gli sforzi su quelle opere (circa 100 miliardi) che hanno già uno stanziamento di bilancio ma non sono mai partite e su una riprogrammazione complessiva delle risorse residue del Fsc e del cofinanziamento nazionale dei Fondi SIE 2014-2020, su una riconcentrazione della programmazione nazionale della ricerca e dell'innovazione su poche piattaforme tecnologiche fattibili e realistiche rispetto alle nostre vocazioni industriali, un gigantesco utilizzo delle risorse della Cdp su prestiti assistiti da garanzie pubbliche a favore delle PMI che rischiano la chiusura, suddiviso in due sezioni (sostegno alla liquidità e sostegno agli investimenti). 
 
Niente di questo si ritrova nel piano del governo, che somiglia al classico contentino per salvaguardare il consenso delle varie categorie con tante micro-concessioni di scarso impatto specifico e disperse in mille rivoli. Dice il nostro premier che il vero piano di rilancio arriverà dopo, forse ad aprile-maggio, per essere concertato con le risorse promesse dalla Commissione Europea. E qui, come si dice, casca il lepre. La nostra classe dirigente sta fingendo che l'Unione europea esista ancora. 
 
Ed invece, questa costruzione ha preso fuoco sulle spiagge del Peloponneso durante la gestione infame della crisi greca del 2014, dove c'è la stata la prova provata dell'incapacità delle élite europeiste di costruire una solidarietà europea reale, e la resa dell'idea europeista agli interessi nazionali dei circuiti creditizi e finanziari tedeschi, francesi e britannici, con la stolta e controproducente complicità del nostro governo. Poi la gestione di Draghi della Bce ha messo una pezza a colori a questo strappo esiziale, inondando di denaro a costo zero (anzi, negativo) un circuito che non funzionava più per una divaricazione storica non colmabile. 
 
La Brexit prima, e il coronavirus poi, hanno lacerato la pezza a colori che Draghi aveva faticosamente messo sopra l'abisso. La prima ha, di fatto, mandato in tilt i negoziati sul bilancio europeo 2021-2027, per incapacità degli Stati membri di accordarsi sui sacrifici da fare per coprire i mancati introiti netti provenienti dalla Gran Bretagna. 
 
Il secondo ha portato la Germania a rinunciare ad ogni residua velleità di esercitare le responsabilità connesse al suo ruolo naturale di potenza regionale. L'incapacità, oserei dire psicologica, una tara della psiche di massa tedesca, di condividere i rischi, qualunque essi siano, questo ottuso vacuum culturale di stampo calvinista che ha impedito a questo Paese di svolgere il ruolo che la sua potenza economica e tecnica, oltre che il suo posizionamento geopolitico, gli avrebbero consentito, ha fatto sì che, in pochi giorni, una Cancelliera terrorizzata dalle spinte isolazionistiche provenienti dai suoi alleati bavaresi della Csu (una specie di Lega tedesca) e dalla crescente destra nazionalista di Afd, abbia cancellato, nell'ordine, il Six Pack (con il maxi piano di prestiti da 550 miliardi preso senza alcun negoziato con la Commissione) ed i Trattati di Dublino e Schengen (sigillando, ancora una volta a capa sua, frontiere interne ed esterne). 
 
D'altro canto, una Bce caduta di nuovo in mani francesi, con una sciocca ed incompetente cortigiana passata più da esclusivi boudoirs che da esperienze professionali di spessore ha, di fatto, nella percezione dei mercati, al di là delle imbarazzanti veline di stampa di rettifica, cancellato la gestione Draghi e bloccato l’unica misura ragionevole per una devastazione economica di così grande portata: trasformare la Bce in prestatore di ultima istanza che assorbe le quote delle aste di titoli pubblici invendute, sostenendo i rendimenti e cancellando strutturalmente gli spread. Si tratta, anche in questo caso, di una posizione ideologica, legata al liberismo macroniano, ma che di fatto rende impotente la politica moentaria, chiusa in una trappola della liquidità, quindi incapace di riattivare l’economia tramite un tasso di interesse oramai negativo. 
 
Oramai tutto questo apparato tecnico-amministrativo e monetario, che è la Ue, è un cadavere che cammina. Ma qui si annida il più grande pericolo per un Paese come il nostro: la nostra classe dirigente, ha legato le sue sorti e la sua ragion d’essere ad un europeismo fanatico, più realista del re. Lo ha fatto anche per motivi di buona fede, per così dire, nella convinzione che un Paese individualista e senza regole potesse migliorare con una governance slegata dai tradizionali meccanismi consociativi e clientelari della Prima Repubblica. Ma di fatto adesso non può smentire tale articolo di fede, senza delegittimarsi. E quindi perdere il potere ed i privilegi di cui ancora gode. Conte, e forse Draghi dopo di lui sono, di fatto, le ultime bandierine cui si aggrappa questa classe dirigente screditata e senza coraggio, oramai non più in grado di avere la credibilità per proporsi al Paese. 
 
Questa classe dirigente difenderà il posizionamento europeista del Paese a tutti i costi, negando anche l’evidenza e sarà disponibile a portare il Paese ad un inevitabile default, pur di non sganciarsi da regole europee alle quali sarà l’ultima a rimanere fedele. Perché è del tutto ovvio che andiamo verso un default: una economia senza prospettive strutturali di crescita, già stagnante prima del coronavirus, ha oramai i suoi motori completamente spenti, posizionamenti nelle filiere industriali globali compromessi dal lungo stopo cui il governo l’ha sottoposta, a differenza di altri Paesi europei che stanno proteggendo maggiormente l’economia, ed un Paese vecchio, stanco e diviso in tifoserie, che non ha mai veramente concluso la guerra civile fra fascisti ed antifascisti di 75 anni fa. 
 
La recessione da coronavirus, associata a livelli altisismi di debito pubblico, produrrà una isteresi del debito, endogeno al ciclo, a fronte della quale la Bce non verrà in soccorso con i predetti strumenti straordinari menzionati prima. Alla fine, si arriverà a quella condizione di “fiscal fatigue” nella quale gli avanzi primari necessari per contrastare l’isteresi del debito e lo snowball del suo servizio diventano insostenibili socialmente e i mercati non rinnoveranno più le quote di debito pubblico in scadenza, per effetto di un rollover risk troppo alto. Sarà la classica situazione sudamericana di default, con il debito pubblico che uscirà dal mercato e il Paese aggrappato all’assistenza finanziaria estera (cioè al cadavere dell'Unione Europea, che esisterà ancora solo formalmente, opportunamente imbalsamato per recitare gli ultimi atti della commedia), che richiederà, in primis, di bruciare il risparmio privato a copertura dei prestiti concessi (quindi perderemo le case, i risparmi bancari e quant’altro). 
 
Evidentemente, se la Germania vorrà ancora essere una micro-potenza regionale, dovrà stringere i bulloni dell'euro ordoliberista con i pochi Paesi ancora in grado di seguirla: l'area del Beneluxl dell'Europa centrale e del Baltico. Economie fallite come quella italiana e quella greca (probabilmente anche quella spagnola e, io credo, anche la Francia, seppur in un lasso di tempo più lungo) dovranno essere accompagnate gradualmente fuori dall'euro, con accordi valutari che impediscano loro di svalutare (come il vecchio Sme).
 
Solo a quel punto, con il Paese in ginocchio e la scommessa europea persa, questa classe dirigente, oramai inutile anche ai suoi referenti stranieri, sarà rimossa, lasciando, forse, spazio a forme di peronismo di sinistra all’argentina. Cosa occorrerebbe fare, a mio parere? Considerando che non si ha laforza per impedire la catastrofe, occorrerebbe prepararsi al dopo. Iniziando a costruirlo, questo populismo di sinistra. Sapendo che, nelle fasi in cui l’orizzonte politico è allo zero ed il campo è ingombro di macerie, non si può costruire il Partito, occorre ricominciare ad occupare spazi semantici lasciti vuoti dalla narrazione dominante (e fallita) ed a ricostituire elementi primari di collegamento fra massa e leadership, cioè ricostruire un populismo che sia la fase zero di un Paese distrutto da rimettere in piedi. Senza nessuno degli attori attuali, né di destra né di sinistra, che sono del tutto inadeguati e sputtanati. Ricominciando dall’inizio, con le pochissime forze ancora fresche a disposizione di un Paese anziano e distrutto. Un compito ciclopico, ma non evitabile.

domenica 1 marzo 2020

Bernie Sanders: fenomenologia di un socialista di successo ma non egemone




Contrariamente all'immagine, sapientemente curata dall'interessato, di polveroso veterosocialista d'antan, Bernard Sanders, detto Bernie, è un politico solido e ben piantato nella realtà della società statunitense e dei meccanismi, anche quelli poco nobili, della sua democrazia. Politico di lunghissimo corso, nato da una famiglia piccolo borghese di ebrei polacchi, si è formato sul Talmud, sui libri di Marx e sulla Teoria Generale di Keynes tanto quanto sui principi collettivistici, solidali e nazionalistici del sionismo di ispirazione socialista, avendo vissuto, da giovane, in un kibbutz. E' a tutti gli effetti l'erede ideale di quel populismo socialista americano che, a fine Ottocento, con Eugene Debs e Victor Berger, cercò invano di introdurre il socialismo nel sistema politico di quel Paese, con le uniche modalità possibili, stante l'organizzazione politica degli Stati Uniti, ovvero con un populismo fortemente personalistico e leaderistico, con la forza trascinante dell'uomo al comando.

Al tempo stesso, sia pur in modo non brillante per sua stessa ammissione, si laurea in Scienze Politiche in un luogo molto particolare, ovvero l'Università di Chicago. Una delle più rilevanti istituzioni accademiche del Paese, ed anche una delle più controverse, avendo dato nascita alla Scuola di Chicago di Milton Friedman, ovvero alla interpretazione monetaristica della scuola neoclassica, al servizio di politiche economiche di destra radicale, quanto alla Scuola di Chicago di sociologia e criminologia, una delle più importanti, la cui matrice teorica di fondo si basa sull'analisi dei rapporti e dei valori intracomunitari, dell'incidenza dei fenomeni di devianza come prodotto di frammentazione subculturale e disorganizzazione dei legami interni alle comunità e che ha dato nascita ai primi filoni di analisi della criminalità dei colletti bianchi e delle multinazionali.

Questa formazione così vasta e diversificata ne fa un uomo ben più sfaccettato e complesso dell'immagine pubblica di socialista dogmatico che gli si vuole appiccicare. Dopo anni di lavoretti e di militanza politica attiva, dopo aver vissuto il '68 ed il movimento pacifista dei primi anni settanta, il nostro Bernie si lancia nelle istituzioni.

Un giovane Bernie arrestato durante una manifestazione contro il Vietnam


Dopo una serie di tentativi falliti di farsi eleggere governatore del Vermont e senatore, nel 1981, a quarant'anni, con la sua proverbiale testardaggine, riesce a farsi eleggere sindaco di Burlington, poco più che un paesone perso nel verde del Vermont, una location ideale per qualche romanzo horror di Stephen King sul lato sinistro della provincia americana o per qualche canzone di Springsteen sul declino industriale. Vince la sua battaglia grazie all'opposizione ad un grande progetto immobiliare e speculativo, e lo riconverte in un progetto di tipo sociale, ovvero un community land trust, un fondo immobiliare comunitario che acquista terreni ed immobili e, per conto dei suoi soci, li destina ad un uso abitativo a prezzi sostenibili, una specie di cooperativa per alloggi popolari, in sostanza. Ma una cooperativa coordinata da un ente nazionale, l'Institute for Community Economics, che è una potenza economica di livello nazionale e non solo, poiché possiede terreni anche in Israele, proprio i terreni sui quali sorgono i kibbutz. Sempre da sindaco, riesce a creare il CEDO, una vera e propria agenzia pubblica di pianificazione dello sviluppo locale, che promuove la pubblicizzazione di imprese di servizi essenziali (l'azienda elettrica locale è tuttora di proprietà pubblica) ed esperienze di autogestione operaia di imprese in crisi. Roba che da noi fa parte di un normale esperimento socialdemocratico e che negli USA rasenta lo stalinismo.

Sindaco di Burlington

Ma chi pensa che Bernie sia un sognatore utopista sbaglia di grosso. Pommereau, l'uomo di affari contro il cui progetto di speculazione immobiliare Sanders vinse le elezioni da sindaco, è oggi un suo grande amico. Bernie ha saputo coinvolgerlo profittevolmente nello sviluppo economico della città. Oggi Burlington non è più soltanto una piccola città operaia di working class, ma un fulcro di benessere e di turismo di élite. Parlando di lui, Obama lo definisce scherzosamente un “post smoking socialist”. E' amico della potente lobby dei produttori di armi da fuoco. Nel 1993, da deputato, votò contro lo “Brady Handgun Violence Prevention Act”, un disegno di legge che introduceva vincoli alla vendita ai privati delle armi da fuoco. L'anno dopo sostenne l'approvazione dello “Violent Crime Control and Law Enforcement Act”, una legge molto securitaria e con tratti repressivi. Nel 2005, votò a favore del Protection of Lawful Commerce in Arms Act, un provvedimento che tutelava i produttori e i rivenditori di armi da fuoco da eventuali conseguenze legali nel caso in cui qualcuno si fosse servito dei loro prodotti per commettere azioni illecite. Oggi, impegnato in una campagna elettorale presidenziale, cerca subito di ingraziarsi i favori del Deep State, da lui tanto combattuto da attivista, denunciando presunte (e improbabili) interferenze russe. Lasciando capire che la sua eventuale politica estera da Presidente non sarebbe, poi, così rivoluzionaria.

Una goccia di socialismo negli USA: vista di Burlington

Durante la campagna presidenziale del 2016, fra i suoi grandi finanziatori, oltre a lavoratori, sindacati e cooperative, comparivano Microsoft, Apple, Google e Amazon, non propriamente campioni di socialismo e tutela dei lavoratori. Più in generale, le aziende dell'economia digitale, come anche Ibm e la stessa Facebook, vedono in Sanders un utile difensore dei processi sociali, spesso anche di tipo libertario, che sottendono la nascita e lo sviluppo della new economy.

Nonostante i proclami di “grassroot campaign”, autofinanziata dalla gente comune, e nonostante che nel suo programma vi sia la proposta di finanziamento pubblico dei candidati, per superare le lobby, in un sistema elettorale costoso e oligarchico come quello statunitense Bernie non può fare a meno dei contributi di soggetti ben precisi. Benchè si sbandieri con orgoglio il milione di semplici cittadini che, donando 20-27 dollari a testa, hanno consentito di portare a 25 milioni il budget elettorale dell'attuale campagna presidenziale, il che è effettivamente una rivoluzione benefica nel sistema politico piramidale di quel Paese, l'endorsement di istituzioni finanziarie, per quanto “etiche”, come Aspiration, fondo di investimenti californiano di natura etica. Dovrebbe anche far riflettere l'endorsement individuale di Jeffrey Sachs, l'economista responsabile della devastante terapia shock nei paesi ex comunisti dell'Europa dell'Est, che li ha saccheggiati attraverso una transizione brusca verso l'economia di mercato più selvaggia. Il teorico della “trappola della povertà” del Terzo Mondo, che ne invoca i venture capitalist come investitori e le start-up come soluzioni ai problemi.

Insomma, il nostro eroe sa essere ben pragmatico quando serve, e non può essere altrimenti, per uno che riesce a sopravvivere nel sistema politico iper-competitivo statunitense da ben 40 anni. La domanda di fondo, però, è la seguente: può Bernie, con il suo programma elettorale radicale ed il suo realismo politico, essere la strada di rilancio di un socialismo democratico in grado di dare risposte alle tematiche sociali di questi anni e rappresentare una alternativa ai populismi di destra che hanno, di fatto, attratto enormi spezzoni della base sociale tradizionale della sinistra storica? La domanda è la stessa che si porrebbe per Corbyn, ed a mio avviso la risposta è la stessa ottenuta con Corbyn, ed è negativa. Forse, ma personalmente non credo, Bernie riuscirà anche a strappare la nomination democratica, e sarebbe, ovviamente, un risultato di enorme valore, come lo è stato il risultato delle elezioni britanniche del 2017 per il Labour, il migliore degli ultimi vent'anni. Poi, però, Corbyn ha perso, e nel 2019 il Labour è tornato poco sopra i risultati degli ultimi anni di Blair. E, nel caso, anche Bernie sarà asfaltato da Trump.


E' un problema in parte strutturale ed in parte di piattaforma ideologica e programmatica. Il conflitto sociale, in parte, è ruotato verso un conflitto interno al capitale, dove un mondo del lavoro disperso e frazionato non riesce più ad esercitare egemonia e finisce ad avere un ruolo ausiliario (i lavoratori della Rust Belt che votano per Trump contro la globalizzazione, il ceto medio ed i lavoratori della New Economy in crescita di utili e salari – a differenza della new economy nostrana - che votano per Sanders) per cui i riferimenti sociali della sinistra dovrebbero incorporare in un fronte unico anche la piccola borghesia in declino, ma, soprattutto in Europa, faticano a realizzare (Sanders su questo aspetto è, invece, molto più sveglio ed abile).

In parte, si rimane intrappolati dentro gabbie ideologiche del passato, estremamente dannose. Sanders, come Corbyn, non riesce a liberarsi dei cascami dell'internazionalismo proletario della vecchia sinistra. Come Corbyn non è riuscito a dire una parola univoca sulla Brexit, alienandosi i voti dei ceti popolari pro-uscita, Sanders parla di frontiere aperte ed accoglienza dei rifugiati climatici. Ora, non vi è dubbio che, riuscendo a garantire benessere, eguaglianza e crescita sociale, il tema dell'immigrazione perde rilevanza (chi si lamentava, da noi, dei tanti filippini che iniziavano ad affollare le nostre città nei primi anni novanta, quando c'era ancora tanto benessere e tanto welfare per tutti?) La ricetta di Corbyn e Sanders è quella di tornare a creare ricchezza, benessere e giustizia sociale, in modo da annegare la rilevanza del tema migratorio e, più in generale, degli effetti perversi della globalizzazione. Il problema è questo: fintanto che continueranno ad arrivare liberamente grandi contingenti di migranti che accettano salari da fame, costituendo esercito industriale di riserva, fintanto che le frontiere sono completamente aperte, impedendo di proteggere l'industria nazionale di sostituzione delle importazioni e di garantire una transizione graduale dalla vecchia economia industriale alla nuova, basata su green, digitale, cibernetica, biotech e quindi nuove forme di lavoro diverse dal proletariato industriale storico, chi è minimamente sospettato di supportare un “open world” è inevitabilmente visto come una minaccia dai ceti più fragili.

Parlare, come fa Bernie, di un futuro economico basato su digitalizzazione, investimenti green, banda larga e democrazia di Internet, dove l'hardware industriale oramai non più competitivo verrà spostato verso il Terzo Mondo e noi occidentali rimarremo ricchi grazie all'economia immateriale preconizzata da Rifkin ed allo sviluppo sostenibile, senza una chiara parola contro la globalizzazione e per il ripristino delle frontiere (anche se qualche timido balbettamento c'è, laddove si promette una revisione degli accordi commerciali internazionali per contrastare l'outsourcing di lavoro statunitense verso altri Paesi, ma come aspetto quasi secondario del programma elettorale) impedisce alla sinistra di essere egemone. Perché il patto “più benessere e giustizia sociale – più apertura delle frontiere all'immigrazione ed alle inevitabili delocalizzazioni dei settori obsoleti” non funziona in una fase di transizione economica in cui milioni di posti di lavoro sono a rischio ed i salari tendono a diventare variabile indipendente (ma in negativo) crescendo troppo lentamente ed in modo diseguale persino in un paese che ha quasi raggiunto la disoccupazione meramente frizionale come gli USA. Alla fine la legittima paura dei ceti popolari prevale sulla promessa di un futuro dove saremo tutti più benestanti e potremo permetterci di assorbire l'immigrazione di massa e di rimanere ricchi in un mondo globalizzato. Ed è anche giusto che sia così. 

La sinistra ha bisogno di svegliarsi a suon di legnate nel groppone, e finora ne ha ancora prese poche. Mazz' e panell' fann' li figl' bell'.