Tronti è stato, per certi versi, l’operaista
di maggior caratura intellettuale, insieme a Panzieri ed alle sue intuizioni metodologiche sulla
con-ricerca di classe. Lontano dai deliri di Cacciari, ruppe con l’orientamento
confuso e inconsistente di Negri proprio sul piano del luogo in cui condurre la
lotta politica: non in orizzontale e dal basso, nell’iper-Urano dell’operaio
sociale negriano, cioè sul campo di una presunta autonomia sociale dalla
politica, che andò a sbattere nel ’77, ma in verticale e verso l’alto, con l’idea
dell’autonomia del politico.
L’idea cioè che la politica
condotta nelle istituzioni dello Stato ha un ciclo di durata diversa da quello
del capitale, e può, anzi, condizionare quest’ultimo, rallentandolo o
accelerandolo con la sua opera di mediazione, necessaria per salvare il
capitalismo da sé stesso.
Così la politica sceglierà un
maggiore intervento dello Stato in economia, costruendo sistemi capitalistici
misti, quando una crisi di domanda o un crinale di innovazione tecnologica
radicale minacciano gli assetti produttivi; per altri versi, quando si aprono
nuove opportunità di mercato, la politica accelererà la naturale tendenza
privatizzatrice del capitale, con interventi liberisti. Questi sono solo due
esempi: un altro è insito, ad esempio, nella mediazione politica rispetto alle
regole del mercato del lavoro o alle politiche dei redditi, o rispetto alle
regole di comportamento dei mercati finanziari ed al relativo sistema di
controllo, che in diversi contesti storici rallenta o accelera le tendenze
economiche del capitalismo, prevenendone l’insorgere di contraddizioni che la
sola funzione economica non può risolvere, oppure accelerandone lo sviluppo.
Per il Tronti che negli anni
settanta elabora il concetto di autonomia del politico, il capitalismo è sull’orlo
di produrre un enorme cambiamento di struttura, che sarà guidato da incisive
riforme politiche, ed occorre, quindi, che la classe operaia anticipi queste
riforme prendendo il controllo politico dello Stato, in una logica schmittiana
di amico/nemico. In effetti è così: gli anni ottanta segnano una svolta
profonda del capitalismo, accompagnata da altrettanto profonde innovazioni
politiche: la fine del fordismo, con l’emergere di modelli produttivi non
gerarchici e collaborativi e il frazionamento della fabbrica verticalmente
integrata in lunghe filiere di PMI; l’emergere di un ceto medio indifferenziato
che rivendica uno spazio culturale, economico e di posizionamento produttivo
autonomo, e per molti versi antagonista, a quello tradizionalmente occupato dal
proletariato. Accanto a questo, i grandi cambiamenti politici: il declino della
socialdemocrazia e del marxismo rivoluzionario, l’emergere del liberismo
politico con la sua idea di individualizzazione e privatizzazione della società,
la crisi del sindacato e dei modelli concertativi.
Per questo Tronti tornerà nell’alveo
del PCI, lasciando i suoi vecchi compagni operaisti baloccarsi con costruzioni
teoriche astratte e desideri insoddisfatti. Ma Tronti, purtroppo, non è stato
capace di sopravvivere intellettualmente alla sconfitta del suo pensiero. La politicizzazione
della classe operaia altro non era, infatti, che una forma di riformismo. Certamente
una via alta al riformismo, ma questo era. E, dopo aver prodotto la sconfitta
del compromesso storico, questa via alta al riformismo è degenerata in una
stradina stretta e fangosa.
Questo è avvenuto proprio perché
la classe operaia è stata sconfitta sul piano economico: frammentata dall’outsourcing,
in perdita di coscienza di classe nei nuovi modelli produttivi toyotisti,
affiancata da figure sociali emergenti non cooperative, precarizzata dalle
riforme del mercato del lavoro, la classe è sconfitta sul piano economico, e
quindi su quello politico non riesce più a produrre una idea di mondo
originale, in grado di superare la crisi della socialdemocrazia e del
socialismo reale, finendo per acquisire i modelli liberisti altrui nel
tentativo di renderli meno crudeli o più “sociali”. Da qui nascono i tentativi,
sempre più edulcorati, di tenere in vita un progressismo sempre più scialbo,
fino ai veri e propri tradimenti perpetrati dal Pd e dallo stesso Tronti, che
votano il Jobs Act.
In altri termini, l’anti-economicismo
del pensiero trontiano si rivolge contro lo stesso Tronti: la sconfitta sul
piano economico impedisce alla classe operaia di conquistare quello politico. Il
meccanismo gira alla rovescia rispetto a come pensava lui: va dall’economia
alla politica, non viceversa. La strada della sconfitta e del convento si apre
inesorabilmente.
Cosa rimane del pensiero trontiano?
Rimane indubbiamente il fascino dell’analisi della relazione reciproca e
stretta che esiste fra economia e politica, e che vediamo all’opera oggi, con
il Governo Draghi, che agisce esattamente come grande mediatore in grado di
rettificare e raddrizzare gli eccessi contraddittori prodotti da una
rapidissima fase di evoluzione del capitalismo, coinvolto in un enorme ciclo di
distruzione creativa schumpeteriana. Questo ci insegna che la politica non è
affatto morta sotto i colpi della globalizzazione e dell’oligarchizzazione
delle multinazionali e dei grandi operatori finanziari. Essa, semplicemente, si
adatta a tale fase del capitalismo e, sotto la spinta della Ue o di altri
grandi accordi economici o commerciali internazionali, si globalizza. Essa non
è morta e non può semplicemente considerarsi l’ancella di trasformazioni nei
modi di produzione. Essa vive in mezzo a noi. Sta a noi capire come
utilizzarla, senza però pretendere che essa possa autonomizzarsi dall’economia
ma, anzi, sapendo vivere nella complessità dell’intreccio reciproco di queste
due dimensioni, entrambe essenziali.