Parafrasando il Manzoni, sul
salario minimo si potrebbe usare la frase “adelante, con juicio”. Si riscontra,
con un certo grado di tristezza, che il sistema della contrattazione collettiva
non riesce più, da solo, ad assicurare una “giusta” retribuzione del lavoro. I motivi
sono diversi.
Vi sono diversi fenomeni malsani,
ovvero le false cooperative che, oggi, dopo i passi avanti sul Protocollo sulla
Sicurezza, sono parzialmente sostituite dalle “false Srl semplificate”, che
utilizzano le semplificazioni ed i risparmi di costo introdotti dal Governo
Monti per creare imprese esterne al circuito dei controlli sul rispetto del
proprio CCNL di appartenenza. Tali imprese, attraverso appalti di manodopera
fittizi, società “fantasma” di intermediazione della manodopera che applicano
contratti-pirata ed all’abuso della figura del socio-lavoratore, riescono ad
eludere gli obblighi retributivi e previdenziali. Si tratta di un fenomeno
molto consistente: nel solo 2017, le false Coop e Srl individuate sono state quasi
2.000, per circa 17.000 lavoratori non regolari.
Poi vi è il fenomeno del
caporalato, che in edilizia ed in agricoltura, ma anche in alcuni settori
terziari a basso valore aggiunto, raggiunge dimensioni ragguardevoli, non solo
al Sud. Secondo Ambrosetti, i lavoratori sottoposti a caporalato, in Italia,
sono circa 400.000. Di questi l’80% è straniero, con paghe che oscillano fra i
2 ed i 3 euro all’ora.
Infine, vi è il fenomeno dei “nuovi
lavori” (il rider ne è il simbolo e l’esempio), concentrati soprattutto nei
servizi alla persona e nella logistica, che non sono coperti da contrattazione
collettiva e la cui retribuzione dipende dalla volontà del datore di lavoro. Secondo
l’Inps, vi sarebbero 2 milioni di lavoratori che non superano una paga di 6
euro all’ora.
Nell’insieme, il fenomeno della “working
poverty”, cioè di chi è in povertà relativa pur avendo un impiego, colpisce,
secondo stime aggiornate al 2020 da parte della Etuc, il 12,6% degli occupati
italiani, a fronte di cifre più basse in Europa (9,6%). Se pensiamo che uno dei
Paesi con la più lunga esperienza di salario minimo, la Francia (che aveva lo
SMIG dal 1950 e poi l’attuale SMIC dal 1970) ha solo il 7,4% di working poors
(fonte Eurostat), capiamo bene quale possa essere la rilevanza redistributiva
potenziale di questo strumento nel nostro Paese, con le sue caratteristiche
specifiche di arretratezza salariale.
Nel confermare l’utilità dello
strumento in generale, occorre ovviamente sapere che, come sempre, il diavolo è
nei dettagli. Molto dipende dal modo e dalla forma in cui il salario minimo
viene implementato. Non sono pochi i rischi, come d’altronde la lunghissima
esperienza francese ha messo in luce. Nel Paese transalpino, infatti, sono
stati notati non pochi effetti distorsivi, anche sotto il profilo
redistributivo, oltre che di quello dell’efficienza economica generale. In particolare:
a) Un
salario minimo relativamente alto (in Francia esso è cresciuto del 30% dal 1994
al 2015) schiaccia verso il basso la piramide salariale. Le imprese tendono a
recuperare i costi del salario minimo abbassando quelli delle categorie
professionali superiori, rendendo la scala retributiva più compatta (l’indice
del Gini sul salario disponibile equivalente è del 29,2, in Italia è del 32,8)
ma compattandola verso il basso: il salario mediano francese è pari a 22.562
euro, superiore, è vero, ai 17.165 euro italiani, ma nettamente inferiore a
quello di Paesi con grado di sviluppo economico analogo e privi di salario
minimo – la Svezia ha un salario mediano di 24.700 euro, il Regno Unito di
quasi 23.000 euro). Evidentemente, scarse opportunità di crescita salariale
scoraggiano l’impegno lavorativo ed hanno effetti deleteri sulla produttività e
sull’efficienza di sistema;
b) Il
salario minimo, come conseguenza di quanto sopra, ha una capacità pressoché inesistente
di produrre effetti sulle fasce salariali superiori: secondo calcoli dell’Ocse,
un rialzo dell’1% dello SMIC produce rialzi salariali dello 0,2% nei decili di salario
compresi fra il secondo ed il quinto, e pressoché nessun effetto dal sesto
decile in su. Ciò sfata in larga misura la credenza, diffusa, che il salario
minimo aiuti i sindacati a spuntare condizioni salariali migliori in sede di
negoziazione del CCNL, per i livelli professionali superiori al minimo;
c) Il
salario minimo, soprattutto se in crescita dinamica o attestato su livelli
relativamente alti, tende a produrre effetti disgregativi sul mercato del
lavoro, generando una selezione avversa per i profili professionali più
fragili, cioè quelli meno qualificati, la cui produttività finisce per
risultare inferiore a quanto l’impresa paga per lo SMIC. Secondo Laroque e
Salanié (2000) un incremento di un punto dello SMIC distruggerebbe 29.000 posti
di lavoro prevalentemente dequalificati; secondo Kramarz (2013) l’effetto
sarebbe compreso fra i 15.000 ed i 25.000 posti di lavoro.
d) Tale
effetto va però ben delineato: a livello complessivo, non è affatto detto che
il salario minimo comporti un calo del numero totale di occupati. La teoria del
salario di efficienza di Shapiro e Stiglitz, infatti, prevede una correlazione
positiva fra salario e produttività: salari minimi evitano produttività troppo
basse ed alimentano la crescita, anche per il tramite dell’effetto sulla
domanda aggregata, creando quindi più impieghi. Senza contare che, secondo uno
studio del Senato francese, abbinare allo SMIC uno sgravio sui contributi
sociali pagati dalle imprese a fronte di un aumento dello SMIC comporta la
difesa di almeno 400.000 posti di lavoro. Uno studio del 1993 su due Stati americani, uno dei quali aveva introdotto un salario minimo, ha mostrato effetti occupazionali migliori per lo Stato con il salario minimo (Card, Krueger).
e) Il
problema risiede a livello più micro, cioè nella composizione interna dello
stock di disoccupati. La disoccupazione si può suddividere in quattro
componenti: quella ciclica, dovuta a crisi congiunturali, che tende a riassorbirsi
con la ripresa, perché comunque costituita da persone qualificate ed occupabili,
quella frizionale, generalmente riguardante posizioni professionali
qualificate, che trovano facilmente e rapidamente un nuovo impiego; quella
volontaria, costituita da persone che potrebbero lavorare e scelgono di non
farlo, e quella classica, costituita perlopiù da persone con un livello di
qualificazione e di produttività particolarmente modesto e difficili da
impiegare. Di fatto, un salario minimo orario non incide sulla disoccupazione
ciclica e su quella frizionale, ed anzi, tramite gli effetti di efficienza e di
salario può ridurle, specie la prima; ha effetti ambigui sulla disoccupazione volontaria,
perché dipende dal livello al quale viene fissato (più alto è più incentiva i
disoccupati volontari a cercare un impiego); può avere effetti negativi su
quella classica, il cui livello di produttività finisce per essere inferiore al
costo complessivo del lavoro. La combinazione di questi effetti, ad un livello
aggregato, può ovviamente dare luogo ad aumenti o riduzioni del tasso di
disoccupazione, o ad una indifferenza del suo valore. In Francia, laddove
esiste un ampio bacino di lavoratori dequalificati, soprattutto immigrati, l’effetto
complessivo tende ad essere negativo.
f)
Il salario minimo non è uno strumento di
riduzione della povertà per chi non lavora. Può sembrare una ovvietà, ma non lo
è, perché delimita bene il campo, anche ideologico, di utilizzo di tale strumento.
Uno studio, sempre condotto in Francia, fra percettori dell’equivalente del
nostro reddito di cittadinanza (che i francesi chiamano “RMI”) mostra come la
scelta di passare dalla condizione di disoccupato percettore dell’RMI, quindi
di uno strumento di contrasto alla povertà, a quella di occupato con lo SMIC,
consente un guadagno di reddito non superiore al 50% per il 70% dei soggetti. La
scelta di passare dal non lavoro (che, soprattutto nel nostro Paese, comporta tempo
libero che può anche essere usato per ottenere guadagni in nero) al lavoro “al
minimo” significherebbe quindi passare, per una persona sola, da 500 euro a 700-750
euro al mese, un guadagno che potrebbe non essere allettante in cambio del
sacrificio del proprio tempo necessario a lavorare.
Fatta quindi
la tara agli effetti positivi e negativi del salario minimo, è chiaro che la
sua introduzione, in Italia, deve seguire alcune avvertenze specifiche,
correlate alla nostra realtà economica e sociale. Le soluzioni “in quota fissa”
che spesso circolano (in particolare, un salario minimo di 9 euro all’ora,
valore scelto perché è usato come linea di discrimine per la definizione di
working poverty) rischiano di essere apodittiche e poco flessibili. Suggerirei quanto
segue:
a) Scegliere
con grandissima attenzione il livello di salario minimo, in modo che non sia
troppo alto rispetto al salario medio, comportando quindi effetti di
schiacciamento della gerarchia salariale e di crescita della disoccupazione
classica e dequalificata (in Francia, il rapporto fra SMIC e salario mediano è
del 67%, il più alto fra i Paesi europei che hanno tale strumento) e non troppo
basso, scoraggiando l’avviamento al lavoro per i percettori di reddito di
cittadinanza e creando una trappola della povertà. Il salario mediano del
nostro Paese, pari a 1.430 euro netti al mese, potrebbe condurre ad un salario
minimo di circa 920-930 euro netti al mese, con un rapporto del 65%, più basso
di quello francese, ma sufficientemente alto da indurre un percettore individuale
di reddito di cittadinanza a rientrare nel circuito lavorativo. Ciò corrisponderebbe,
a tempo pieno con 40 ore settimanali, ad una paga di 5,75 euro netti all’ora
(circa 7,07 euro lordi all’ora);
b) Se
il valore approssimativo è quello sopra esposto, il suggerimento è di calibrare
tale valore in base al settore/professione: settori privi di contrattazione
collettiva, come quello dei rider, dovrebbero avere un salario minimo più alto,
in modo da compensare la particolare debolezza di tali categorie di lavoratori,
di fatto privi di copertura sindacale. Quelli coperti da contratto collettivo,
presumibilmente, potranno spuntare valori salariali superiori, grazie al
negoziato sindacale. Anche le categorie che operano in contesti settoriali più
dinamici, dove c’è maggior valore aggiunto da spartire, dovrebbero avere, per
equità, un salario minimo più alto, riflettente il maggior apporto produttivo
fornito (920-930 euro al mese può essere un salario minimo concepibile per un
cameriere, meno per un operaio, anche al livello contrattuale minimo, che
lavora in una azienda aerospaziale);
c) Le
possibili perdite occupazionali legate alla disoccupazione classica e
dequalificata possono essere molto efficacemente contrastate con provvedimenti
mirati di riduzione del cuneo contributivo perle imprese: non uno sgravio
contributivo universale, che è una cazzata ed un regalo alle imprese, ma uno
sgravio mirato soltanto ai lavoratori che percepiscono il salario minimo e vengono
assunti a tempo pieno ed indeterminato, di entità crescente al crescere del
fabbisogno di formazione e qualificazione professionale degli assunti;
d) Il
salario minimo non può in nessun caso essere una alternativa al contratto
collettivo. Da solo, infatti, non garantisce una piramide salariale
sufficientemente sviluppata e riflettente il maggior apporto lavorativo. Quindi,
esso non può che essere un argine retributivo minimo in un contesto in cui si
lavora per potenziare ed allargare il CCNL, anche alle categorie che ne sono
prive;
e) Attenzione
va posta anche agli aumenti del salario minimo. Il meccanismo del “coup de
pouce” francese, poco razionale e molto legato a congiunture politiche, va
superato in nome di un incremento strettamente legato a quello del costo della
vita;
f)
Il salario minimo non è uno strumento generale di
lotta alla povertà. Non può sostituire il reddito di cittadinanza ed il welfare
(sanità pubblica, edilizia popolare, ecc.). Tali strumenti devono essere
conservati, perché lavorano su una logica diversa, estranea al mercato del
lavoro e legata a diritti di cittadinanza universale che vanno garantiti a
tutti i cittadini.
RiRiferimenti:
E En marge de la Protection Sociale : le SMIC est-il le salaire minimum institutionnalisant le chômage ? Dossier : L'Europe sociale, Magazine N°530 Décembre 1997
Sénat de la République: Les perspectives de retour au plein emploi, 25 septembre 2021
Sébastien Grobon, Quels effets du salaire minimum sur le chomage, Regards Croisés sur l'Economie, 1/2013
Chauvin V., G. Dupont, É. Heyer, M. Plane et X. Timbeau, 2002, « Le modèle France de l’OFCE. La nouvelle version : e-mod.fr », Revue de l’OFCE, n° 81, avril.
D. Card, A. Krueger, Mimimum Wages and Employment: A Case Study of the Fast Food Industry in New Jersey and Pennsylvania; National Bureau of Economic Research, WP 4509, 1993