domenica 1 marzo 2020

Bernie Sanders: fenomenologia di un socialista di successo ma non egemone




Contrariamente all'immagine, sapientemente curata dall'interessato, di polveroso veterosocialista d'antan, Bernard Sanders, detto Bernie, è un politico solido e ben piantato nella realtà della società statunitense e dei meccanismi, anche quelli poco nobili, della sua democrazia. Politico di lunghissimo corso, nato da una famiglia piccolo borghese di ebrei polacchi, si è formato sul Talmud, sui libri di Marx e sulla Teoria Generale di Keynes tanto quanto sui principi collettivistici, solidali e nazionalistici del sionismo di ispirazione socialista, avendo vissuto, da giovane, in un kibbutz. E' a tutti gli effetti l'erede ideale di quel populismo socialista americano che, a fine Ottocento, con Eugene Debs e Victor Berger, cercò invano di introdurre il socialismo nel sistema politico di quel Paese, con le uniche modalità possibili, stante l'organizzazione politica degli Stati Uniti, ovvero con un populismo fortemente personalistico e leaderistico, con la forza trascinante dell'uomo al comando.

Al tempo stesso, sia pur in modo non brillante per sua stessa ammissione, si laurea in Scienze Politiche in un luogo molto particolare, ovvero l'Università di Chicago. Una delle più rilevanti istituzioni accademiche del Paese, ed anche una delle più controverse, avendo dato nascita alla Scuola di Chicago di Milton Friedman, ovvero alla interpretazione monetaristica della scuola neoclassica, al servizio di politiche economiche di destra radicale, quanto alla Scuola di Chicago di sociologia e criminologia, una delle più importanti, la cui matrice teorica di fondo si basa sull'analisi dei rapporti e dei valori intracomunitari, dell'incidenza dei fenomeni di devianza come prodotto di frammentazione subculturale e disorganizzazione dei legami interni alle comunità e che ha dato nascita ai primi filoni di analisi della criminalità dei colletti bianchi e delle multinazionali.

Questa formazione così vasta e diversificata ne fa un uomo ben più sfaccettato e complesso dell'immagine pubblica di socialista dogmatico che gli si vuole appiccicare. Dopo anni di lavoretti e di militanza politica attiva, dopo aver vissuto il '68 ed il movimento pacifista dei primi anni settanta, il nostro Bernie si lancia nelle istituzioni.

Un giovane Bernie arrestato durante una manifestazione contro il Vietnam


Dopo una serie di tentativi falliti di farsi eleggere governatore del Vermont e senatore, nel 1981, a quarant'anni, con la sua proverbiale testardaggine, riesce a farsi eleggere sindaco di Burlington, poco più che un paesone perso nel verde del Vermont, una location ideale per qualche romanzo horror di Stephen King sul lato sinistro della provincia americana o per qualche canzone di Springsteen sul declino industriale. Vince la sua battaglia grazie all'opposizione ad un grande progetto immobiliare e speculativo, e lo riconverte in un progetto di tipo sociale, ovvero un community land trust, un fondo immobiliare comunitario che acquista terreni ed immobili e, per conto dei suoi soci, li destina ad un uso abitativo a prezzi sostenibili, una specie di cooperativa per alloggi popolari, in sostanza. Ma una cooperativa coordinata da un ente nazionale, l'Institute for Community Economics, che è una potenza economica di livello nazionale e non solo, poiché possiede terreni anche in Israele, proprio i terreni sui quali sorgono i kibbutz. Sempre da sindaco, riesce a creare il CEDO, una vera e propria agenzia pubblica di pianificazione dello sviluppo locale, che promuove la pubblicizzazione di imprese di servizi essenziali (l'azienda elettrica locale è tuttora di proprietà pubblica) ed esperienze di autogestione operaia di imprese in crisi. Roba che da noi fa parte di un normale esperimento socialdemocratico e che negli USA rasenta lo stalinismo.

Sindaco di Burlington

Ma chi pensa che Bernie sia un sognatore utopista sbaglia di grosso. Pommereau, l'uomo di affari contro il cui progetto di speculazione immobiliare Sanders vinse le elezioni da sindaco, è oggi un suo grande amico. Bernie ha saputo coinvolgerlo profittevolmente nello sviluppo economico della città. Oggi Burlington non è più soltanto una piccola città operaia di working class, ma un fulcro di benessere e di turismo di élite. Parlando di lui, Obama lo definisce scherzosamente un “post smoking socialist”. E' amico della potente lobby dei produttori di armi da fuoco. Nel 1993, da deputato, votò contro lo “Brady Handgun Violence Prevention Act”, un disegno di legge che introduceva vincoli alla vendita ai privati delle armi da fuoco. L'anno dopo sostenne l'approvazione dello “Violent Crime Control and Law Enforcement Act”, una legge molto securitaria e con tratti repressivi. Nel 2005, votò a favore del Protection of Lawful Commerce in Arms Act, un provvedimento che tutelava i produttori e i rivenditori di armi da fuoco da eventuali conseguenze legali nel caso in cui qualcuno si fosse servito dei loro prodotti per commettere azioni illecite. Oggi, impegnato in una campagna elettorale presidenziale, cerca subito di ingraziarsi i favori del Deep State, da lui tanto combattuto da attivista, denunciando presunte (e improbabili) interferenze russe. Lasciando capire che la sua eventuale politica estera da Presidente non sarebbe, poi, così rivoluzionaria.

Una goccia di socialismo negli USA: vista di Burlington

Durante la campagna presidenziale del 2016, fra i suoi grandi finanziatori, oltre a lavoratori, sindacati e cooperative, comparivano Microsoft, Apple, Google e Amazon, non propriamente campioni di socialismo e tutela dei lavoratori. Più in generale, le aziende dell'economia digitale, come anche Ibm e la stessa Facebook, vedono in Sanders un utile difensore dei processi sociali, spesso anche di tipo libertario, che sottendono la nascita e lo sviluppo della new economy.

Nonostante i proclami di “grassroot campaign”, autofinanziata dalla gente comune, e nonostante che nel suo programma vi sia la proposta di finanziamento pubblico dei candidati, per superare le lobby, in un sistema elettorale costoso e oligarchico come quello statunitense Bernie non può fare a meno dei contributi di soggetti ben precisi. Benchè si sbandieri con orgoglio il milione di semplici cittadini che, donando 20-27 dollari a testa, hanno consentito di portare a 25 milioni il budget elettorale dell'attuale campagna presidenziale, il che è effettivamente una rivoluzione benefica nel sistema politico piramidale di quel Paese, l'endorsement di istituzioni finanziarie, per quanto “etiche”, come Aspiration, fondo di investimenti californiano di natura etica. Dovrebbe anche far riflettere l'endorsement individuale di Jeffrey Sachs, l'economista responsabile della devastante terapia shock nei paesi ex comunisti dell'Europa dell'Est, che li ha saccheggiati attraverso una transizione brusca verso l'economia di mercato più selvaggia. Il teorico della “trappola della povertà” del Terzo Mondo, che ne invoca i venture capitalist come investitori e le start-up come soluzioni ai problemi.

Insomma, il nostro eroe sa essere ben pragmatico quando serve, e non può essere altrimenti, per uno che riesce a sopravvivere nel sistema politico iper-competitivo statunitense da ben 40 anni. La domanda di fondo, però, è la seguente: può Bernie, con il suo programma elettorale radicale ed il suo realismo politico, essere la strada di rilancio di un socialismo democratico in grado di dare risposte alle tematiche sociali di questi anni e rappresentare una alternativa ai populismi di destra che hanno, di fatto, attratto enormi spezzoni della base sociale tradizionale della sinistra storica? La domanda è la stessa che si porrebbe per Corbyn, ed a mio avviso la risposta è la stessa ottenuta con Corbyn, ed è negativa. Forse, ma personalmente non credo, Bernie riuscirà anche a strappare la nomination democratica, e sarebbe, ovviamente, un risultato di enorme valore, come lo è stato il risultato delle elezioni britanniche del 2017 per il Labour, il migliore degli ultimi vent'anni. Poi, però, Corbyn ha perso, e nel 2019 il Labour è tornato poco sopra i risultati degli ultimi anni di Blair. E, nel caso, anche Bernie sarà asfaltato da Trump.


E' un problema in parte strutturale ed in parte di piattaforma ideologica e programmatica. Il conflitto sociale, in parte, è ruotato verso un conflitto interno al capitale, dove un mondo del lavoro disperso e frazionato non riesce più ad esercitare egemonia e finisce ad avere un ruolo ausiliario (i lavoratori della Rust Belt che votano per Trump contro la globalizzazione, il ceto medio ed i lavoratori della New Economy in crescita di utili e salari – a differenza della new economy nostrana - che votano per Sanders) per cui i riferimenti sociali della sinistra dovrebbero incorporare in un fronte unico anche la piccola borghesia in declino, ma, soprattutto in Europa, faticano a realizzare (Sanders su questo aspetto è, invece, molto più sveglio ed abile).

In parte, si rimane intrappolati dentro gabbie ideologiche del passato, estremamente dannose. Sanders, come Corbyn, non riesce a liberarsi dei cascami dell'internazionalismo proletario della vecchia sinistra. Come Corbyn non è riuscito a dire una parola univoca sulla Brexit, alienandosi i voti dei ceti popolari pro-uscita, Sanders parla di frontiere aperte ed accoglienza dei rifugiati climatici. Ora, non vi è dubbio che, riuscendo a garantire benessere, eguaglianza e crescita sociale, il tema dell'immigrazione perde rilevanza (chi si lamentava, da noi, dei tanti filippini che iniziavano ad affollare le nostre città nei primi anni novanta, quando c'era ancora tanto benessere e tanto welfare per tutti?) La ricetta di Corbyn e Sanders è quella di tornare a creare ricchezza, benessere e giustizia sociale, in modo da annegare la rilevanza del tema migratorio e, più in generale, degli effetti perversi della globalizzazione. Il problema è questo: fintanto che continueranno ad arrivare liberamente grandi contingenti di migranti che accettano salari da fame, costituendo esercito industriale di riserva, fintanto che le frontiere sono completamente aperte, impedendo di proteggere l'industria nazionale di sostituzione delle importazioni e di garantire una transizione graduale dalla vecchia economia industriale alla nuova, basata su green, digitale, cibernetica, biotech e quindi nuove forme di lavoro diverse dal proletariato industriale storico, chi è minimamente sospettato di supportare un “open world” è inevitabilmente visto come una minaccia dai ceti più fragili.

Parlare, come fa Bernie, di un futuro economico basato su digitalizzazione, investimenti green, banda larga e democrazia di Internet, dove l'hardware industriale oramai non più competitivo verrà spostato verso il Terzo Mondo e noi occidentali rimarremo ricchi grazie all'economia immateriale preconizzata da Rifkin ed allo sviluppo sostenibile, senza una chiara parola contro la globalizzazione e per il ripristino delle frontiere (anche se qualche timido balbettamento c'è, laddove si promette una revisione degli accordi commerciali internazionali per contrastare l'outsourcing di lavoro statunitense verso altri Paesi, ma come aspetto quasi secondario del programma elettorale) impedisce alla sinistra di essere egemone. Perché il patto “più benessere e giustizia sociale – più apertura delle frontiere all'immigrazione ed alle inevitabili delocalizzazioni dei settori obsoleti” non funziona in una fase di transizione economica in cui milioni di posti di lavoro sono a rischio ed i salari tendono a diventare variabile indipendente (ma in negativo) crescendo troppo lentamente ed in modo diseguale persino in un paese che ha quasi raggiunto la disoccupazione meramente frizionale come gli USA. Alla fine la legittima paura dei ceti popolari prevale sulla promessa di un futuro dove saremo tutti più benestanti e potremo permetterci di assorbire l'immigrazione di massa e di rimanere ricchi in un mondo globalizzato. Ed è anche giusto che sia così. 

La sinistra ha bisogno di svegliarsi a suon di legnate nel groppone, e finora ne ha ancora prese poche. Mazz' e panell' fann' li figl' bell'.

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