Le mafie, la ‘Ndrangheta in
particolare, sono da sempre custodi gelose della tradizione. La tradizione
serve infatti per imporre codici di comportamento interno improntati alla
disciplina, particolarmente importante in una organizzazione, come quella delle
‘Ndrine, a fortissima base di consanguineità, dove quindi aspetti relazionali
di tipo familiare si confondono e si mescolano con quelli legati all’attività
criminale. Serve anche per creare un alone di “rispettabilità”, di prestigio,
per attrarre nuovi adepti, affascinati dall’idea di entrare in una setta dove
vigono dei solidi principi, specie nel degrado sociale e di prospettive tipico
del nostro Mezzogiorno.
E d’altra parte la tradizione è
importante per un motivo molto più pratico. La ‘Ndrangheta nasce nella società
contadina calabrese, parallelamente al processo unitario tardo ottocentesco, come
evoluzione del fenomeno della picciotteria esistente nel Regno delle Sue Sicilie,
a metà fra una sorta di bravi al servizio dei latifondisti per sedare le
rivolte contadine, di gruppi di autodifesa basati sulla violenza, e in alcuni
casi di capipopolo che amministravano la giustizia in quelle plaghe semi-abbandonate
dal potere borbonico. Con l’unità nazionale, si assisté alla formazione di “società di mutuo
soccorso” segrete fra famiglie di braccianti, pastori, piccoli proprietari e piccoli
artigiani, aventi una chiara connotazione di società parallele anti-Stato, che assorbirono
rapidamente gli elementi criminali della preesistente picciotteria, divenendo
quindi organizzazioni mafiose. Il tradizionalismo viene sintetizzato efficacemente
dal verso di una canzone di ‘Ndrangheta: “lavuraru trint'anni sutta terra, pi
fondari li reguli sociali, leggi d'onori di sangu e di guerra leggi maggiori,
minori e criminali”.
Dedite, inizialmente, ad
estorsioni ed al pizzo, ad abigeati, o al caporalato agrario, all’organizzazione
del gioco d’azzardo, le ‘Ndrine riflettono il carattere patriarcale e
tradizionale della campagna calabrese. Dove la donna non ha un ruolo di potere,
ed infatti non può affiliarsi formalmente alla ‘Ndrina: il rito di iniziazione
formale, carico di simbolismi religiosi e mistici, è riservato soltanto ai
figli maschi dei suoi soci, chiamati “primi fiori”. Solo loro hanno il
privilegio, per così dire, di essere riconosciuti formalmente come membri dell’organizzazione.
Quando un affiliato ha un figlio maschio, lo affida ai primi riti di
pre-adesione già da neonato (il rito del coltello e della ferraglia, il taglio
delle unghie dei piedi) mentre la figlia femmina viene trascurata.
La donna, così, finisce, in
apparenza, per assumere quel ruolo domestico ed educativo che riveste nella
stessa società contadina: è lei ad allevare i figli maschi dell’uomo d’onore,
destinati ad affiliarsi. E’ soprattutto lei ad educarli alla religione dell’onore
e della vendetta, che costituisce il DNA della cultura ‘ndranghetista. Le grandi
faide sono istigate, e continuamente alimentate, dalle donne, che spingono i
figli a “fare giustizia”. Intere generazioni di ‘ndranghetisti sono cresciute
dalle madri nel mito del sangue e dell’onore. Renate Siebert parla di “pedagogia
della vendetta”, per designare tale modello educativo, dove la stessa
mascolinità viene inestricabilmente associata alla necessità di difendere il
proprio onore maschile, colpendo chi lo ha disonorato (in base ai tradizionali
codici comportamentali mafiosi). In questo senso, la madre assume il ruolo di “memoria
della vendetta”, passando al figlio gli oneri di compimento della stessa quando
il padre muore o è troppo anziano per potersene occupare. E così facendo, la
donna diventa l’elemento di continuità storica del clan, e di istigazione all’azione
per i suoi uomini, assumendo, sia pur nell’ombra, un ruolo direttivo.
E poi le donne svolgono ruoli attivi,
spesso anche molto rilevanti e compromettenti dal punto di vista giudiziario,
ma caratterizzati dal fatto di rimanere in una funzione secondaria, per così
dire “servente”, rispetto all’attività svolta dai loro uomini: custodia delle
armi, recapito delle ‘mbasciate fra i componenti reclusi e quelli in libertà, organizzazione
delle collette per sostenere le famiglie degli affiliati reclusi, vigilanza
esterna, acquisizione di informazioni, protezione dei latitanti (per i quali
fanno da cuoche e donne di servizio).
Molto spesso le figlie servono
come merce di scambio per organizzare matrimoni di convenienza: essendo la ‘Ndrine
basate su legami familiari, le alleanze fra famiglie, necessarie per formare
organizzazioni più grandi e potenti, come le Locali, si fanno combinando i
matrimoni. La ragazza è costretta a sposare un uomo d’onore dell’altra ‘Ndrina,
per rafforzare la coalizione criminale. I vincoli di omertà derivanti dal suo
coinvolgimento “obtorto collo” nella “società”, ed i vincoli di fedeltà al
marito, ne fanno, sotto il profilo emotivo e delle relazioni, una schiava
perenne, cui viene lasciato però il rilevantissimo spazio di manovra dell’educazione
dei figli e dell’istigazione all’azione dei mariti, sia pur agendo nell’ombra. Viceversa
agli uomini è consentito di mantenere una amante, purché l’immagine pubblica
del matrimonio venga preservata.
Le donne di ‘Ndrangheta sono
quindi, in cambio di un ruolo di comando rilevante, condannate ad una vita di
castità ed assoluta fedeltà al marito, perché debbono custodire il
preziosissimo bene dell’onorabilità del loro uomo. Un uomo che non sa tenere
sotto controllo la sua donna, e che viene da lei tradito, perde prestigio nell’organizzazione,
e rischia anche la vita, poiché viene considerato pericolosamente debole. Tale vincolo
di castità è così forte che deve durare anche nel caso in cui l’uomo venga
incarcerato. Persino le vedove devono evitare di risposarsi (a meno che il
capobastone non le autorizzi, spesso per motivi pratici di alleanza con altri
gruppi) e condurre una vita ritirata e casta, per custodire il ricordo dell’onorabilità
del defunto, spesso capostipite di una famiglia mafiosa.
Peraltro, sin dai primi anni di
vita dell’organizzazione, esigenze molto pratiche portano a dover infrangere
questa distribuzione così rigida dei ruoli, ed a cercare compromessi. I clan
devastati da arresti e omicidi per vendetta devono coprire le posizioni di
organigramma, e quindi si inventa un percorso contorto per consentire, in casi
eccezionali di emergenza, l’affiliazione delle donne esterne al clan familiare
(quelle che fanno parte della famiglia sono già considerate interne alla logica
mafiosa) dimostratesi particolarmente abili ed affidabili, che nella rigida
struttura delle Locali assumono la denominazione di “sorella d’omertà”. Ci sono
casi documentati già dai primi del Novecento. Per salvare le apparenze di una
società onorata composta da soli uomini, e quindi per salvaguardare la
sostanziale ipocrisia patriarcale, esse si devono affiliare indossando, durante
la cerimonia, vestiti da uomo. Rimangono inoltre legate a ruoli puramente
subordinati, poiché la leadership è sempre in mano agli uomini, tanto che sino
alla legge Rognoni-La Torre del 1982 esse non vengono mai, in pratica,
considerate membri di organizzazioni ‘ndranghetiste, anche quando svolgono
consapevolmente uno dei citati ruoli attivi, commettendo di fatto dei reati. Nei
processi, anziché essere condannate per associazione a delinquere, vengono
infatti generalmente accusate del più mite reato di favoreggiamento.
Seppur considerate dalla legge,
per molti anni, come non affiliate, sono le donne le “catalizzatrici” dell’attività
dei clan, secondo il giudice Gratteri. Sono loro che comandano veramente, sono
loro che attivano le vendette e le faide, sono loro che crescono i figli che vanno
a fare i soldati del clan, sono loro che
inducono i loro uomini a fare carriera dentro l’organizzazione. Maria Serraino,
detta “mamma eroina”, non si accontenta nemmeno di questo ruolo di comando nell’ombra.
E’ il primo caso di donna-boss conosciuto. Nasce in una famiglia mafiosa di
Cardeto, vicino a Reggio Calabria, si sposa con Rosario Di giovane, un
contrabbandiere di sigarette, e nel 1963 si trasferisce a Milano, istituendo ex
novo un clan mafioso, dedicandosi allo spaccio della droga, grazie ai suoi 12
figli, tutti quanti cresciuti come soldati. E contrabbanda anche armi dirette
verso la Calabria, nell’ambito della seconda guerra di ‘Ndrangheta, in cui i
suoi parenti sono coinvolti. Ordina l’uccisione di un suo spacciatore che vuole
mettersi in proprio. All'età di 12 anni, una delle sue figlie venne portata via
da scuola per aiutare a spacchettare la cocaina nascosta nei pannelli delle
auto importate, ed inserire l'eroina nelle bottiglie di shampoo.
Il salto quantico da questa
condizione di “ombra” delle donne nella ‘Ndrangheta avviene negli anni Settanta.
Non, come si crede, per permeabilità delle istanze del nascente movimento
femminista, che nella Calabria di quegli anni, e soprattutto nelle ‘Ndrine, non
penetrano. Ma per una strategia, che dimostra tutto il grado di flessibilità di
questa organizzazione: le donne possono svolgere ruoli più importanti, proprio
perché raramente finiscono imputate per il reato di associazione mafiosa. E quindi
godono, rispetto agli uomini, di una sorta di “franchigia” giudiziaria. Che consente
loro di poter svolgere con maggiore sicurezza attività particolarmente
pericolose in termini di rischio di arresto, come il trasporto dello
stupefacente (che possono nascondere più facilmente degli uomini nel loro
apparato genitale, oppure simulando una gravidanza). Infatti, con la prima
guerra di ‘Ndrangheta iniziata nel 1974, le leve emergenti (i De Stefano, i
Mammoliti, gli Strangio) alleate con Mommo Piromalli eliminano la vecchia
guardia, raccolta attorno a don Antonio Macrì o don Mico Tripodo, contraria all’estensione
dell’attività al business della droga.
Ma non solo: negli anni, i boss
hanno fatto studiare le figlie, che non sono più contadine semianalfabete, ma
possono essere utilizzate, con le loro competenze, nel crescente riciclaggio
nel settore finanziario, dove non sono richieste doti di violenza e coraggio
fisico, e quindi dove le donne possono essere impiegate. Inizia allora la lunga
marcia delle donne dentro i clan, non certo una vera emancipazione criminale,
ma certamente una riconfigurazione profonda del loro ruolo. Che le evidenze
investigative iniziano a manifestare, e che appaiono soprattutto nelle
filiazioni dei clan nel Nord Italia, dove è più normale che le donne siano più
indipendenti, nel lavoro legale come nel crimine.
Alcuni casi sono clamorosi, e
sembrano testimoniare di una vera e propria ascesa anche nei vertici dei clan,
fino a quel momento coperti solo da uomini. Un esempio è quello di Angelica
Riggio, nata e vissuta a Monza al di fuori del contesto mafioso- si tratta di una
giovane ragazza madre che diventa amante e poi convivente di Pio Domenico, uno
sgarrista della Locale di Desio controllata dal clan Iamonte (proveniente da
Melito di Porto Salvo), accedendo al clan nel ruolo di contabile; quando viene
arrestato il 13 luglio 2010 nell’ambito dell’operazione Infinito, la Riggio avrebbe,
secondo gli inquirenti, preso il suo posto nella gestione del racket: iniziando
a farsi chiamare “Vanessa” sarebbe andata a riscuotere i soldi del racket dalle
vittime, con una tenacia e un’aggressività dimostrata, a detta degli
inquirenti, in più occasioni. Angelica non si tirerebbe indietro nemmeno quando
c’è da alzare le mani, visto che gli inquirenti avrebbero accertato almeno un
paio di occasioni in cui ha schiaffeggiato violentemente cattivi pagatori. Come
quando in una trattoria di Mornico al Serio sarebbe stata lei, arrivata insieme
al compagno, a schiaffeggiare il figlio della titolare, indietro con le
cambiali. Arrestata nell’ottobre 2010, Angelica Riggio si trova così a
rispondere dell’accusa di usura. Durante le perquisizioni la magistratura trova
un numero elevato di titoli di credito, molti dei quali intestati alla Riggio,
titolare anche di alcuni immobili di provenienza incerta. Nel dicembre 2012
viene condannata in primo grado a 6 anni e 6 mesi di carcere.
Luana Paparo (classe 1988) è un
altro esempio. Figlia di Marcello Paparo, che la procura considera il capo
della ‘ndrina di Isola di Capo Rizzuto Arena-Nicoscia, estesasi a Cologno
Monzese. Il suo nome compare nell’inchiesta Isola, un’operazione che nel marzo
2009 manda in carcere più di venti elementi considerati organici alle ‘ndrine
Arena e Nicoscia. I Paparo, secondo l’accusa, mirerebbero a insinuarsi nei
grossi appalti di facchinaggio e trasporto in catene di supermercati con il
Consorzio di cooperative Ytaka di Brugherio, e nei grossi subappalti di
movimento terra nei cantieri del quadruplicamento della linea Milano-Venezia
delle Ferrovie dello Stato con la P&P di Cernusco sul Naviglio. È la stessa
Luana Paparo a gestire il consorzio Ytaka, ma i magistrati le imputano di
essere la custode dell’arsenale del clan. Il processo di appello ha condannato
Luana (4 anni e 8 mesi) e Marcello Paparo (12 anni e 7 mesi) e altri imputati
legati alla famiglia per il reato associativo.
Terzo esempio: Maria Valle, cresciuta
a Bareggio, è la figlia di Fortunato Valle. I Valle, capeggiati dal nonno don
Ciccio Valle, sono un clan della ‘Ndrangheta insediatosi a Vigevano e originari
del quartiere Archi di Reggio Calabria. Nel luglio 2006 sposa Francesco
Lampada, suggellando l’unione di due importanti famiglie ‘ndranghetiste: un matrimonio
celebrato in grande stile all’Hotel Villa D’Este sul lago di Como – lo stesso
che ogni anno ospita il forum Ambrosetti – che testimonia come le ragazze di ‘Ndrangheta
siano tutt’oggi merce di scambio nelle politiche matrimoniali dei clan. Secondo
la procura, la donna contribuirebbe al rafforzamento economico delle attività
criminose – soprattutto usura ed estorsione – rendendosi intestataria fittizia
delle quote di una immobiliare riconducibile alla famiglia Valle, affinché gli
altri componenti dell’associazione mafiosa possano eludere le disposizioni di
legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale. Nel luglio 2012 è stata
condannata in primo grado a 7 anni di carcere.
Significtiva la storia di Angela
Bartucca. Moglie di Rocco Anello, capobastone dell’omonimo clan catanzarese,
una storia come tante di donne di ‘Ndrangheta ritrovatesi spose di capi clan
per matrimoni combinati. Che però rompe la tradizionale passività che le donne
di ‘Ndrangheta devono subire. Ed anche questa è una rottura del codice
comportamentale della “società”, del tutto impensabile, che dimostra la
crescita dell’autonomia delle donne di ‘Ndrangheta: Angela ha delle storie con
due picciotti del clan, mentre il marito è detenuto. Entrambi i picciotti scompaiono
nel nulla. Si sospettano di omicidio due sicari del clan, che però vengono
assolti. La tradizionale fedeltà della sposa di ‘Ndrangheta viene quindi meno, bruciata
sull’altare dell’emancipazione sessuale, una cosa che nella vecchia ‘Ndrangheta
era impensabile.
E ancora, Ilenia Bellocco, la
moglie del boss Ciccio Pesce, detto “O Testuni”, che a 47 anni avrebbe, secondo
gli inquirenti, ereditato la gestione del clan dopo l’arresto del marito. Anche
lei figlia di un clan, suo padre, Umberto, detto “Assu i mazzi”, capobastone
della piana di Gioia Tauro. Durante la latitanza del marito, avrebbe le redini
del clan anche incassando i soldi delle estorsioni e dei traffici. Ha un
carattere acido e spigoloso che spesso si esprime in un turpiloquio grondante
bestemmie, tale da sbalordire persino gli investigatori abituati ai peggiori
sicari. Il giorno delle nozze ai suoi mille ospiti ha offerto come bomboniera
un cobra in lalique con occhi in pietre preziose. Ilenia, nessun reddito
denunciato al Fisco, avrebbe un tenore di vita principesco.
Siamo ad un livello oramai molto
più avanzato della teoria per la quale la donna di ‘Ndrangheta può assumere
ruoli di comando solo in una funzione suppletiva e di sostituzione del marito
assente per latitanza o carcerazione. Lo dimostra il caso di Angela Ferraro. 50
anni, è moglie del boss di Palmi Salvatore Pesce, detto " U babbu". A
giudizio degli inquirenti e del giudice che l’ha condannata, Angela Ferraro avrebbe
una posizione speciale, non da supplente. Avrebbe lo stesso rango degli uomini, interloquendo
"alla pari" con il fratello, occupandosi di racket a Milano e di
traffico di droga fra il capoluogo lombardo e la Calabria. La donna deciderebbe
le estorsioni senza chiedere le autorizzazioni ai maschi della 'ndrina ed entrando
nelle discussioni del clan, anche quelle relative agli omicidi da commissionare.
Il quadro che emerge è quindi
molto lontano dal tradizionale paternalismo giudiziario, che esime in parte le donne
di ‘Ndrangheta dalla loro responsabilità criminale. Al contrario: vista da
dentro, tale organizzazione appare già in origine comandata, con un ruolo solo
formalmente secondario, dalle sue donne. Ed oggi sembra in grande cambiamento,
tanto da vedere l’altra metà del cielo abbandonare anche le ipocrisie formali di
un maschilismo solo apparente, e prendere con sempre maggiore decisione le
redini delle ‘Ndrine, anche agli occhi degli osservatori esterni.
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