Gli effetti dell'epidemia sul mercato del lavoro, su scala mondiale, sono devastanti. Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO Monitor: COVID-19 and the world of work. Fourth edition, maggio 2020) nel 2020 il numero di ore lavorate nel mondo diminuirà di quasi l'11% rispetto ai livelli pre-crisi, il che equivale ad una scomparsa di circa 305 milioni di posti di lavoro a tempo pieno, che saranno bruciati su scala globale.
Purtroppo, una simile distruzione di lavoro, per i ben noti meccanismi di isteresi della disoccupazione, non sarà recuperabile in breve tempo, quando tornerà la ripresa. I tassi di disoccupazione rimarranno persistentemente più alti dei livelli pre-crisi anche a seguito della prevista ripresa globale del 2021. Secondo il Fmi (World Economic Outlook, aprile 2020), infatti, il tasso di disoccupazione dell'area-euro rimarrà nel 2021 attorno all'8%, dal 6,6% del 2019. Quello statunitense si attesterà al 9%, dal 3,7%, dopo essere schizzato oltre il 10% nel presente anno, il che equivale ad un vero disastro, che probabilmente peserà sulla campagna elettorale per le presidenziali.
Ad essere colpiti saranno soprattutto i giovani, già più fragili per la maggiore concentrazione nei settori produttivi più colpiti dalla crisi (turismo e ristorazione, commercio, manifatturiero, servizi immobiliari ed amministrativi, trasporti e logistica). Ben il 17% di loro, infatti, ha perso il lavoro durante l'epidemia. Alla perdita di lavoro, si associa un altro ingrediente micidiale, ovvero l'interruzione delle attività educative e formative. Percentuali di giovani oscillanti fra l'86% e l'88%, nel mondo sviluppato, segnalano l'interruzione delle attività formative o della istruzione tecnica e professionale durante l'epidemia. La combinazione fra perdita del lavoro e interruzione formativa produrrà un cocktail letale di aumento di giovani tagliati fuori sia dal mercato del lavoro che dalla formazione, i cosiddetti N.E.E.T., un esercito di emarginati perenni, senza gli strumenti per riaccedere all'integrazione socio-lavorativa, che porranno un evidente problema sociale per lunghi anni a venire, stante la loro giovane età.
La tragedia in atto nel mercato del lavoro, legata all'epidemia, in realtà anticipa la pesante riduzione occupazionale innescata dalla rivoluzione tecnologica in atto. Prima della pandemia, infatti, si stimava che la sola diffusione dell'intelligenza artificiale collegata alla robotica avrebbe distrutto 375 milioni di posti di lavoro. Negli Stati Uniti, secondo Frey ed Osborne (The Future of Employment, how susceptible are jobs to computerisation?, Oxford Martin School, 2013), il 47% dei lavoratori è a rischio di perdita del lavoro per i processi di automazione nei prossimi 10-20 anni. Una stima analoga, in una forchetta che arriva sino al 47%, riguarda il mercato del lavoro della Ue. Ed a essere colpite non saranno soltanto le professioni più dequalificate e ripetitive, come si crede. La nuova generazione di macchine avrà la capacità di imparare, seppur entro i limiti del teorema di Goedel (chi pensa a macchine pienamente "umane" nel senso più profondo del termine rimarrà deluso, cfr. R. Achilli, Il turbocapitalismo all'assalto dell'essenza della vita e del'umanità, giugno 2014, su sinistrainrete.info) e minaccerà quindi anche mestieri di medio livello di complessità, come quello di autista, di cassiere di banca, di commesso, di bibliotecario, ecc.
Complessivamente, i settori più coinvolti, in termini di sostituzione di lavoro umano con quello artificiale, saranno gli stessi nei quali sono stati colpiti in misura molto più dura i giovani lavoratori durante la presente epidemia di Covid: la ristorazione ed il turismo, il commercio, la logistica ed i trasporti, i servizi di pulizia ed i servizi alla persona, i servizi amministrativi, le mansioni operaie di bassa e media qualificazione nel manifatturiero.
In sostanza, gli effetti dell'epidemia di Covid stanno anticipando le conseguenze che la rivoluzione cibernetica in atto avrebbe comunque prodotto in un arco temporale di 10 o forse 20 anni. Distruggono posti di lavoro producendo una disoccupazione di lungo periodo, non integralmente riassorbibile nel medio termine, anche se, ovviamente, a lungo termine gli effetti della rivoluzione tecnologica generano nuove professionalità, oggi inimmaginabili, riducendo la disoccupazione tecnologica e ribaltando le prospettive. Ma è chiaro che ciò dipende anche, in modo cruciale, dalla capacità degli occupati attuali di riconvertirsi professionalmente tramite la formazione, il che, però è in contrasto con il prevedibile aumento del bacino globale di N.E.E.T. (un bacino già ampio prima della crisi sanitaria, stimato dall'ILO attorno ai 267 milioni di giovani a livello mondiale) che, come detto, si sta profilando.
Prima che la rivoluzione cibernetica produca effetti strutturali positivi sul mercato del lavoro, dunque, dovremo prepararci necessariamente ad una transizione, in cui le chance di permanenza o di reingresso nel mercato del lavoro saranno fortemente diseguali all'interno delle società più avanzate, come la nostra. I prossimi 10-20 anni vedranno quindi aumentare il bacino degli esclusi permanenti, bruceranno, di fatto, una intera generazione, che si andrà a sommare a quella dei millennials, già provata da precarietà, impoverimento e riduzione delle prospettive esistenziali. E non lo dico io, lo dice la comunicazione sull'intelligenza artificiale della Commissione Europea pubblicata nell'aprile del 2018. Vi si afferma, infatti, che "l’UE deve concentrare gli sforzi sull’aiuto ai lavoratori nelle occupazioni che probabilmente subiranno le maggiori trasformazioni o scompariranno per effetto dell’automazione, della robotica e dell’IA. Ciò significa anche garantire l’accesso di tutti i cittadini, compresi i lavoratori subordinati e autonomi, alla protezione sociale, in linea con il pilastro europeo dei diritti sociali".
Tuttavia, niente viene spiegato in merito al modo in cui, concretamente, dovrà avvenire tale accesso alla protezione sociale. E' infatti di tutta evidenza che la disoccupazione strutturale, generata dal coronavirus prima ancora che l'intelligenza artificiale potesse sortire appieno i suoi effetti, riduce la base contributiva dei sistemi assicurativi contro la disoccupazione e la povertà. A parità di funzionamento dei sistemi di protezione sociale dei diversi Stati, vi saranno meno risorse, quindi prestazioni meno generose (ed ovviamente l'invecchiamento demografico delle società europee aggraverà la situazione). D'altra parte, persino la vocazione liberista della Commissione, quindi inevitabilmente ottimistica circa gli effetti dell'innovazione tecnologica, paventa le conseguenze sociali della progressiva emarginazione di milioni di lavoratori non più utili nei nuovi processi produttivi ("se non affrontato prontamente e in modo proattivo, tale fenomeno potrebbe esacerbare le ineguaglianze tra persone, regioni e settori dell’UE") e, certo, una strategia mirata unicamente alla sia pur indispensabile formazione permanente per riqualificare gli skill dei lavoratori alle nuove tecnologie ed ai nuovi mestieri che esse creeranno non può bastare per ridurre tali potenziali squilibri, senza una parallela azione di tipo assistenziale.
Il rischio è quello di trovarsi precipitati, senza adeguata preparazione, dentro una contraddizione stritolante fra, da un lato, una società nella quale l'identificazione e l'inserimento sociale dell'individuo continuerà a dipendere dalla sua posizione lavorativa, sempre più minacciata per i più deboli ed i meno pronti ad accedere al sistema della formazione di nuove competenze, e, dall'altro, l'inevitabile dato che tale possibilità di ingresso "lavoristico" sarà, almeno per i prossimi 10 o 20 anni, sempre più ridotta. Si rischia seriamente di creare una società neo-comunale in cui i garantiti, coloro che svolgono una professione ad alto livello di ocmpetenze specialistiche e/o di creatività e progettualità, si chiudano dentro le mura della cittadella, mentre milioni di emarginati, deprivati dalla possibilità di accedere alle nuove competenze, premeranno dall'esterno, privati di identità sociale e abbandonati in una landa di miseria esistenziale e morale.
Dentro tale contraddizione strutturale deve trovare posto una proposta di un nuovo socialismo. E' dentro la faglia delle contraddizioni e delle conseguenti sofferenze sociali che il socialismo trova, da sempre, la sua ragion d'essere. Non si può non pensare che, per tenere in piedi la cittadella degli inclusi e il contado degli esclusi, sarà necessario pensare a strumenti di sostegno esistenziale, di tipo monetario, permanenti ed universalistici, accompagnati da strumenti di formazione professionale digitale e cibernetica e di orientamento verso le profesioni nascenti dell'IA, necessari per aprire le porte di quella cittadella. Uno strumento di reddito di cittadinanza accompagnato da percorsi di formazione, qualificazione e riqualificazione professionale, sostenuti fiscalmente dagli abitanti della cittadella, che dovranno sopportare una riduzione del loro benessere per alimentare il contado, prima che il contado, nella disperazione, bruci tutto in una apocalisse luddistica che, come ogni luddismo, non porterà nessun vantaggio nemmeno a chi lo pratica.