sabato 30 settembre 2017

Immigrati e violenze sessuali: cosa dice la criminologia



Interpretazione e limiti delle statistiche criminali

Si fa un gran parlare, a livello giornalistico e politico, delle diverse propensioni di italiani ed immigrati a compiere reati sessuali. Il tema è stato ulteriormente alimentato dall’uscita recente di dati del Viminale e dell’Istat, secondo i quali nei primi sei mesi del 2017 le violenze sessuali denunciate all’Autorità Giudiziaria o per le quali è avvenuto un arresto sarebbero 2.438. Di queste,  1.534 denunciati sarebbero italiani e 904 sarebbero gli stranieri. Divisione rimasta anche questa pressoché invariata rispetto all'anno precedente, quando gli stranieri furono 909 e i nostri concittadini 1.474. Evidentemente, tali dati, se rapportati alla consistenza delle due popolazioni, quella italiana (60 milioni) e quella straniera (6 milioni, compresa una stima degli irregolari) disegnano una preoccupante incidenza di tale reato specificamente per gli immigrati: 1,5 per 10.000 abitanti, a fronte di 0,3 per 10.000 abitanti per il segmento italiano.

La questione però è molto più complessa, ed i dati ci aiutano solo fino ad un certo punto. Il fenomeno delle violenze sessuali è infatti in larghissima misura sommerso: si stima che solo il 7% degli eventi venga denunciato, rimanendo segreto soprattutto nell’ambito delle violenze subite in famiglia, che possono evidentemente riguardare famiglie italiane come anche straniere. Inoltre, evidentemente, i dati statistici sulle denunce (cui può seguire un arresto per fermo di P.G. convertito dal GIP in custodia cautelare in attesa del processo) non misurano l’effettiva colpevolezza, perché  la denuncia può essere archiviata o finire in una assoluzione.

Inoltre, la criminologia, specie statunitense, ha frequentemente indicato come gli immigrati siano discriminati nella fase della selezione nei controlli e nelle indagini sommarie da parte degli organi di polizia. Evidentemente, se un determinato sottogruppo viene monitorato con maggiore attenzione da parte delle forze di polizia, è più probabile che finisca per generare una maggiore incidenza di reato, di qualsiasi reato, ivi compresi quelli sessuali. Con particolare riferimento all’immigrazione latinoamericana negli USA, Warnshuis (1931) notò che un numero sproporzionato di immigrati latinoamericani venivano arrestati per “condotta non disciplinata”, un reato molto vago, usato solo per “tenerli sotto controllo”. Samora (1971) evidenziò come le Border Partol modificassero nel tempo la severità nei confronti dei chicanos immigrati, in funzione del ciclo politico-elettorale o della situazione economica dello Stato in cui operavano. Secondo una ricerca della Pew Hispanic Center (2004) si evidenzia una crescita dei controlli di polizia specificamente destinati alle aree a maggior concentrazione di immigrati latinos. In Italia, le ricerche sul tema sono scarse. Però Barbagli (2002) sottolinea che “da più parti è stata avanzata l’ipotesi che le forze dell’ordine e la magistratura operino selettivamente nei confronti degli immigrati o per dare una risposta alla domanda di sicurezza proveniente dall’opinione pubblica o perché in queste due istituzioni sarebbero diffusi forti pregiudizi contro le minoranze etniche”. Pochi dati empirici: Verde e Bagnara (1989), focalizzandosi sulla criminalità minorile, segnalano che le sentenze emesse contro minori stranieri tendano ad essere più penalizzanti rispetto a quelle emesse, per gli stessi reati, nei confronti degli italiani. Palidda (1991) scopre che vi è una maggiore propensione, da parte della polizia, a fermare stranieri per controlli quando sono a piedi (e quindi non per motivi legati al traffico o al codice della strada). Inoltre, poiché nel dato del Viminale succitato si ricomprendono anche gli arrestati, lo stesso Barbagli fa notare come nei confronti degli stranieri, anche per motivi legati all’incertezza della loro residenza, si tenda maggiormente ad applicare la custodia cautelare in carcere.

Tali limiti nei dati sembrano particolarmente importanti nel caso dello stupro: le donne italiane vittime di questo reato, quando è stato compiuto da uno straniero, hanno proceduto alla denuncia nel 24,7% dei casi (e negli altri casi hanno ammesso di non aver sporto denuncia). Quando hanno subito lo stesso reato da parte di un italiano, hanno denunciato soltanto nel 4,4% dei casi (Istat, 2014). Lo stesso vale per il tentato stupro: gli autori italiani sono stati denunciati nel 2,2% dei casi, mentre gli stranieri nel 17,8%. La sproporzione è enorme, e si spiega in parte con il fatto che lo stupro il cui autore sia un italiano viene tipicamente consumato in famiglia o sul luogo di lavoro, per cui la donna ha paura di denunciare un parente prossimo/datore di lavoro o collega. Viceversa, lo stupratore straniero tende più frequentemente ad essere un estraneo, per il quale la tendenza a denunciare è meno vincolata alla paura. Evidentemente, a maggior propensione di denuncia a carico dello straniero, corrisponde una maggiore incidenza del reato a livello di statistiche penali. Ma ciò non implica necessariamente che lo straniero abbia maggiore propensione a delinquere. Semplicemente, che corre più rischi di denuncia rispetto all’italiano, per il medesimo reato.

Gli schemi concettuali della criminologia

 Insomma, affidarsi ai dati statistici per evincere una presunta maggiore tendenza delinquenziale degli immigrati rispetto agli autoctoni può essere, almeno parzialmente, fuorviante. Per spiegare la maggiore incidenza della criminalità sessuale fra gli stranieri è stato usato il concetto di “reato culturalmente motivato” (Basile, 2010; Bernardi, 2010; de Maglie, 2010). Secondo tale concetto, lo straniero sarebbe “motivato” a commettere un reato nel Paese di accoglienza, perché nella sua cultura di provenienza esso configura un comportamento non grave, tollerato, se non addirittura incentivato. Tale concetto è, però, piuttosto scivoloso ed ambiguo, e non è chiaro come dovrebbe essere integrato dentro il sistema penale italiano. Da un lato, infatti, se si scende sul crinale della giustificabilità culturale di un reato, perché mai fermarsi ad una giustificazione puramente etnico-nazionale? Qualsiasi sottogruppo (ivi compresi quelli criminali, ivi comprese le ‘Ndrine calabresi) è infatti portatore di una sua sottocultura, che giustifica anche atti che, per la maggioranza degli abitanti, sono inaccettabili. D’altro lato, è ipotizzabile inserire dentro il sistema penale una attenuante specifica per “culturalità”? Intanto per quali reati? La de Maglie ipotizza che la culturalità possa essere considerata attenuante soltanto fino a quando non vada a ledere le “immunità fondamentali” (il diritto alla vita, all’integrità fisica e psicologica, alla proprietà, ecc.). Ma anche le immunità fondamentali sono, per certi versi, legate ad un certo assetto culturale. Sembra quindi molto difficile rinnegare la necessità di mantenere una logica assimilazionistica nel diritto penale del Paese di accoglienza, per cui è l’immigrato, opportunamente aiutato da mediazioni culturali efficaci, a doversi adattare al diritto penale vigente, senza pretendere improbabili attenuanti culturali rispetto ai reati eventualmente commessi. L’assimilazionismo dovrebbe, a  mio parere, riguardare l’intera materia penale, dalle questioni più gravi ed inaccettabili (si pensi all’infibulazione) fino  a quelle solo apparentemente secondarie, ma che in realtà colpiscono alcuni  fondamenti del nostro vivere civile, come il diritto ad usare il proprio corpo (si pensi all’obbligo imposto, quindi non alla libera volontà, dell’uso del burkha).

Infine, al netto delle questioni del rapporto fra cultura e codice penale, l’ipotesi di sostituzione, ovvero l’ipotesi che, con un flusso migratorio, gli immigrati si sostituiscano agli autoctoni nella commissione di un reato è, in questo caso specifico, da escludere: la violenza su donne più grave, ovvero l’omicidio volontario, viene perpetrata, nel 73% dei casi, dal partner o altro parente, quindi nell’ambito della famiglia. E le famiglie miste fra italiani e stranieri sono ancora un fenomeno troppo poco diffuso per ipotizzare una sostituzione in tale tipologia di reato, squisitamente familiare.

E’ quindi ragionevole ipotizzare che la più alta frequenza di violenza sessuale a carico di immigrati sia spiegabile, oltre che con fenomeni di maggiore propensione alla denuncia/maggiore severità e monitoraggio da parte degli apparati di sicurezza e giudiziari, che gonfiano i dati statistici, anche con specifici strumenti concettuali elaborati dalla sociologia applicata in ambito criminale. In particolare, mi riferisco alle teorie del conflitto culturale elaborate sin dalla scuola di Chicago degli anni Venti. Tale ventaglio di teorie spiega la maggior devianza in termini di disagio sociale ed economico di sottogruppi, fra i quali gli immigrati, in vari modi. Ad esempio, Merton sottolinea lo iato (da lui chiamato “anomia”) esistente fra una cultura che spinge al successo individuale e l’assenza, per determinati gruppi svantaggiati, dei mezzi per poter raggiungere quell’ideale, con il risultato che le regole formali che la società elabora come vie legittime per il successo perdono credibilità, incentivando comportamenti devianti. Cohen, nella sua teoria delle sottoculture (inizialmente elaborata per lo studio delle gang giovanili, ma adattabile a qualsiasi sottogruppo minoritario, ivi compresi gli immigrati, spiega la nascita di una sottocultura deviante come risposta all’incapacità/impossibilità di adattarsi alle norme sociali dominanti, fornendo ai membri di quella sottocultura tutti i vantaggi, in termini di integrazione, riconoscimento, autostima e protezione, che la mancata integrazione con la cultura dominante non riesce a fornire loro.

Nell’accezione di Sellin, la più interessante per lo studio della criminalità degli immigrati,  tale filone teorico si traduce nell’idea che fra autoctoni e immigrati si viene a creare un conflitto culturale nel momento in cui tali gruppi vivono in aree contigue o omogenee (fenomeno della frontiera), la cultura dominante della maggioranza viene imposta alla minoranza e gli immigrati conservano le norme culturali e comportamentali del Paese di origine, senza essere disponibili a modificarle, se non superficialmente. In questa situazione, si genera inevitabilmente un conflitto culturale che può, in un certo senso, “ideologizzare” fenomeni di criminalità comune, quali forme di ribellione alla società ospitante, le cui norme non sono accettate e sono vissute come imposizioni. Il contributo di Sellin è prezioso per capire fenomeni cui assistiamo recentemente, quali la radicalizzazione islamica di giovani immigrati di seconda o terza generazione che, pur essendo oramai cittadini del Paese in cui vivono, si fanno reclutare dall’Isis. Secondo Sellin, gli immigrati di seconda o successiva generazione vivono un conflitto culturale specifico: essi hanno oramai perso l’attaccamento ai valori culturali tradizionali del Paese di origine dei genitori o dei nonni, ma non riescono ad integrarsi nel sistema valoriale del Paese in cui oramai vivono. Ne consegue che si ritrovano in una “terra di mezzo”, nella quale, per ricostituire una vecchia identità oramai perduta, a fronte di una nuova mai acquisita, possono avere tendenza a scimmiottare, estremizzandola e/o idealizzare una identità tradizionale che non hanno mai conosciuto direttamente. Tale conflitto culturale primario, endogeno alla psiche dell’individuo, può essere esacerbato da un conflitto secondario, nella misura in cui egli viene emarginato sotto il profilo sociale, lavorativo, abitativo (si pensi alla ghettizzazione urbana del modello delle banlieues) ed economico, accentuando in lui il senso di estraniazione e di risentimento per la cultura dominante.

In tutte queste forme di conflitto culturale, che conducono ad anomie, sottoculture, conflitti primari e secondari, la violenza sessuale contro “la donna bianca” può diventare una forma di manifestazione di rifiuto e disprezzo per la cultura dominante e/o di acquisizione di un obiettivo della cultura dominante (stare con una donna bella, non essere soli e “sfigati”) tramite mezzi illeciti (l’anomia mertoniana, appunto). Mentre la violenza sessuale consumata contro le donne della propria comunità etnica una forma, spesso portata all’aberrazione, di difesa dei valori tradizionali ed arcaici della propria società di origine. Il tutto viene aggravato in condizioni di emarginazione socio-economica e di povertà, che fungono da fattori di inasprimento e detonazione dei conflitti culturali strutturalmente presenti, anche solo allo stato latente, fra diversi gruppi sociali o etnici.  

Conclusioni

In conclusione, non è chiara, e non è suffragata dai dati statistici utilizzati per finalità giornalistiche, una presunta “propensione allo stupro” da parte degli immigrati. I modelli simil-lombrosiani che pretenderebbero di predire una sorta di “fattore genetico” innato in determinate popolazioni sono fortunatamente stati sconfitti dall’avanzamento della scienza. Anche chi cita, senza capire bene ciò che dice, una specie di tendenza alla violenza sessuale per sottomissione della donna da parte degli immigrati di fede musulmana, non conosce le leggi severissime che la Sharia prevede per chi, nei Paesi islamici, si azzarda a toccare la donna di un altro. Indubbiamente, i dati statistici forniscono un quadro di maggiore frequenza relativa dei reati di violenza sessuale fra gli immigrati, tuttavia tali differenze potrebbero scaturire da un maggiore selettività in fase di controllo, arresto e processo, da parte degli organi di pubblica sicurezza e della magistratura, a carico degli immigrati. Inoltre, la violenza sessuale sulla donna autoctona può scattare per fattori sottoculturali e di anomia nel tentativo di raggiungere, con mezzi illeciti, obiettivi proposti dalla cultura dominante di accoglienza. Quella sulla donna della propria comunità etnica può invece derivare da una sorta di compensazione allo sradicamento culturale, che conduce ad una estremizzazione, anche violenta, di usi e costumi tradizionali nelle famiglie della propria cultura di origine. Il tutto, ovviamente, senza escludere fattori psicotici personali di deviazione sessuale, che esistono tanto fra gli immigrati quanto fra gli autoctoni.

Questi elementi di conflitto culturale, che in alcune situazioni possono degenerare in reati comuni e violenti, sono tipici di qualsiasi minoranza che ha i mezzi per elaborare una sottocultura, o per preservare una cultura autonoma rispetto a quella dominante. Le degenerazioni criminali di tali conflitti possono scattare per gli immigrati come per le gang giovanili, per gruppi politici minoritari e radicali, per sette religiose, ecc. I fattori scatenanti sembrano essere la prossimità/contiguità di vita con i gruppi a cultura dominante, l’emarginazione socio-economica/la segregazione, l’impossibilità di accedere agli obiettivi proposti dalla cultura dominante con le vie che legittimamente essa offre, l’integrazione con la cultura dominante assume la veste della colonizzazione.


Evidentemente, però, gli studi di Sellin sugli immigrati di seconda e terza generazione dimostrano che esiste un vero e proprio limite all’integrazione, dal momento che l’indebolimento del legame con la cultura di origine non crea una integrazione con la nuova cultura, o una ibridazione delle due, ma una terra di mezzo indefinita e personalmente e collettivamente pericolosa ed esplosiva. Da questo punto di vista, e quali che siano i moventi di un tasso di criminalità degli immigrati superiore a quello degli autoctoni, e anche se non vi sia una reale differenza fra i due gruppi, una selettività ed un filtro rispetto ad una immigrazione di massa diventano elementi fondamentali per preservare un livello di sicurezza basilare per una convivenza normale e nell'interesse degli stessi immigrati già presenti da noi. 

Nessun commento:

Posta un commento