sabato 12 gennaio 2019

Minsky o Keynes?


Con i dati sulla produzione industriale appena pubblicati, è certificato l’ingresso in recessione (per l’economia italiana) ed in stagnazione (per le altre economie dell’area euro). Mentre la grande crisi economica iniziata nel 2008 è facilmente spiegabile con dinamiche di tipo finanziario, quindi con il modello di Minsky, adesso non sembra che vi siano le caratteristiche tipiche di un “Minsky moment”. I valori degli asset finanziari non sembrano in crollo libero dopo una fase di crescita incontrollata. Piuttosto, la causa va ricercata nell’economia reale, e quindi nella spiegazione keynesiana tradizionale del ciclo: ad un determinato momento, la crescita della dotazione di beni capitali e la fluttuazione delle aspettative degli operatori fanno decrescere l’efficienza marginale del capitale, ovvero la redditività attesa dei progetti di investimento. Ciò induce gli operatori economici a ridurre gli investimenti, quindi la domanda aggregata ristagna, e si entra in recessione.
Di elementi che fanno pensare ad una inversione in senso pessimistico delle aspettative degli operatori ne abbiamo assai: i venti protezionistici che spirano da oltre Atlantico, il rallentamento dell’economia cinese, forse alle soglie di una enorme bolla immobiliare, il ritorno a politiche monetarie restrittive sul versante del costo del denaro annunciate, seppur con molta prudenza, dalla Fed,  il possibile rialzo del prezzo del petrolio, dopo una lunga discesa, innescato dai tagli produttivi decisi dall’Opec e dalla Russia, le incertezze perduranti sulla Brexit. 
In effetti, se nel periodo della ripresa post crisi una proxy della redditività del capitale, data dal rapporto fra valore aggiunto e stock di capitale al netto degli ammortamenti, passa dallo 0,25 del 2013 al 0,27 del 2017, è nel 2018 che tale redditività tende a calare. Al terzo trimestre del 2018, infatti, i redditi da capitale sono inferiori del 3,5% rispetto al valore del terzo trimestre dell'anno precedente, innescando una possibiel recessione "keynesiana", cioè interamente spiegabile da fattori reali e non dagli investimenti finanziari.
In queste situazioni, ammonisce Keynes, non è sufficiente far scendere il tasso di interesse con politiche monetarie distensive. Le aspettative pessimistiche degli operatori potrebbero radicarsi al punto tale che, per tornare all’espansione, occorrerebbe una fase lunga di svalutazione dei beni capitali esistenti, al fine di rendere nuovamente necessario investire in nuovi beni capitali. Oppure, come dice, per superare il blocco degli investimenti causato da aspettative negative persistenti, aprire una fase di “socializzazione degli investimenti”, cioè una fase di collaborazione pubblico/privato per riattivare grandi progetti di investimento, su infrastrutture strategiche, opere pubbliche, progetti di ricerca industriale, oppure formazione della manodopera.
Il consiglio che mi sento di dare al Governo attuale è quello di perorare un programma europeo di rilancio degli investimenti, molto più consistente finanziariamente dell’inutile Piano Juncker, anche rilanciando l’idea, abortita per l’opposizione tedesca, di raccogliere risorse sul mercato tramite eurobond, estromettendo alcune categorie strategiche di investimento (ad esempio quelle in R&S) dal calcolo del saldo strutturale di bilancio valido per il Six Pack. Il nuovo ingresso in recessione, che si annuncia generalizzato per tutti i Paesi euro, anche per la Germania, potrebbe rendere la Merkel e gli altri più disponibili ad ascoltare, rispetto ad un passato nel quale si illudevano di poter scaricare il peso del ciclo negativo sulle economie euromediterranee. Il M5S abbandoni le remore ideologiche sui grandi investimenti: non è questo il momento di fare ambientalismo di risulta, o, peggio ancora, filosofeggiare sull’incidenza delle grandi opere sul tasso di corruzione del sistema.
Dovrebbe essere chiaro che una nuova recessione, che segue a breve la grande crisi 2008-2015, darebbe il colpo di grazia alle economie europee, il cui livello di domanda aggregata è ancora debole, e la situazione finanziaria delle imprese e del sistema bancario è ancora molto problematica. Una nuova recessione rischia di far saltare il banco, con danni per tutti.

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