Introduzione
Il programma elettorale di Potere
al Popolo, nella parte relativa alla giustizia, espone due proposte destinate a
far riflettere: l’abolizione del 41 Bis e della pena dell’ergastolo. La
discussione sul 41 bis andrebbe fatta separatamente, e dovrebbe partire da un
esame del conseguimento del suo obiettivo originario (ovvero quello di isolare
completamente il mafiosa dal suo ambiente, anche carcerario, di riferimento)
che è ampiamente fallito (non solo i boss al 41 bis sono riusciti ad elaborare
metodi per continuare a comunicare all’esterno, ma addirittura hanno usato
alcune caratteristiche dello stesso regime, come la sorveglianza video e audio,
per incrementare la loro capacità di inviare messaggi all’esterno) e dalla
sostenibilità di un regime detentivo chiaramente inumano.
L’obiettivo di questo articolo è
invece quello di discutere della proposta di abrogazione dell’ergastolo, anche
di quello ostativo, ovvero di quello che non prevede nessuna possibilità di
beneficio giudiziario. Tale tipologia di ergastolo riguarda esclusivamente
condannati per delitti di terrorismo, eversione con atti violenti, omicidio con
aggravante mafiosa, associazione mafiosa o associazione a delinquere che, in
assenza di pentimento e collaborazione con la giustizia, siano finalizzate ad
uno o più dei seguenti reati: sequestro di persona, contrabbando, traffico di
stupefacenti, riduzione in schiavitù, tratta di persone, sfruttamento della
prostituzione minorile, pornografia minorile, atti sessuali con minorenne,
violenza sessuale singola o di gruppo. Per i reati associativi a sfondo
sessuale, la revoca dell’aggravante ostativa può essere fatta solo a seguito di
positivo esame scientifico della personalità.
Si tratta insomma di una pena
comminata per reati gravissimi, commessi in forma associata (mafiosa, criminale
o terroristica che essa sia), senza pentimento successivo, ed in alcuni casi in
presenza di una diagnosi psichiatrica di pericolosità sociale o di grave
devianza della personalità. Stiamo quindi parlando di una quota molto
minoritaria della popolazione carceraria (all’incirca un migliaio di casi,
circa il 3% del totale dei detenuti a seguito di condanna definitiva) tra
l’altro di età media avanzata (si tratta in larga maggioranza di esponenti
mafiosi della vecchia guardia e di ciò che resta dello zoccolo irriducibile del
terrorismo degli anni Settanta ed Ottanta) e quindi in riduzione ed in via di
sparizione. Gli altri ergastolani, che hanno commesso delitti molto gravi, ma
senza l’aggravante mafiosa, associativa, eversiva o terroristica, dopo i primi
20 anni di carcerazione iniziano a beneficiare di permessi premio, poi di
semilibertà e di libertà condizionale, talché per loro non si può nemmeno
parlare di ergastolo in senso stretto. Il punto della questione ruota quindi
attorno a quel migliaio di criminali di altissimo livello condannati al “fine
pena mai”.
L’ergastolo e la funzione rieducatrice della pena
La presunta base giustificativa
della proposta di abolire l’ergastolo ostativo (peraltro più volte bocciata
dalla Corte Costituzionale nei numerosi casi in cui si è sollevata una presunta
incostituzionalità dell’ergastolo) risiederebbe nel dettato dell’articolo 27
della Costituzione, per il quale “le pene devono tendere alla rieducazione del
condannato”. Si tratta però, esplicitamente, di una previsione tendenziale, e
l’articolo della Costituzione in questione, come peraltro specificato dalla
Corte Costituzionale, va interpretato nei termini di un disegno complessivo del
sistema delle pene tale da essere orientato alla rieducazione. Rieducazione,
peraltro, che per essere tale deve godere della collaborazione del reo. Chi non
vuole o non è nelle condizioni mentali per essere rieducato non può esserlo. E’
difficile pensare che un terrorista irriducibile, un mafioso indisponibile a
collaborare con la giustizia, chi ha partecipato ad associazioni criminali
finalizzate a reati sessuali contro minori, senza dissociarsi o con una
diagnosi psichiatrica di grave disturbo mentale, possano essere nelle
condizioni di essere rieducati e reinseriti nella società.
Occorre peraltro considerare che
il reinserimento nella società è, in Italia come altrove, già di per sé
gravemente compromesso per detenuti che hanno commesso reati meno
“invalidanti”, dal punto di vista della loro accettabilità sociale, rispetto a
quelli degli ergastolani a titolo definitivo. Il tasso di recidiva, calcolato
con la percentuale di detenuti aventi già sulle spalle una precedente
carcerazione sul totale dei detenuti è, nel 2012, pari al 67% (Lanotte, 2015[1]).
Nel 2016, il 55% dei condannati in via definitiva in sede penale ha già
precedenti penali. Con ciò non si vuole affatto sminuire il ruolo dei programmi
di reinserimento e di alternatività rispetto alla detenzione, molto importanti
in termini di riduzione della recidiva (il tasso di recidiva fra i beneficiari
di programmi di reinserimento in Italia passa dal menzionato 67% al 19%) e di
riduzione del costo (un detenuto costa, in Italia, 125 euro al giorno, alcune
esperienze di successo, come il programma di reinserimento sociale per i minori
detenuti a Rikers Island, New York, ha abbattuto il costo di gestione del
carcere minorile da 35 a 30 milioni di dollari)[2].
Ciò che si vuole dire, piuttosto, è che non è possibile trattare l’intera
popolazione carceraria come un unicum omogeneo: se un ladro o un piccolo
truffatore possono essere reinseriti in modo relativamente facile, altra
questione è quella di lavorare sul reinserimento di un boss mafioso o di un
terrorista non pentito. In tali casi, vi è il rifiuto “a priori” della comunità
legale dentro la quale si dovrebbe essere reinseriti, perché si appartiene
indissolubilmente ad una comunità criminale, e l’ergastolo può dare spazi ad
una liberazione futura solo qualora tale appartenenza si dissolva con la
dissociazione ed il pentimento (ricordiamo che l’ergastolo vero e proprio,
quello ostativo, è, nel nostro ordinamento, comminabile solo in caso di delitti
correlati a vincoli criminali di tipo associativo, e non individuale).
In altri termini, i programmi di
reinserimento sociale sono efficaci, ma se utilizzati in forma selettiva. Non
possono funzionare bene per tutte le categorie di detenuti. Già la differenza
fra il tasso di recidiva, che è del 67% se calcolato sui detenuti negli
istituti carcerari (cioè sulla quota potenzialmente più pericolosa dei condannati,
quella in cui, al netto di casi singoli di tipo diverso, vi è quell’area che ha
commesso reati così gravi da precludersi la possibilità di usare canali di pagamento
del proprio debito con la giustizia diversi dal carcere) e del 55% se calcolato
sui condannati in via definitiva (fra i quali molti, per i reati meno gravi,
scontano sanzioni diverse da quella detentiva) tende ad evidenziare come la
tendenza alla recidività sia particolarmente acuta nella frangia più dura e più
gravemente compromessa dei rei. Sembrerebbe, cioè, che la tendenza a ripetere i
reati cresca al crescere della gravità della pena, il che confermerebbe
l’ipotesi per la quale la fascia dei criminali più dura, quella condannata
all’ergastolo ostativo, sarebbe particolarmente difficile da reinserire, ove
l’ergastolo venisse abolito e vi fosse la possibilità di una liberazione, anche
parziale o condizionale.
Peraltro, è interessante notare
come il tasso di recidiva negli USA, particolarmente alto (oscillante fra il
70% e l’80%, a seconda delle misurazioni) dipenda da un taglio dei programmi di
reinserimento e di prevenzione destinato essenzialmente alla popolazione
adulta, ignorando del tutto la popolazione in età infantile. Ci sono evidenze
empiriche forti a sostegno della tesi che la personalità criminale si formi nei
primi anni di vita, specialmente la personalità criminale cronica, quella
irriducibile (Moffitt, 1993)[3].
Se così è, i criminali cronici, quelli che più facilmente finiscono
all’ergastolo, non possono più essere recuperati efficacemente con programmi di
reinserimento effettuati quando oramai sono in età adulta, e la loro
personalità socialmente patologica è oramai del tutto strutturata.
L’abolizione dell’ergastolo ha effetti sul tasso di criminalità
generale?
Se, quindi, la tematica della
rieducazione individuale è poco utilizzabile per sostenere l’abrogazione totale
della pena dell’ergastolo, si potrebbe opinare che detta abolizione possa
condurre ad un “alleggerimento” delle condotte criminali, sulla base del
principio che chi sa di aver commesso un reato tale da comportare l’ergastolo
in caso di cattura, sarà maggiormente determinato a delinquere ulteriormente,
fino al suo arresto, non avendo più molto da perdere. Tuttavia, la ricerca
criminologica va nella direzione opposta. L’ispirazione dell’articolo 27 della
Carta è chiaramente basata sulle teorie del Beccaria (uno dei padri della
criminologia), poiché richiama concetti di umanità e rieducazione
nell’applicazione delle pene. Ma Beccaria non era affatto ostile al carcere a
vita (che considerava esplicitamente superiore rispetto alla pena di morte). La
sua base teorica si fondava sulla proporzionalità fra la pena la gravità del
reato, onde evitare pene aberranti o eccessive rispetto al fatto che è stato
commesso, e laddove tale proporzionalità si deve computare sulla base del danno
(economico, civile e morale) subito dalla società, del vantaggio personale
conseguito dal reo dalla consumazione del reato e dalla forza di deterrenza
necessaria per far cambiare idea a chi pensasse di commettere quel reato: “perché
una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che
nasce dal delitto, e in questo eccesso di male deve essere calcolata
l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe.
Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico”.
Tale concezione del Beccaria è
essenzialmente condizionata dall’utilitarismo benthamiano, per cui la
disutilità legata alla pena deve eguagliare, e non superare, l’utilità
individuale connessa al compimento del reato. Da tale concezione fondamentale,
che ha ispirato i sistemi giudiziari democratici, sono nate due scuole criminologiche
fondamentali: la prima, la cosiddetta scuola della deterrenza, è
fondamentalmente ispirata all’idea per cui il comportamento criminale
tenderebbe a variare rispetto a un aumento della probabilità e severità della
punizione. Tale scuola ha riscontri empirici controversi, ma a volte positivi.
Ad esempio, dopo uno studio longitudinale di tre anni di osservazione su un gruppo di 641 maschi con 32 anni di età
media dopo la loro uscita dal carcere, Witte (1980)[4]
osservava che tra delinquenti ad alto rischio (condanne precedenti e carcere,
disoccupazione, alcol) il fattore che più degli altri riduceva la probabilità
di commettere nuovi reati era proprio la condanna precedente e il timore del
carcere. Analisi condotte su campioni di criminali in attività e “redenti”
evidenziano come essi tendano ad adottare modelli comportamentali influenzati
da fattori quali la severità della pena cui potrebbero andare incontro (Clark e
Cornish, 1985)[5]. Altre
ricerche raggiungono risultati ambigui. In particolare, l’ampio filone della
ricerca statunitense sugli effetti della pena di morte rispetto al tasso di
criminalità generale non conduce a risultati conclusivi rispetto alla validità
della teoria della deterrenza.
Più generale rispetto alla teoria
della deterrenza, per quanto inscritta dentro le ipotesi generali della teoria
utilitaristica neoclassica, è la teoria della scelta razionale elaborata da
Gary Becker. Sotto una serie di ipotesi per la verità molto forti (completa
informazione, perfetta razionalità del soggetto, assenza di una “vocazione” o
di un “istinto” criminale, per cui un individuo può indifferentemente essere
onesto o delinquere, optando per una delle due alternative esclusivamente sulla
base di un calcolo oggettivo di convenienza personale) la probabilità di
commettere un reato dipende da un semplice calcolo di utilità fra costo e
beneficio. Formalmente:
Oj = f(pj, fj) –
f(uj),
dove 0 è il numero dei reati
commessi da una persona in un particolare periodo j, p la probabilità di essere
individuato, arrestato e condannato per quel reato, f la sanzione prevista per
quel reato, e u una variabile che cumula i benefici personali legati alla
commissione di un reato, monetizzati. L’incremento del numero di reati nel
tempo è quindi dato dalla differenza fra le derivate prime della funzione di
costo e di quella di utilità in funzione del tempo, laddove la probabilità di
essere individuato e la gravità della sanzione agiscono da freno. Di
conseguenza, a parità di probabilità di arresto (quindi pj diviene una costante)
la variazione nel tempo del numero di reati commessi da un individuo è
semplicemente la differenza fra la severità della pena e l’utilità marginale
ottenuta dalla commissione del reato. In tal senso, eguagliando a zero tale
funzione, è possibile stabilire l’entità della pena in misura beccarianamente
proporzionale all’utilità marginale ritratta dal reato. Non siamo,
evidentemente, in grado di calcolare esattamente, in termini monetari,
l’utilità personale associata a ciascun reato commesso, anche perché si entra
nei limiti metodologici ed applicativi tipici di ogni teoria marginalista (se
gli individui non sono tutti uguali, cioè se la loro funzione individuale di
utilità non è la stessa, si cade in una sorta di versione criminologica del
teorema dell’impossibilità di Arrow, per cui la particolare scelta sociale di
determinazione della “pena” giusta rispetto ad un determinato reato diviene più
o meno parzialmente arbitraria, o comunque oscillante entro margini di
confidenza).
Inoltre, nel modello di Becker,
che si sviluppa dalle concezioni marginalistiche già presenti in Beccaria, si
ipotizza che un individuo non è necessariamente un criminale per vocazione,
ambiente familiare o sociale di estrazione o inclinazione soggettiva personale,
e che determina il suo livello di criminalità sulla base di una decisione
razionale perfettamente informata.
In altri termini, stiamo parlando
del criminale freddo, intelligente, razionale e pronto a cambiare le sue
abitudini qualora i termini del trade-off fra disutilità della punizione ed
utilità del reato si modificassero. Tale criminale, quindi, al netto dei limiti
del modello, risente della severità della pena per cui, tendenzialmente,
rendere meno gravoso il sistema, eliminando l’ergastolo, diverrebbe un
incentivo a delinquere maggiormente. Nel caso del criminale irrazionale, che
delinque per vocazione, inclinazione soggettiva, se non problemi mentali o di
disadattamento sociale cronico, o nei casi in cui il contesto ambientale
particolarmente degradato spinge ad una sorta di delinquenza “coatta”, come
strumento per una integrazione comunitaria impossibile per vie legali (si pensi
agli studi di Cohen sulle gang giovanili) evidentemente la severità della pena
non ha nessuna influenza sul tasso di commissione di reati.
In un caso (criminale razionale
che plasma il suo comportamento su una scelta fra costi e benefici) la severità
della pena è un elemento deterrente rispetto all’incremento del tasso di
criminalità, e ciò va a favore di pene anche molto severe, come l’ergastolo.
Nell’altro caso, quello della criminalità non razionale o indotta dal contesto
sociale e culturale, tale parametro è ininfluente sul tasso di criminalità, e
quindi la scelta fra inserire o meno l’ergastolo nel sistema penale dipende da
altri fattori, quali la possibilità di rieducare e reinserire socialmente il
condannato. Tale possibilità, come si è visto, è estremamente difficile già per
detenuti che hanno commesso reati ben meno gravi e dannosi in termini di
immagine sociale rispetto a coloro che vengono condannati all’ergastolo
ostativo, e comporta costi economici rilevanti. E lo è ancor di più per
criminali che non informano i loro comportamenti a scelte razionali fra
disutilità ed utilità, ma ad inclinazioni soggettive o socio-culturali, particolarmente
difficili a eradicare in un eventuale tentativo di rieducazione e reinserimento
degli stessi.
In un caso e nell’altro, quindi,
non si vede il motivo per eliminare l’ergastolo ostativo dall’ordinamento
penale del nostro Paese. Esso fornisce, per una categoria di criminali, un
deterrente a delinquere maggiormente e, per un’altra categoria, una sua
eventuale abolizione non produrrebbe effetti apprezzabili sul tasso di
criminalità generale. Quindi, sembra che l’ergastolo possa perlomeno operare da
deterrente per una parte del mondo criminale, quello di superiore razionalità,
e quindi avere un effetto, per quanto parziale.
Conclusione
La proposta di abolire
l’ergastolo ostativo, basata su rilievi costituzionali ripetutamente respinti
dalla Corte Costituzionale, non sembra preludere ad efficaci azioni di
reinserimento sociale dei condannati a tale pena, perché i programmi a ciò
destinati sembrano avere una efficacia decrescente al crescere della gravità
del reato commesso, e si inseriscono in un contesto di efficacia modesta e
selettiva rispetto al tasso di recidiva, anche in ragione delle loro
caratteristiche (ad esempio, il fatto che manchino programmi di prevenzione
estesi rispetto alla prima infanzia, età particolarmente critica nella
formazione della personalità criminale cronica).
D’altra parte, detta abolizione
avrebbe un effetto incentivante sulla fascia più razionale e calcolatrice della
criminalità, mentre non avrebbe effetti su quella più soggettiva o istintiva.
In ultima analisi, non sembrano
esserci ragioni fondate per proporre l’abolizione dell’ergastolo, che peraltro
riguarda un’area particolarmente dura, non collaborativa rispetto alle
possibilità di recupero sociale e numericamente decrescente della popolazione
carceraria. Il tutto sembra inscriversi dentro una visione demagogica e non
accettabile dei temi legati alla giustizia.
[1] Lanotte
F., “La recidiva”, tesi di laurea presso l’Università di Torino, aa 2014/2015
[2] Human Foundation, 2017
[3] Moffitt,T. E. (1993).”Adolescence-limited
and life-course persistent antisocial behaviour: a developmental taxonomy”.
Psychological Review, 100, 674–701
[4] WITTE, A.D., Estimating the
economic model of crime with individual data, in "Quarterly journal of
economics", 1980,
XCIV,
1, pp. 57-84
[5] Clarke, R.V., & Cornish, D. B.
(1985). Modeling offenders’decisions: A framework for research and policy. In
M. Tonry & N. Morris (Eds.), Crime and justice: An annual review of
research (Vol. 6, pp. 147–185). Chicago: University of Chicago Press.