Brutte notizie per l’economia globale: i principali indici congiunturali scontano un netto rallentamento della crescita nei mesi a venire. La forte ripresa post-Covid sembra in fase di forte rallentamento. Sia l’indice PMI globale di Markit che il Baltic Dry Index (un indice costruito sui valori dei noli delle navi rinfusiere, generalmente assunto come indicatore anticipatore della dinamica del commercio globale) manifestano una evidente decrescita dopo il 2021 (nel caso del secondo indicatore, però, tale diminuzione può attribuirsi al parziale decongestionamento dei principali porti, con un connesso moderato calo dei noli, che nei mesi scorsi avevano raggiunto valori record). Il dato dell’indice PMI, invece, riassume previsioni di calo della produzione, dell’occupazione e degli ordinativi nell’industria manifatturiera mondiale per i prossimi mesi, con un valore che rimane al di sotto della soglia di 50, in genere indicativo di recessioni. Il pesante rallentamento della crescita cinese, soprattutto nei servizi, e la battuta di arresto della produzione industriale tedesca (-0,3% a gennaio rispetto al mese precedente) hanno contribuito in misura evidente.
Baltic Dry Index: andamento al 7 febbraio 2022
In Italia, l’indice composito PMI
rallenta di ben 4,6 punti rispetto a dicembre, attestandosi sulla soglia della
stagnazione economica (50,1) per effetto di un calo più accelerato nel comparto
dei servizi. Tali dati di rallentamento sono confermati dal clima di fiducia di
imprese e consumatori. L’indicatore in questione è in netto calo, soprattutto
sul versante imprenditoriale, dove raggiunge il valore più basso degli ultimi
nove mesi, per effetto di un deciso peggioramento delle previsioni di ordinativi,
e soprattutto nei servizi (turismo, trasporti e in misura minore commercio) e
nell’industria dei beni di consumo finale. Le famiglie italiane, dal canto
loro, scontano una previsione di peggioramento del clima economico generale,
una maggiore propensione al risparmio e previsioni di riduzione degli acquisti di
beni durevoli nei prossimi mesi.
Indice di fiducia dei consumatori e delle imprese in Italia
Nel frattempo, sul versante dei prezzi
energetici, le notizie non sono buone. I valori sui mercati future del gas
naturale e del petrolio Brent mostrano, infatti, valori ancora piuttosto alti
ed una propensione a diminuire molto moderata. Pur essendo in lieve riduzione, già da qualche giorno, il valore del gas naturale sul mercato future è analogo a quello del 2014 (quando, guarda caso, ci fu la prima crisi Russia-Ucraina) ed è di due volte e mezzo più alto del minimo toccato ad inizio 2020. Quello dei future sul petrolio Brent è il quadruplo del valore minimo di inizio pandemia. Avremo davanti ancora mesi di
prezzi energetici alti, anche se la fiammata di crescita sembra essersi
consumata, e di lento decongestionamento del traffico marittimo, che impedirà
ai valori dei noli di diminuire troppo rapidamente. Per una economia energivora
come l’Italia, tale andamento è molto preoccupante.
Non sembra però che la politica
monetaria abbia granché da dire, sia sul versante della crescita che su quello
dell’inflazione. Mettendo a confronto in un unico grafico l’andamento del costo
del denaro applicato dalle principali banche centrali mondiali (Fed, Bce, Banca
Centrale del Giappone e Banca Centrale britannica), l‘andamento dell’indice PMI
globale e l’indice dei prezzi globale, scopriamo che nel periodo 1999-2001 e
nel 2003-2007, politiche monetarie restrittive sui tassi hanno avuto effetti
del tutto irrilevanti sull’andamento globale dei prezzi, mentre il crollo dell’inflazione
nel 2009 ed il successivo mantenimento dell’indice dei prezzi su valori vicini
allo zero fino al 2020 non sembra risentire di andamenti erratici delle
politiche sui tassi, prima fortemente ridotti e poi moderatamente ricresciuti a
partire dal 2017, come effetto del primo tapering effettuato dalla Fed.
Andamento dei tassi di interesse ufficiali delle principali banche centrali, dell'indice sui prezzi globali e dell'indice composito PMI globale
Analogamente, la crescita
economica globale, rappresentata dall’indice PMI, risente poco dell’andamento
dei tassi di interesse ufficiali: essa è alta in periodi di crescita rapida dei
tassi ufficiali e dei prezzi, e rallenta in periodi di tassi negativi e prezzi
vicino allo zero. Questo perché, evidentemente, i tassi di interesse vengono
scontati per i prezzi, per cui i mercati li prendono in considerazione in termini
reali. Pertanto, fasi di crescita dell’economia e di surriscaldamento dell’inflazione,
come quelli pre-crisi del 2007 annullano gli effetti di eventuali politiche
restrittive sui tassi, poiché l’aumento del tasso nominale è compensato dal
parallelo aumento dei prezzi. Viceversa, in fasi di crescita stagnante o di
crisi e di deflazione, la riduzione dei tassi nominali è in una certa misura
già anticipata da quella dei tassi reali, e non produce grandi effetti.
Il tema centrale sembra quindi
essere il seguente: pensare di curare l’attuale fase inflazionistica con una
restrizione sui tassi di interesse ufficiali rischia di essere una medicina
sbagliata per un paziente affetto da tutt’altra malattia. L’incremento prospettico
dei tassi nominali arriverebbe dopo l’aumento dei prezzi, sicché in termini
reali la dinamica del costo del denaro sarebbe modesta (addirittura, per
piccoli incrementi dei tassi nominali, continuerebbe a mantenersi negativa) e
non avrebbe effetti rilevanti né sul comparto reale dell’economia, né sul
raffreddamento dell’inflazione. Le dinamiche di crescita e di inflazione
dipendono infatti da fattori reali e geopolitici: i livelli ancora molto alti
dei costi energetici, la domanda interna per consumi che non riparte,
aspettative ribassiste alimentate anche da “rumors” sul ritorno imminente di politiche
di austerità delle finanze pubbliche nell’area euro, il forte rallentamento
economico cinese, legato a sua volta a fattori, come la bolla immobiliare e la
crisi da debito dei grandi costruttori edili, tipici di quel Paese.
Oltre che ininfluente, una
sterzata troppo forte sui tassi di interesse, soprattutto da parte della Bce,
invierebbe ai mercati un segnale negativo di complessivo restringimento delle
politiche economiche in senso di un ritorno all’austerità neoliberista, anche
nell’ottica del prossimo appuntamento sulla riforma del Patto di Stabilità. Ciò
rischia di creare scommesse al default per i Paesi a più alto debito pubblico dell’area
euro, fra i quali il nostro, alimentando ulteriormente la già evidente tendenza
al rallentamento della crescita economica e rischiando di creare le premesse
per una sorta di previsione recessiva autoavverantesi.
La politica monetaria dovrebbe
quindi mantenersi sufficientemente accomodante nei prossimi mesi, soprattutto
nell’area euro, continuando a fornire al sistema la liquidità a basso costo (o a
costo zero) di cui necessita, confidando in una forte ripresa di investimenti
pubblici che, però, senza un debito comune europeo rischia di concentrarsi sui
Paesi con i margini finanziaria più alti, accentuando le asimmetrie ed i divari
interni all’area euro. Un’area monetaria comune in cui le traiettorie dei
singoli membri si allontanano troppo, e non esistono sufficienti meccanismi di
compensazione, rischia di implodere.