lunedì 30 marzo 2020

Heimat, ecologismo tedesco e regressione della storia



Rifkin annuncia che la globalizzazione è stata terminata dal coronavirus, distrutta dalla necessità di creare distanze e chiudere frontiere. Ed è interessante l'utopia che predica per il post-globalismo, ovvero quella delle bioregioni, un derivato delle sue concezioni sui sistemi territoriali energeticamente autonomi ed in rete, danti luogo a forme di potere “laterali” e on più gerarchiche, presentate nel libro Terza Rivoluzione Industriale” del 2011, perché rappresenta quella dei verdi tedeschi, il modello dell’Heimat (parola tedesca che può vagamente tradursi come Patria, nel senso affettivo del senso di radicamento su un territorio): un mondo senza Stati nazionali, organizzato in macro-regioni ecologiche, trasversali agli attuali Stati su confini naturali ed etno-culturali, in rete tra loro in una forma confederale molto lasca, in cui lo sviluppo economico e sociale vengono regolati tramite meccanismi di pianificazione partecipata (i principi del Parecon) in forme di democrazia diretta ed assembleare. I servizi e le politiche indivisibili (come la difesa, la moneta, la politica estera, la gestione delle catastrofi o delle epidemie, come ahimé vediamo in questi giorni) verrebbero garantite dalla “rete”, ovvero dall’aggregazione, sempre in forma libera e democratica, di diverse Heimat coinvolte.
La visione del modello dell’Heimat è intrisa di idealismo e romanticismo. Affonda le radici nella filosofia e nel romanticismo da Sturm und Drang tedesco del XIX secolo. Ha valenze diverse, che rinviano ad una idea di “terra madre” di provenienza e che era la base del rabbioso rimpianto della terra abbandonata dalle tribù germaniche migranti verso il Sud dell’Europa. E’ un concetto politico, in quanto rappresenta una delle due basi, antagoniste l’una con l’altra, del nazionalismo tedesco (l’altra è il concetto di Vaterland, caro al nazismo, che richiama ad una unità pangermanica, piuttosto che ad un regionalismo etnico) filosofico, letterario e, per l’appunto, ambientalista.
Secondo Peter Blickle, Heimat è una “concezione spaziale dell’identità”. Radica così forte il concetto di identità che il suo contrario è “entfremdung”, ovvero alienazione. L’alienato è colui che non può riferire la sua identità ad una terra, è quindi uno “sradicato” nel senso letterale del termine. Questo legame costituente con la terra diventa legame con la natura. l’idea di heimat è anche dietro la costituzione delle prima Comunità montane tedesche a fine ottocento, intese non come enti amministrativi di gestione, quanto come aree naturali protette di tipo montano. L’Heimat diventa una forma tutta tedesca di rifiuto della modernità con il suo carico di sradicamento ed alienazione, l’urbanizzazione forzata, il lavoro industriale che distrugge le relazioni umane genuine e deturpa l’ambiente in cui ci si culla, una sorta di Patria idealizzata, del pensiero e del sentimento, fatta di relazioni umane genuine, armonia con l’ambiente, pace ed accoglienza, da contrapporre ai vizi ed ai pericoli del progresso.
Questa forma di campanilismo germanico ha, nella sua forma deteriore, dato vita anche alle peggiori manifestazioni sociali: una piccola borghesia di paese e piccola città di provincia stolida, ignorante, passiva e culturalmente intorpidita, rapidamente acquisita dal nazismo come base del suo consenso ed una nobiltà terriera di Junckers politicamente reazionaria. Questa idea romantica di “spazio dell’identità” si è, alla lunga, dimostrata incapace di resistere alla sfida della modernità: laddove è necessario gestire reti relazionali lunghe e complesse, laddove i problemi geopolitici diventano troppo ampi e globali, laddove l’evoluzione stessa delle piattaforme tecnologiche, richiedono livelli di integrazione multiregionali, l’Heimat va in crisi. La Vaterland nazista, che di fatto mette a sistema idee pangermaniste esistenti sin dai tempi di Bismarck, distrugge il concetto di Heimat in nome di una idea di potenza etnica di un popolo presunto superiore, rafforzando lo Stato centrale ma, e questo è significativo, recupera il concetto di Heimat nel suo armamentario ideologico razzista. Gli ebrei diventano, così, quelli che non hanno un heimat. Ed in fondo, questa idea ha attraversato la storia tedesca, ed ancora oggi ne modella le sue forme istituzionali, dal federalismo al municipalismo.
Il contenuto reazionario del concetto di Heimat è talmente forte che se ne è appropriata dal Nouvelle Droite di de Benoist, così come il federalismo con tratti destrorsi di Miglio, Acquaviva e della Lega e ha assunto tratti escludenti, aggressivi ed etnocentrici nel senso deteriore del termine. I Grunen tedeschi cercano di recuperare la fascinazione della “piccola Patria” parlando di reintrodurre “l’incanto in un mondo senza più incanto”, sempre secondo Blickle. Questo modello di “bioregioni”, cui allude anche Rifkin, è quindi una forma, appena appena idealizzata, di un mondo regressivo, selvaggio, economicamente decrescista, escludente, incapace di gestire le grandi sfide, che in fondo rifiuta in nome del ritorno ad una forma di vita bucolica, nascondendo le differenze di classe dietro una illusione partecipativa ed orizzontalista, che di fatto, in un mondo complesso, non può che perpetuare élites dotate del necessario sapere tecnico ed amministrativo, così come nelle antiche tribù germaniche e slave la conoscenza dell’arte della guerra e della religione perpetuavano élites di nobili guerrieri e di sciamani.
Non è, quindi, difficile capire come mai i Verdi siano così graditi alle vecchie sinistre riformiste vendutesi ai poteri finanziari. Con la loro visione di una “piccola Patria” distruggono le Patrie reali, ovvero gli Stati, e poi, una volta raggiunto lo scopo, come tutti gli utopisti, potranno essere facilmente liquidati dalla semplice constatazione che, se anche lo Stato ha difficoltà a gestire le complessità del presente, la dimensione macroregionale, a maggior ragione, non può farcela.Sarà i lcaso di impedire a questi predicatori del nulla di interpretare quella che verrà dopo la globalizzazione.

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