Introduzione e contesto
Di tutta l’Africa, il Mali è uno
dei Paesi più interessanti, forse insieme a Sudan ed Angola, per altri motivi,
ed è un Paese-chiave nello scenario globale da almeno 10 anni a questa parte. Tale
Paese è ancora immerso nella guerra civile innescata nel 2012
dall’indipendentismo tuareg, presto inquinata e parzialmente scavalcata da una
ondata islamista radicale, attiva nel nord e nel centro, animata in parte da
Daesh e in parte da altri gruppi salafiti, quali ma’at Nusrat al-Islam
wal-Muslimin (JNIM), Al-Qaeda nel Magreb islamico (AQIM), il potente movimento
Ansar al-Dine (AAD), che oltre ad un connotato religioso ha anche un tratto
etnico, essendo rappresentativo dell’etnia Fulani, e il Macina Liberation Front.
Di fatto, il Mali rappresenta la frontiera meridionale della lotta
dell’Occidente contro il dilagare dell’islamismo radicale in Africa, che, ove
vincente, avrebbe conseguenze geopolitiche catastrofiche, stante l’enorme
numero delle masse africane, oltretutto popoli giovani ed irresistibilmente
attratti dalla migrazione verso i nostri Paesi. In tal senso, peraltro, il
territorio del Mali è area di transito di grandi flussi di migranti provenienti
dall’Africa occidentale. La sua perdita sarebbe catastrofica per l’Europa.
Resosi indipendente senza un
grosso movimento di guerriglia nel 1960, nell’ambito di una decolonizzazione pacifica
pilotata dalla Francia, dopo un breve periodo di socialismo africano ad
economia pianificata e di forti relazioni con l’Urss, interrotto nel 1968 dal
colpo di Stato militare dell’allora tenente Moussa Traoré, il Mali è da allora
stabilmente nella sfera di influenza dell’ex metropoli, ovvero della Francia,
persino da quando, con l’ennesimo colpo di Stato del 1991, è stata introdotta
la democrazia con il multipartitismo. I vari leader “democraticamente eletti”,
al netto di fenomeni endemici di corruzione e truffa elettorale, da Alpha
Konaré (per la verità l’unico un po' più autonomo) fino a Ibrahim Boubacar
Keita, sono stati, a diversi gradi, cloni costruiti in laboratorio dalla Francia
tramite le proprie università e la propria diplomazia. Il controllo francese è
talmente capillare che persino il campionato di calcio e la relativa nazionale
sono in larga parte gestiti da dirigenti ed allenatori della ex metropoli. Il
francese è la lingua ufficiale.
Con il 56% di popolazione che
vive con meno di un dollaro al giorno, è il settantesimo Stato più povero del
mondo. E’ praticamente privo di settore industriale, ad eccezione delle miniere
d’oro, sfruttate da compagnie canadesi, australiane e cinesi con concessioni di
favore pagate corrompendo politici e funzionari locali, e delle fabbriche di tessitura
del cotone della CMDT, di cui il Mali è uno dei principali esportatori
mondiali. La CMDT è in mano allo Stato e da lungo tempo oggetto di famelici
desideri di privatizzazione portati avanti dal FMI, grande creditore del Paese,
cui si oppongono, per primi, i contadini, che riescono a vendere all’impresa
statale a prezzi più alti di quelli che spunterebbero con un privato.
L’impossibilità di privatizzare CMDT ha fatto sì che i dirigenti politici
maliani, fedeli al FMI ed alla Francia, abbiano scientemente fatto fallire
l’impresa, facendole venire meno i fondi pubblici di sussidio, che servivano
per pagare ai contadini prezzi più alti di quelli medi del mercato. Il resto
dell’economia è fatto di agricoltura e di allevamento di sussistenza, con la
produzione e la distribuzione organizzata su base tribale e di un poverissimo
tessuto di microcommercio, servizi alla persona ed artigianato nei centri
urbani. Il turismo, che vive di escursioni nel deserto, della Parigi-Dakar,
della città di Timbouctou e delle suggestive iscrizioni rupestri dei Dogon, è
in completa rovina a causa della guerra.
Il Mali usa il franco CFA, che di
fatto impedisce uno sviluppo economico autonomo tramite la fissazione di un
tasso di cambio fisso con l’euro, garantita dalla Francia, in modo tale da
impedire una svalutazione in grado di favorire le esportazioni, mantenendo di
converso molto alto il prezzo delle importazioni. Con la riforma prevista da
Macron, che dovrebbe sostituire il franco CFA con una nuova moneta comune
all’area (chiamata “eco”) la Banca Centrale comune ai Paesi dell’Africa
occidentale, la CEDEO, non avrà più l’obbligo di versare la metà delle sue
riserve valutarie estere al Tesoro francese, un obbligo che da tempo faceva
strillare al neo-colonialismo, ma in compenso, esattamente come avvenuto con
Maastricht, i Paesi che aderiranno a tale nuove moneta, fra i quali il Mali,
dovranno sottoporsi a pesantissimi programmi di riaggiustamento macroeconomico,
mirati ad azzerare l’inflazione, portare il deficit di bilancio al 4% del PIL,
far crescere il gettito fiscale del 10% ogni anno, dotarsi di riserve di valuta
in grado di coprire almeno tre annualità di importazioni (strangolando il
piccolo commercio di questi Paesi che, fuori dai circuiti ufficiali, vive di
scambi in valuta estera, essenzialmente euro e dollari). La nuova valuta
continuerà inoltre ad essere fissata in modo rigido rispetto all’euro,
continuando così a bloccare le esportazioni e rivalutare le importazioni, ma
creando un meccanismo monetario e macroeconomico stabile in grado di attrarre
capitali esterni, proseguendo nel neocolonialismo per la via degli IDE.
Il mosaico etnico e sociale
Geograficamente ed
antropologicamente, il Mali è diviso in tre macro-regioni: il nord, desertico e
semi-disabitato, popolato da tribù semi-nomadi di Tuareg e da Mauri (e dagli ex
schiavi neri dei Tuareg, affrancati e riuniti nell’etnia Bella) il centro,
appartenente alla fascia del Sahel, coperto da steppa e paludi, abitato
essenzialmente da popolazioni di etnia Fulani e dai misteriosi Dogon, le cui
iscrizioni rupestri e conoscenze astronomiche hanno fatto pensare per un certo
periodo che fossero entrati in contatto con civiltà aliene ed il sud, la zona
più urbanizzata e ricca dal punto di vista agricolo, dominata dalla savana e
dalla foresta, abitata dai Bambara, l’etnia dominante, che rappresenta poco
meno di un terzo della popolazione totale del Paese, strettamente imparentata
con i Mandingo e da altri gruppi etnici minori quali i Bozo, che vivono
essenzialmente di pesca lungo il fiume Niger e sono gravemente minacciati dal
suo inquinamento. I grandi spazi aridi e disabitati, l’assenza di sistemi di
trasporto aventi un minimo di efficienza e la debolezza enorme del tessuto
produttivo e delle istituzioni politiche, persino rispetto agli altri Stati
africani, hanno sinora impedito il
fenomeno di macrocefalismo urbano: la capitale, Bamako, collocata nella fascia
tropicale del Sud, non arriva a 3 milioni di abitanti ed assorbe appena il 13%
della popolazione totale. Tuttavia, sta crescendo a ritmi molto rapidi (circa
il 5% annuo) attraendo popolazioni in fuga dalla guerra civile, e si sta
trasformando nella classica capitale africana sovrappopolata, con crescenti
problemi abitativi, igienico-sanitari (in particolare rispetto all’accesso
all’acqua potabile), ambientali, sociali e di concentrazione di bidonville
miserrime.
Questo Paese così diversificato e
composito sotto il profilo etnico, geografico, tenuto insieme perlopiù da una
singolare unità religiosa (il 95% della popolazione è di fede musulmana
sunnita) derivante dal suo passato imperiale pre-coloniale, non ha sviluppato
istituzioni politiche e sociali solide e radicate, apparendo molto fragile anche
rispetto ai suoi vicini africani. La democrazia molto recente (solo a partire
dal 1991) non ha creato organizzazioni partitiche o sindacali durature. I
partiti politici hanno spesso natura movimentista ed opportunistica, formandosi
su base etnica per specifiche battaglie, per poi dissolversi o fondersi con
altri. L’Islam di tipo sunnita, privo quindi di un clero organizzato
gerarchicamente, e l’assenza di una famiglia dinastica riconosciuta non hanno
consentito alla religione di farsi fattore di agglomerazione, benché singoli
imam possano essere di volta in volta molto popolari e seguiti.
In tale magma, l’Esercito
rappresenta, quindi, l’unica organizzazione sociale minimamente strutturata e
ordinata gerarchicamente, benché anch’essa molto fragile: poco
professionalizzato ed ampiamente sottopagato, spesso composto da una geometria
variabile di bande armate di base etnica che, in base ai diversi accordi
politici o alle congiunture del momento, entrano o escono (disastrosa la scelta
di far entrare nell’esercito, dopo il 2013, bande di ex ribelli tuareg, che
alla ripresa del conflitto hanno disertato o addirittura sabotato le operazioni
militari governative contro il nazionalismo tuareg), gravemente carente di
equipaggiamento (non esistono carri armati, gli ultimi T-54 di fabbricazione
sovietica sono oramai rotti da anni, la forza corazzata è garantita da pochi
carri leggeri sovietici degli anni cinquanta e da autoblindo, l’artiglieria da
pochissimi mortai da campo e lanciarazzi cinesi degli anni sessanta, la difesa
aerea è affidata a tre aerei da attacco al suolo subsonici Embraer Tucano di
costruzione brasiliana e a quattro vecchissimi elicotteri d’assalto Mi-24 di
origine sovietica).
Inoltre, fatto ancora più grave,
la catena di comando è totalmente anarchica: i dittatori o presidenti di turno
favoriscono ora l’una, ora l’altra forza militare (ve ne sono tre: l’Esercito
vero e proprio, la Gendarmeria Nazionale, con compiti di polizia militare ma
anche giudiziaria, analogamente ai nostri carabinieri, e la Guardia Nazionale,
una specie di corpo di pretoriani a difesa del presidente di turno, spesso
avvicendata su base etnica e nepotistica), le singole unità vengono create,
fuse, soppresse o dislocate in modo capriccioso e caotico, le carriere sono
basate su fattori politici ed etnici, la corruzione è dilagante, con il
risultato che le truppe più impegnate in prima linea finiscono spesso per
trovarsi senza stipendio o senza gli incentivi economici promessi per il loro
impiego, finendo per divenire fonti di possibili colpi di Stato da
“frustrazione”. I continui cambiamenti di assetto dei reparti impediscono la
nascita di qualsiasi spirito di corpo, così come il ricambio continuo ai
vertici ostacola la definizione di una dottrina militare coerente.
La maturazione del colpo di
Stato
In questo grandissimo casino, nei
mesi scorsi è venuto maturando un movimento di crescente insofferenza popolare verso
il presidente Ibrahim Boubakar Keita (soprannominato IBK). Questo prodotto del
colonialismo francese, oramai vecchio e malato, incapace di difendere
l’economia nazionale dalle pretese dei programmi di riforma del FMI, dal debito
estero soffocante, dal taglio delle già deboli spese previdenziali ed
assistenziali, ivi compresi i sussidi alimentari, alimentata dalle spese
militari e dall’esigenza di tenere il rapporto deficit/Pil sotto il 4% imposta
dalla partecipazione alla moneta unica africana, si teneva in piedi da anni
grazie, da un lato, a brogli elettorali ed alla diffusa corruzione (la corte
costituzionale, dopo l’esito delle elezioni legislative che davano la
maggioranza agli oppositori di IBK, ha arbitrariamente ridefinito l’esito di un
centinaio di collegi elettorali, in modo da creare una maggioranza artificiosa)
e dall’altro alla pesante cooperazione militare francese e degli altri Paesi
dell’area controllati dalla Francia. Tramite l’operazione Barkhane, la Francia
tiene stabilmente nel Mali oltre 1.000 uomini dei suoi migliori reparti
(paracadutisti, fanteria navale e Legione Straniera) insieme a circa 400 uomini
della Repubblica Ceca, dell’Estonia, della Danimarca e della Gran Bretagna,
appoggiati dall’Aviazione (6 Mirage, 10 aerei da trasporto ed una ventina di
elicotteri d’assalto), con centinaia di blindati pesanti e veicoli da trasporto
corazzati. Inoltre, la missione di peace keeping sotto egida ONU, che agisce in
parallelo e di fatto cooperando con le forze francesi nel garantire protezione
al governo dagli attacchi provenienti da nord, è costituita da quasi 13.000
militari e 1.700 poliziotti.
Nonostante ciò, fra 2019 e 2020
le forze governative del Mali subiscono, per la loro fragilità già sopra
descritta, numerose sconfitte. La linea difensiva più a nord, composta dai tre
forti di Anderamboukane, Indelimane e Labbezanga viene abbandonata, a seguito
di centinaia di perdite dovute agli attacchi jihadisti. Nei primi mesi del
2020, circa 90 militari governativi muoiono a seguito di continui attentati. Al-Qaida
riesce persino a sequestrare Soumaila Cissé, il leader dell’opposizione
parlamentare.
Ad aggravare la situazione,
accanto al conflitto religioso nel nord, a fine 2019 esplode un conflitto
etnico sanguinoso nel centro, fra i Fulani ed i Dogon, supportati dai Bambara. Quasi
400 civili perdono la vita nel 2019, ed altri 600 nei primi sei mesi del 2020, in
stragi comunitarie legate all’accesso all’acqua ed ai terreni di pascolo.
L’insoddisfazione popolare per
ciò che viene avvertito come un crollo verticale dello Stato si fa sentire a
marzo, complice l’ulteriore aggravamento delle condizioni economiche della
popolazione dovuto al coronavirus, le cui cifre sul numero di contagi e di
morti sono del tutto incerte: i principali gruppi di opposizione, civici e
religiosi, formano un movimento unitario, il M5-RFP. L’imam Mahmoud Dicko,
figura molto ascoltata e rispettata nel Paese, importante uomo di mediazione
fra il governo e le forze jihadiste, un tempo alleato di IBK, ne chiede le
dimissioni. Il 10 luglio esplode una manifestazione popolare in tutto il Paese.
Le forze di sicurezza lealiste rispondono, il bilancio è di oltre 11 morti,
centinaia di feriti e di arresti politici. IBK, spalleggiato da Macron, cerca
di resistere offrendo un governo di unità nazionale, le dimissioni del figlio
dalla carica di presidente della Commissione parlamentare sulla Difesa e la
dissoluzione della corte costituzionale responsabile della truffa elettorale
del 2018, ma oramai il dado è tratto.
L’Esercito, infatti, sta covando
troppe frustrazioni. I soldati al fronte sono demoralizzati: gli attacchi
jihadisti li ammazzano come mosche, molti non ricevono l’incentivo economico
specifico per i combattenti. IBK compie l’errore fatale di rimuovere dal ruolo
di comandante della forza di sicurezza presidenziale il tenente colonnello Ibrahim
Traoré, molto rispettato nello Stato maggiore. E’ la goccia che fa traboccare
il vaso. Il 18 agosto un gruppo di ufficiali di livello intermedio attacca Kati,
la principale base militare del Paese, a 15 chilometri dalla capitale, requisisce
armi, veicoli e blindati e da lì muove verso Bamako, senza incontrare alcuna
resistenza, fra ali di folla gioiosa. In un colpo di Stato totalmente incruento
e manifestamente perfettamente organizzato in anticipo, il presidente IBK ed il
Primo Ministro Boubou Cissé, ex economista della Banca Mondiale ed altra
creatura francese e del FMI, vengono arrestati presso le loro residenze private
(con la scusa ufficiale di garantirne la sicurezza), portati alla base militare
di Kati e da lì costretti a dare le dimissioni in diretta televisiva.
Si forma immediatamente una
giunta militare evidentemente anch’essa preparata in largo anticipo, autodenominatasi
“comité de salut populaire”, che assume i pieni poteri. Il ruolo di presidente
viene dato al tenente colonnello Assimi Goita. I colonnelli Camara, Koné e Diaw,
insieme al portavoce, il tenente colonnello Ismail Wagué, vicecomandante
dell’Aeronautica, compongono la Giunta. Nessun comandante militare si dissocia
dal golpe. Il movimento M5-RPF fornisce immediato sostegno all’azione, pur
chiedendo di aprire un processo di dialogo nazionale con i golpisti. Scene di
giubilo attraversano il Paese.
Cosa può succedere
Speculare su cosa succederà a
questo punto è molto difficile. La rottura degli equilibri sanciti dal 2013 con
l’ascesa al potere di IBK è stata quasi immediatamente interpretata come una
intrusione di forze esterne nella governance, ai danni della tradizionale
capacità di controllo da parte della Francia. Indubbiamente, il governo appena
rimosso era fortemente legato alla ex metropoli, così come fa sospettare il
fatto che uno dei componenti della Giunta, il colonnello Camara, il comandante
della base di Kati, sia partito a giugno in Russia per un periodo di
addestramento. Qualche commentatore ha voluto vedere dietro al golpe la manina
della Turchia, che avrebbe interesse ad indebolire la Francia di Macron, schieratasi
contro Erdogan nel Mediterraneo. D’altra
parte, la Francia ha immediatamente stimolato una risoluzione ostile al golpe
da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ed ha essa stessa condannato
l’azione della giunta.
Tuttavia, altre voci, raccolte da
Africa Report, spesso molto affidabile nell’analisi dei fatti africani,
lasciano pensare ad atre possibilità. Queste voci fanno trapelare che
l’eminenza grigia dietro il golpe sia il generale Cheick Dembélé, uomo
fortemente legato alla Francia: formatosi all’Accademia militare francese di
Saint Cyr e poi nell’Accademia militare tedesca di Monaco, è stato direttore di
una scuola di peacekeeping di Bamako finanziata dall’ONU ed ha lavorato con
l’Unione Africana, oltre che svolgere funzioni di carattere
politico-amministrativo (è stato direttore degli acquisti di armamenti del
Ministero della Difesa). Quest’uomo non ha motivi per essere ostile alla
Francia o all’Occidente, benché sia un oppositore di IBK (ha recentemente
sposato la figlia della leader femminile del movimento 5S, la Kidiatou Sow, ex
governatrice del distretto di Bamako, femminista poco incline all’islamismo ed
anch’essa formatasi in Francia).
La stessa Giunta militare appena
formatasi, evidentemente in base ad un piano di preparazione ben studiato e non
frutto di fattori immediati di risentimento antifrancese, sta adottando un
approccio molto cauto e diplomatico: il portavoce ha immediatamente annunciato
che il ruolo della giunta è meramente transitorio, l’obiettivo essendo quello
di tornare alla democrazia in “un tempo ragionevole” (non ha specificato però
quanto) tramite un processo di transizione che sarà gestito da un presidente ad
interim civile e non militare, da identificarsi in modo concertativo tramite
l’apertura di un dialogo con tutte le forze politiche e sociali. Durante l’intervista
concessa, il portavoce (peraltro famoso nel suo Paese per aver sfasciato
completamente l’ultimo Mig 21 ancora volante in un incidente) ha peraltro sottolineato
il ruolo di servizio assunto dalle Forze Armate, in un contesto in cui
l’esautorazione del governo era desiderata dal popolo ed ha auspicato che non
vengano prese misure di sanzione, perché esse colpirebbero il popolo del Mali.
Altro elemento significativo è
che, dopo un colloquio con la nuova giunta militare, l’imam Dicko, quello che si
era impegnato in un equivoco (e poco gradito da Parigi) processo di mediazione
fra governo e jihadisti, ha dichiarato di volersi ritirare dalla politica. Le
dichiarazioni venate di prudente antifrancesismo, cui era solito abbandonarsi
salvo poi correggersi, erano una costante di tale religioso, ed erano
evidentemente poco apprezzate all’Eliseo.
La sensazione di chi scrive è
quella di un golpe pilotato da Parigi, con il quale Macron si è liberato di un
alleato oramai scomodo ed inutile, sgradito alla popolazione ed evidentemente
incapace di tenere le redini del governo, al tempo stesso sbarazzandosi anche di
figure ambigue di cui IBK si era circondato (come per l’appunto Dicko) oppure
di un golpe subito, ma per l’attivazione di forze interne, non esogene, cui
Parigi ha dato un sostanziale lasciapassare per non mettersi contro l’opinione
pubblica maliana (facendo buon viso a cattivo gioco, e sperando che i militari
si allineino all’Eliseo). Vedremo cosa succederà, ma è altamente improbabile
che, in un Paese in cui la forza militare francese tuttora presente ed
operativa può spazzare via i fragili golpisti locali in un secondo, Parigi
abbia veramente lasciato passare un regime change ad esso ostile senza reagire,
se non al mero livello diplomatico. Per il momento le paventate sanzioni
economiche non sono ancora scattate. Ed i golpisti mostrano il loro volto più democratico,
sorridente e dialogante (almeno negli intenti ed in prospettiva), evidentemente
rivolgendosi anche alla comunità internazionale che sentono di non dover
agitare troppo.