QUATTRO SOLDI CHE NON BASTANO ALLA RIPRESA. Il punto di discussione
fondamentale su quanto avvenuto nell'Eurogruppo non è negli strumenti (condizionalità, bond europei) quanto,
piuttosto, nella pochezza delle risorse che saranno messe a disposizione
dell'Italia, perché nell’immediato, ovvero nell’emergenza di arginare la
recessione e contenere le perdite produttive ed occupazionali, parliamo, al
massimo, di un pacchetto di soldi che, al netto di quanto l'Italia dovrà
immobilizzare come garanzie per accedere ai vari fondi, vale 35,6 miliardi di
Mes (condizionato all’utilizzo per spese sanitarie, di prevenzione e cura, che
però libererà alcune risorse nazionali attribuite al Ssn per girarle
all’economia) + circa 12 miliardi di prestiti Bei + 850 milioni di fondi SIE da
non rimborsare + qualche centinaio di milioni di fondi Sure. In totale, circa
50 miliardi, forse 60, il 3-4% del Pil. Niente, assolutamente niente rispetto alla gravità
della crisi incombente. Tutto il resto, le cifre pazzesche sparate a livello
giornalistico (200 miliardi di prestiti Bei, 100 miliardi di Sure, un pacchetto
complessivo da 750 miliardi di euro) sono cifre buttate lì, si basano sui
moltiplicatori che, presuntivamente, le risorse appostate come garanzia dagli
Stati membri su ogni strumento dovrebbero attivare, mobilitando soldi del
settore privato. Moltiplicatori evidentemente sballati e sovrastimati, in una
fase di pesantissima crisi economica, dove i privati avranno paura ad investire
e manifesteranno preferenza per la liquidità, anche a fronte di ingenti
garanzie pubbliche interstatali. Sono favole della comunicazione, non veri
soldi disponibili.
E oltretutto questi pochi soldi sono tutti prestiti, che vanno
restituiti,anche se a tasso agevolato e scadenze flessibili rispetto a quanto
il mercato dei titoli di Stato offrirebbe. Poi forse ci sarà anche un Fondo di
solidarietà, non si sa se finanziato con coronabond o altri strumenti
necessariamente di mercato, stanti le ristrettezze del bilancio europeo (anche
qui il dibattito è perlopiù ideologico), ma i tempi di attivazione saranno
lunghi, legati a quel "piano di ricostruzione europea" che, con i
vincoli del bilancio 2021-2027 resi più stretti dalla Brexit, appare più che
altro chimerico e di piccolo cabotaggio, e comunque avente una tempistica di
medio periodo inadeguata a fronteggiare l'impatto immediato e profondo della
crisi.
UNA MERA TRANSIZIONE VERSO IL DEFAULT SOVRANO. Ci ridurremo a strisciare
sulle ginocchia. E probabilmente il programma Pepp della Bce impedirà il
default solo nel brevissimo periodo, perché, anche se contribuirà a moderare la
curva dei rendimenti del debito pubblico, come tutti sanno, la condizione di
sostenibilità, al netto di politiche di aumento dell'avanzo primario
(austerity) che al momento non è possibile fare, è che il tasso di crescita
dell'economia eguagli, se non superi, il tasso di rendimento dei titoli
pubblici. Poiché nei prossimi due o tre anni il tasso di crescita sarà
fortemente negativo, o al massimo stagnante, occorrerebbe avere rendimenti
negativi o nulli sui titoli del debito pubblico, una condizione che solo una
massiccia monetizzazione del debito potrebbe consentire, e che è fuori dallo
Statuto della Bce e da qualsiasi ipotesi politica sul tavolo al momento. E'
questo che, in modo molto goffo mediaticamente, la Lagarde ha cercato di spiegare
con il suo intervento ad inizio crisi: la politica monetaria, limitata alle
opzioni statutarie della Bce, non può sconfiggere lo spread. Semplicemente la
politica monetaria non basta, senza politiche fiscali espansive molto massicce,
che non si sostanzi nei quattro citti che la Ue pensa di mettere a
disposizione. Il Pepp della Bce e i quattro soldi che la Ue mette a
disposizione per il contrasto alla crisi servono solo per ritardare i tempi del
big bang, non ad evitarlo. Quindi credo che, a mero di eventi congiunturali
miracolosi, nel giro di 1 o 2 anni, l'Italia andrà in default. E che questi 1-2
anni di transizione verso il fallimento servano agli investitori esteri a
recuperare quanto possibile dei loro investimenti nel Belpaese, isolandolo per
quanto possibile dai circuiti finanziari globali, al fine di minimizzare
l'impatto internazionale del fallimento del debito sovrano italiano (questo
spiega il consiglio della Kommerzbank ai suoi clienti, di smobilitare gli
investimenti sull'Italia nei prossimi mesi). Questa transizione fa anche comodo
al ceto politico italiano attuale, che pensa di lasciare le conseguenze del
default in mano a chi verrà dopo.
NESSUNA ALTERNATIVA. Anticipo anche chi, legittimamente, dirà “ma di fronte
a questo scenario, allora tanto vale uscire dall’euro”. Purtroppo, non si fanno
operazioni di sganciamento da una disciplina monetaria e valutaria comune
quando si è in condizioni di pre-default. L’esperienza argentina dello
sganciamento dalla ley de convertibilidad nel momento peggiore dell’economia
nazionale lo dimostra. L’aumento del debito pubblico oltre la soglia del 150%
del Pil è un effetto automatico, inevitabile, legato al crollo del gettito
fiscale ed all’aumento degli stabilizzatori automatici. In queste condizioni,
se shiftassimo verso una valuta sovrana, quale investitore internazionale
sarebbe disposto ad investire in bond denominati in una moneta di uno Stato in
fallimento? Voi lo fareste? Quindi nessuno sosterrebbe gli aumenti nelle
emissioni di titoli pubblici in lire, necessari per coprire l’effetto della
crisi. Uscire dalla lira in queste condizioni presupporrebbe di dover fare
interventi di austerità selvaggi, di misura mai sperimentata prima, nel periodo
peggiore, ovvero in piena recessione, per dimostrare ai mercati che c’è la
volontà di rispettare gli impegni, nonostante l’uscita dall’area euro. E’ bene
ricordare, inoltre, che, a differenza del debito pubblico giapponese, in larga
misura detenuto da soggetti interni, il nostro debito pubblico è per circa un
terzo del suo ammontare attestato su creditori esteri. Monetizzare
completamente il debito pubblico ci ridurrebbe a scenari da Weimar o Zimbabwe,
con iperinflazione e moneta totalmente svalutata, con il ritorno al baratto o
al mercato nero delle “valute pregiate”.
Forse l’emissione di una valuta interna meramente limitata agli scambi
commerciali domestici, sia essa sotto forma di moneta fiscale (i CCF) o altra,
unitamente ad una sorta di “mobilizzazione” patriottica del risparmio
nazionale, per convogliarlo verso il sostegno al debito sovrano, potrebbero
attenuare gli effetti del disastro, rendere più facile la ripartenza
successiva, ma non credo che da soli potrebbero evitare il crollo.
E ALLORA? E allora niente. Con i provvedimenti europei attuati o in discussione,
stiamo comprando tempo per postergare il più possibile l’inevitabile resa dei
conti, e per consentire agli altri Stati europei di costruire un minimo di
cordone sanitario per ridurre gli impatti del crack italiano, quando esso
avverrà. Ma non credo che l’area euro senza l’Italia (e, non molto tempo dopo,
possiamo starne sicuri, senza la Spagna, il Portogallo, la Grecia, con qualche
tempo in più anche senza la Francia) possa sopravvivere, cordoni sanitari o
meno. Vengono meno mercati di sbocco, per quanto si cercherà di recuperare
risorse verranno meno investimenti importanti fatti dalla Germania e dalla
Francia, sia di tipo finanziario che industriale, inevitabilmente il sistema
dei pagamenti europeo sarà colpito duramente, perché i circuiti bancari sono
intercorrelati e perché, una volta uscita dall’euro per default, l’Italia si
troverebbe con un saldo passivo rispetto alla Germania nel sistema di pagamento
Target 2. Un saldo che, una volta usciti dall’euro, diverrebbe, da mero ed
innocuo saldo contabile quale è oggi, un debito che la Banca d’Italia avrebbe
nei confronti della Bundesbank e delle altre banche centrali dell’euro (e
parliamo di una bomba di circa 380 miliardi), vengono meno i contributi netti
dell’Italia al bilancio Ue, cioè al sostenimento del pesantissimo apparato
europeo (con il risultato che gli altri paesi dovranno immediatamente sborsare
i circa 2-3 miliardi di contributo netto annuo che versa l’Italia). Ed
ovviamente ci saranno anche contraccolpi politici: una Italia fuori dall’euro
sarebbe meno incentivata a svolgere il ruolo di “campo profughi” per
l’assorbimento di migranti dal Nord Africa e rafforzerebbe enormemente le
posizioni dei partiti sovranisti in tutti i Paesi ancora aderenti all’euro.
COSA VUOL FARE LA GERMANIA DA GRANDE? Germania, Olanda, Austria, i Paesi
baltici, tutto questo lo sanno bene, ed allora la domanda da farsi è la
seguente: si preparano a contenere, per quanto possibile, i danni della fine
dell’area euro, con un mero ponticello di transizione verso una serie di
default, primo di tutti quello italiano, oppure vorranno salvare la costruzione
dell’euro (e sé stessi) rilanciando sul piatto delle politiche di sostegno alle
economie dei Paesi membri più fragili, magari in un secondo momento, non troppo
lontano, diciamo entro i prossimi 5-6 mesi? La differenza passa tra un calcolo
meramente elettoralistico, che stanno facendo la Merkel e Schaeuble, dopo aver
drogato il loro consenso interno con la retorica degli italiani spendaccioni e
inaffidabili, che condurrà la Germania a perdere il proprio ruolo dominante ed
a subire, essa stessa, danni economici pesanti, seppur dilazionati, e un
calcolo imperiale, che consenta alla Germania di mantenere il suo ruolo di
comando, imprescindibilmente legato alla difesa dell’area euro e dei suoi Stati
membri. L’egemonia si esercita con la guerra, e quella economica la Germania
l’ha vinta, e con la generosità nei confronti dei sottoposti, come gli USA che
a fine guerra vararono un piano Marshall anche a favore dei Paesi sconfitti, generosità
che la Germania deve ancora acquisire. E la può acquisire solo consentendo alla
Bce di attivare il bazooka vero, ovvero un piano di acquisto incondizionato sul
mercato primario dei titoli del debito pubblico dei Paesi più fragili, Italia
in primis, usando una moneta di una entità istituzionale che non può fallire,
perché legata ad economie solide finanziariamente. Le tante esternazioni di
questi giorni, dallo Spiegel all’ex cancelliere Schroeder, passando dalla presa
di posizione dei Verdi, partito che comunque rappresenta il 15% dell’elettorato
tedesco, mostrano che una parte rilevante della società tedesca vuole
rispondere alle sfide dei sovranismi con l’affermazione del ruolo imperiale
della Germania, che implica la necessaria
generosità. Chi vivrà vedrà.