giovedì 8 febbraio 2018

L’abolizione dell’ergastolo: serve o no?


Introduzione

Il programma elettorale di Potere al Popolo, nella parte relativa alla giustizia, espone due proposte destinate a far riflettere: l’abolizione del 41 Bis e della pena dell’ergastolo. La discussione sul 41 bis andrebbe fatta separatamente, e dovrebbe partire da un esame del conseguimento del suo obiettivo originario (ovvero quello di isolare completamente il mafiosa dal suo ambiente, anche carcerario, di riferimento) che è ampiamente fallito (non solo i boss al 41 bis sono riusciti ad elaborare metodi per continuare a comunicare all’esterno, ma addirittura hanno usato alcune caratteristiche dello stesso regime, come la sorveglianza video e audio, per incrementare la loro capacità di inviare messaggi all’esterno) e dalla sostenibilità di un regime detentivo chiaramente inumano.
L’obiettivo di questo articolo è invece quello di discutere della proposta di abrogazione dell’ergastolo, anche di quello ostativo, ovvero di quello che non prevede nessuna possibilità di beneficio giudiziario. Tale tipologia di ergastolo riguarda esclusivamente condannati per delitti di terrorismo, eversione con atti violenti, omicidio con aggravante mafiosa, associazione mafiosa o associazione a delinquere che, in assenza di pentimento e collaborazione con la giustizia, siano finalizzate ad uno o più dei seguenti reati: sequestro di persona, contrabbando, traffico di stupefacenti, riduzione in schiavitù, tratta di persone, sfruttamento della prostituzione minorile, pornografia minorile, atti sessuali con minorenne, violenza sessuale singola o di gruppo. Per i reati associativi a sfondo sessuale, la revoca dell’aggravante ostativa può essere fatta solo a seguito di positivo esame scientifico della personalità.
Si tratta insomma di una pena comminata per reati gravissimi, commessi in forma associata (mafiosa, criminale o terroristica che essa sia), senza pentimento successivo, ed in alcuni casi in presenza di una diagnosi psichiatrica di pericolosità sociale o di grave devianza della personalità. Stiamo quindi parlando di una quota molto minoritaria della popolazione carceraria (all’incirca un migliaio di casi, circa il 3% del totale dei detenuti a seguito di condanna definitiva) tra l’altro di età media avanzata (si tratta in larga maggioranza di esponenti mafiosi della vecchia guardia e di ciò che resta dello zoccolo irriducibile del terrorismo degli anni Settanta ed Ottanta) e quindi in riduzione ed in via di sparizione. Gli altri ergastolani, che hanno commesso delitti molto gravi, ma senza l’aggravante mafiosa, associativa, eversiva o terroristica, dopo i primi 20 anni di carcerazione iniziano a beneficiare di permessi premio, poi di semilibertà e di libertà condizionale, talché per loro non si può nemmeno parlare di ergastolo in senso stretto. Il punto della questione ruota quindi attorno a quel migliaio di criminali di altissimo livello condannati al “fine pena mai”.

L’ergastolo e la funzione rieducatrice della pena

La presunta base giustificativa della proposta di abolire l’ergastolo ostativo (peraltro più volte bocciata dalla Corte Costituzionale nei numerosi casi in cui si è sollevata una presunta incostituzionalità dell’ergastolo) risiederebbe nel dettato dell’articolo 27 della Costituzione, per il quale “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Si tratta però, esplicitamente, di una previsione tendenziale, e l’articolo della Costituzione in questione, come peraltro specificato dalla Corte Costituzionale, va interpretato nei termini di un disegno complessivo del sistema delle pene tale da essere orientato alla rieducazione. Rieducazione, peraltro, che per essere tale deve godere della collaborazione del reo. Chi non vuole o non è nelle condizioni mentali per essere rieducato non può esserlo. E’ difficile pensare che un terrorista irriducibile, un mafioso indisponibile a collaborare con la giustizia, chi ha partecipato ad associazioni criminali finalizzate a reati sessuali contro minori, senza dissociarsi o con una diagnosi psichiatrica di grave disturbo mentale, possano essere nelle condizioni di essere rieducati e reinseriti nella società.
Occorre peraltro considerare che il reinserimento nella società è, in Italia come altrove, già di per sé gravemente compromesso per detenuti che hanno commesso reati meno “invalidanti”, dal punto di vista della loro accettabilità sociale, rispetto a quelli degli ergastolani a titolo definitivo. Il tasso di recidiva, calcolato con la percentuale di detenuti aventi già sulle spalle una precedente carcerazione sul totale dei detenuti è, nel 2012, pari al 67% (Lanotte, 2015[1]). Nel 2016, il 55% dei condannati in via definitiva in sede penale ha già precedenti penali. Con ciò non si vuole affatto sminuire il ruolo dei programmi di reinserimento e di alternatività rispetto alla detenzione, molto importanti in termini di riduzione della recidiva (il tasso di recidiva fra i beneficiari di programmi di reinserimento in Italia passa dal menzionato 67% al 19%) e di riduzione del costo (un detenuto costa, in Italia, 125 euro al giorno, alcune esperienze di successo, come il programma di reinserimento sociale per i minori detenuti a Rikers Island, New York, ha abbattuto il costo di gestione del carcere minorile da 35 a 30 milioni di dollari)[2]. Ciò che si vuole dire, piuttosto, è che non è possibile trattare l’intera popolazione carceraria come un unicum omogeneo: se un ladro o un piccolo truffatore possono essere reinseriti in modo relativamente facile, altra questione è quella di lavorare sul reinserimento di un boss mafioso o di un terrorista non pentito. In tali casi, vi è il rifiuto “a priori” della comunità legale dentro la quale si dovrebbe essere reinseriti, perché si appartiene indissolubilmente ad una comunità criminale, e l’ergastolo può dare spazi ad una liberazione futura solo qualora tale appartenenza si dissolva con la dissociazione ed il pentimento (ricordiamo che l’ergastolo vero e proprio, quello ostativo, è, nel nostro ordinamento, comminabile solo in caso di delitti correlati a vincoli criminali di tipo associativo, e non individuale).
In altri termini, i programmi di reinserimento sociale sono efficaci, ma se utilizzati in forma selettiva. Non possono funzionare bene per tutte le categorie di detenuti. Già la differenza fra il tasso di recidiva, che è del 67% se calcolato sui detenuti negli istituti carcerari (cioè sulla quota potenzialmente più pericolosa dei condannati, quella in cui, al netto di casi singoli di tipo diverso, vi è quell’area che ha commesso reati così gravi da precludersi la possibilità di usare canali di pagamento del proprio debito con la giustizia diversi dal carcere) e del 55% se calcolato sui condannati in via definitiva (fra i quali molti, per i reati meno gravi, scontano sanzioni diverse da quella detentiva) tende ad evidenziare come la tendenza alla recidività sia particolarmente acuta nella frangia più dura e più gravemente compromessa dei rei. Sembrerebbe, cioè, che la tendenza a ripetere i reati cresca al crescere della gravità della pena, il che confermerebbe l’ipotesi per la quale la fascia dei criminali più dura, quella condannata all’ergastolo ostativo, sarebbe particolarmente difficile da reinserire, ove l’ergastolo venisse abolito e vi fosse la possibilità di una liberazione, anche parziale o condizionale.
Peraltro, è interessante notare come il tasso di recidiva negli USA, particolarmente alto (oscillante fra il 70% e l’80%, a seconda delle misurazioni) dipenda da un taglio dei programmi di reinserimento e di prevenzione destinato essenzialmente alla popolazione adulta, ignorando del tutto la popolazione in età infantile. Ci sono evidenze empiriche forti a sostegno della tesi che la personalità criminale si formi nei primi anni di vita, specialmente la personalità criminale cronica, quella irriducibile (Moffitt, 1993)[3]. Se così è, i criminali cronici, quelli che più facilmente finiscono all’ergastolo, non possono più essere recuperati efficacemente con programmi di reinserimento effettuati quando oramai sono in età adulta, e la loro personalità socialmente patologica è oramai del tutto strutturata.

L’abolizione dell’ergastolo ha effetti sul tasso di criminalità generale?

Se, quindi, la tematica della rieducazione individuale è poco utilizzabile per sostenere l’abrogazione totale della pena dell’ergastolo, si potrebbe opinare che detta abolizione possa condurre ad un “alleggerimento” delle condotte criminali, sulla base del principio che chi sa di aver commesso un reato tale da comportare l’ergastolo in caso di cattura, sarà maggiormente determinato a delinquere ulteriormente, fino al suo arresto, non avendo più molto da perdere. Tuttavia, la ricerca criminologica va nella direzione opposta. L’ispirazione dell’articolo 27 della Carta è chiaramente basata sulle teorie del Beccaria (uno dei padri della criminologia), poiché richiama concetti di umanità e rieducazione nell’applicazione delle pene. Ma Beccaria non era affatto ostile al carcere a vita (che considerava esplicitamente superiore rispetto alla pena di morte). La sua base teorica si fondava sulla proporzionalità fra la pena la gravità del reato, onde evitare pene aberranti o eccessive rispetto al fatto che è stato commesso, e laddove tale proporzionalità si deve computare sulla base del danno (economico, civile e morale) subito dalla società, del vantaggio personale conseguito dal reo dalla consumazione del reato e dalla forza di deterrenza necessaria per far cambiare idea a chi pensasse di commettere quel reato: “perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico”.
Tale concezione del Beccaria è essenzialmente condizionata dall’utilitarismo benthamiano, per cui la disutilità legata alla pena deve eguagliare, e non superare, l’utilità individuale connessa al compimento del reato. Da tale concezione fondamentale, che ha ispirato i sistemi giudiziari democratici, sono nate due scuole criminologiche fondamentali: la prima, la cosiddetta scuola della deterrenza, è fondamentalmente ispirata all’idea per cui il comportamento criminale tenderebbe a variare rispetto a un aumento della probabilità e severità della punizione. Tale scuola ha riscontri empirici controversi, ma a volte positivi. Ad esempio, dopo uno studio longitudinale di tre anni di osservazione  su un gruppo di 641 maschi con 32 anni di età media dopo la loro uscita dal carcere, Witte (1980)[4] osservava che tra delinquenti ad alto rischio (condanne precedenti e carcere, disoccupazione, alcol) il fattore che più degli altri riduceva la probabilità di commettere nuovi reati era proprio la condanna precedente e il timore del carcere. Analisi condotte su campioni di criminali in attività e “redenti” evidenziano come essi tendano ad adottare modelli comportamentali influenzati da fattori quali la severità della pena cui potrebbero andare incontro (Clark e Cornish, 1985)[5]. Altre ricerche raggiungono risultati ambigui. In particolare, l’ampio filone della ricerca statunitense sugli effetti della pena di morte rispetto al tasso di criminalità generale non conduce a risultati conclusivi rispetto alla validità della teoria della deterrenza.
Più generale rispetto alla teoria della deterrenza, per quanto inscritta dentro le ipotesi generali della teoria utilitaristica neoclassica, è la teoria della scelta razionale elaborata da Gary Becker. Sotto una serie di ipotesi per la verità molto forti (completa informazione, perfetta razionalità del soggetto, assenza di una “vocazione” o di un “istinto” criminale, per cui un individuo può indifferentemente essere onesto o delinquere, optando per una delle due alternative esclusivamente sulla base di un calcolo oggettivo di convenienza personale) la probabilità di commettere un reato dipende da un semplice calcolo di utilità fra costo e beneficio. Formalmente:
Oj =  f(pj, fj) –  f(uj),
dove 0 è il numero dei reati commessi da una persona in un particolare periodo j, p la probabilità di essere individuato, arrestato e condannato per quel reato, f la sanzione prevista per quel reato, e u una variabile che cumula i benefici personali legati alla commissione di un reato, monetizzati. L’incremento del numero di reati nel tempo è quindi dato dalla differenza fra le derivate prime della funzione di costo e di quella di utilità in funzione del tempo, laddove la probabilità di essere individuato e la gravità della sanzione agiscono da freno. Di conseguenza, a parità di probabilità di arresto (quindi pj diviene una costante) la variazione nel tempo del numero di reati commessi da un individuo è semplicemente la differenza fra la severità della pena e l’utilità marginale ottenuta dalla commissione del reato. In tal senso, eguagliando a zero tale funzione, è possibile stabilire l’entità della pena in misura beccarianamente proporzionale all’utilità marginale ritratta dal reato. Non siamo, evidentemente, in grado di calcolare esattamente, in termini monetari, l’utilità personale associata a ciascun reato commesso, anche perché si entra nei limiti metodologici ed applicativi tipici di ogni teoria marginalista (se gli individui non sono tutti uguali, cioè se la loro funzione individuale di utilità non è la stessa, si cade in una sorta di versione criminologica del teorema dell’impossibilità di Arrow, per cui la particolare scelta sociale di determinazione della “pena” giusta rispetto ad un determinato reato diviene più o meno parzialmente arbitraria, o comunque oscillante entro margini di confidenza).
Inoltre, nel modello di Becker, che si sviluppa dalle concezioni marginalistiche già presenti in Beccaria, si ipotizza che un individuo non è necessariamente un criminale per vocazione, ambiente familiare o sociale di estrazione o inclinazione soggettiva personale, e che determina il suo livello di criminalità sulla base di una decisione razionale perfettamente informata.
In altri termini, stiamo parlando del criminale freddo, intelligente, razionale e pronto a cambiare le sue abitudini qualora i termini del trade-off fra disutilità della punizione ed utilità del reato si modificassero. Tale criminale, quindi, al netto dei limiti del modello, risente della severità della pena per cui, tendenzialmente, rendere meno gravoso il sistema, eliminando l’ergastolo, diverrebbe un incentivo a delinquere maggiormente. Nel caso del criminale irrazionale, che delinque per vocazione, inclinazione soggettiva, se non problemi mentali o di disadattamento sociale cronico, o nei casi in cui il contesto ambientale particolarmente degradato spinge ad una sorta di delinquenza “coatta”, come strumento per una integrazione comunitaria impossibile per vie legali (si pensi agli studi di Cohen sulle gang giovanili) evidentemente la severità della pena non ha nessuna influenza sul tasso di commissione di reati.
In un caso (criminale razionale che plasma il suo comportamento su una scelta fra costi e benefici) la severità della pena è un elemento deterrente rispetto all’incremento del tasso di criminalità, e ciò va a favore di pene anche molto severe, come l’ergastolo. Nell’altro caso, quello della criminalità non razionale o indotta dal contesto sociale e culturale, tale parametro è ininfluente sul tasso di criminalità, e quindi la scelta fra inserire o meno l’ergastolo nel sistema penale dipende da altri fattori, quali la possibilità di rieducare e reinserire socialmente il condannato. Tale possibilità, come si è visto, è estremamente difficile già per detenuti che hanno commesso reati ben meno gravi e dannosi in termini di immagine sociale rispetto a coloro che vengono condannati all’ergastolo ostativo, e comporta costi economici rilevanti. E lo è ancor di più per criminali che non informano i loro comportamenti a scelte razionali fra disutilità ed utilità, ma ad inclinazioni soggettive o socio-culturali, particolarmente difficili a eradicare in un eventuale tentativo di rieducazione e reinserimento degli stessi.
In un caso e nell’altro, quindi, non si vede il motivo per eliminare l’ergastolo ostativo dall’ordinamento penale del nostro Paese. Esso fornisce, per una categoria di criminali, un deterrente a delinquere maggiormente e, per un’altra categoria, una sua eventuale abolizione non produrrebbe effetti apprezzabili sul tasso di criminalità generale. Quindi, sembra che l’ergastolo possa perlomeno operare da deterrente per una parte del mondo criminale, quello di superiore razionalità, e quindi avere un effetto, per quanto parziale.

Conclusione

La proposta di abolire l’ergastolo ostativo, basata su rilievi costituzionali ripetutamente respinti dalla Corte Costituzionale, non sembra preludere ad efficaci azioni di reinserimento sociale dei condannati a tale pena, perché i programmi a ciò destinati sembrano avere una efficacia decrescente al crescere della gravità del reato commesso, e si inseriscono in un contesto di efficacia modesta e selettiva rispetto al tasso di recidiva, anche in ragione delle loro caratteristiche (ad esempio, il fatto che manchino programmi di prevenzione estesi rispetto alla prima infanzia, età particolarmente critica nella formazione della personalità criminale cronica).
D’altra parte, detta abolizione avrebbe un effetto incentivante sulla fascia più razionale e calcolatrice della criminalità, mentre non avrebbe effetti su quella più soggettiva o istintiva.
In ultima analisi, non sembrano esserci ragioni fondate per proporre l’abolizione dell’ergastolo, che peraltro riguarda un’area particolarmente dura, non collaborativa rispetto alle possibilità di recupero sociale e numericamente decrescente della popolazione carceraria. Il tutto sembra inscriversi dentro una visione demagogica e non accettabile dei temi legati alla giustizia.




[1] Lanotte F., “La recidiva”, tesi di laurea presso l’Università di Torino, aa 2014/2015
[2] Human Foundation, 2017
[3] Moffitt,T. E. (1993).”Adolescence-limited and life-course persistent antisocial behaviour: a developmental taxonomy”. Psychological Review, 100, 674–701
[4] WITTE, A.D., Estimating the economic model of crime with individual data, in "Quarterly journal of economics", 1980,
XCIV, 1, pp. 57-84
[5] Clarke, R.V., & Cornish, D. B. (1985). Modeling offenders’decisions: A framework for research and policy. In M. Tonry & N. Morris (Eds.), Crime and justice: An annual review of research (Vol. 6, pp. 147–185). Chicago: University of Chicago Press. 

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