Il Governo incassa, come
prevedibile, l’approvazione di un Def 2022 basato su ipotesi macroeconomiche, e
quindi previsioni tendenziali e programmatiche, piuttosto fuori dalla
realtà. In un documento che sembra una favola per bimbi, si stima un andamento
della crescita tendenziale (cioè a politiche invariate[1])
pari al 2,9% nel 2022, al 2,3% nel 2023 ed all’1,8% nel 2024, con il Pil 2025
che dovrebbe poi attestarsi su quella che, con la metodologia dell’output gap,
è considerata la crescita potenziale dell’economia italiana, ovvero l’1,4%, nel
2025 8con ciò ammettendo implicitamente che la spesa del Pnrr non produrrà
alcun “salto” strutturale della crescita italiana verso livelli più alti, ma
solo la difesa della crescita possibile attuale).
Mentre il crollo della produzione
industriale nel primo trimestre ci avvia sulla strada di una imminente
recessione tecnica, il Fmi inizia già a correggere il tiro delle previsioni
governative: il Pil italiano del 2022 non crescerà oltre il 2,3%, ovvero 0,6
punti in meno rispetto alla stima del Mef, e la crescita sarà dell’1,7% nel
2023, anche in questo caso 0,6 punti sotto la stima del Governo. Il tutto in
uno scenario in cui la guerra in Ucraina si fermi nei prossimi mesi facendo
calare significativamente i prezzi dell’energia, non vi siano recrudescenza
pandemiche e le politiche monetarie restino su un sentiero moderatamente
espansivo dal lato dei tassi di interesse. Cioè se si verificherà uno scenario
surreale. Diversamente, le stime saranno necessariamente ancora più basse.
Evidentemente, con le cifre di
quadro macroeconomico sbagliate, il dato tendenziale del disavanzo rispetto al
Pil esposto dal Def è privo di fondamento: il governo prevede una crescita che
non ci sarà, in grado di far scendere il disavanzo tendenziale dal 5,1% del Pil
nel 2022 al 2,5% nel 2025, pur conservando un “tesoretto” pari a mezzo punto di
Pil da destinare a misure espansive nel corso di quest’anno.
Molto più affidabilmente, per
effetti legati alla minore crescita rispetto alla previsione e per i
conseguenti effetti indotti della minor crescita sui conti pubblici, ci
troveremo, nel 2022, con un deficit/Pil (tendenziale) attorno al 6% del Pil
(comunque in discesa dal 7,2% del 2021) ed un debito/Pil (tendenziale) del 148-149%
del Pil, rispetto al 150,8% del 2021.
Se poi nel 2023, insieme
all’abbandono da parte della Bce del programma Pepp a sostegno del servizio del
debito, dovesse essere ripristinato il Patto di Stabilità “as it is” (ma non
c’è troppo da preoccuparsi: persino i falchi olandesi stanno cedendo ad una
ipotesi di rinvio per tutto il 2023 e la Yellen, proprio ieri, in cambio
dell’aiuto italiano al massacro ucraino, ha detto che dal punto di vista suo e
del vecchio zio Joe il Patto di Stabilità va rivisto per rendere più flessibili
le possibilità di fare investimenti) l’Italia andrebbe dritta al default.
Anche perché lo scenario di
debito pubblico da mancanza di gas stimato dal Def, qualora Putin si seccasse
delle nostre continue donazioni di armi agli ucraini, farebbe schizzare il
debito pubblico al 152,6% del Pil nel 2023 (più affidabilmente il 153-154%
considerando i sopra rammentati errori nelle previsioni del Pil), cioè un
livello analogo a quello dell’anno della pandemia. E’ chiaro che i mercati
finanziari trarrebbero le loro conseguenze da un livello di debito/Pil che non
scende nemmeno con il rimbalzo del ciclo del 2021/2022.
Ma come detto, non preoccupiamoci
troppo. A costo di dolorose riforme strutturali, lo stellone si salverà
nuovamente. Vediamo invece gli obiettivi di policy, cioè la componente
programmatica del Def. Il “tesoretto” per il 2022, guadagnato grazie ad una
crescita di fine 2021 superiore alle attese, e pari a mezzo punto di Pil,
dovrebbe essere destinato ad interventi urgenti (ed a impatto zero sul
bilancio, poiché derivanti dall’extracrescita del 2021) per il sostegno a
famiglie ed imprese alle prese con il caro-energia. Nel primo semestre, sono
stati adottati interventi per 14,7 a sostegno delle imprese energivore e del
settore dell’autotrasporto. Si aggiungono ulteriori interventi in favore di
specifiche categorie (contributi a fondo perduto e sostegno della liquidità
delle imprese), quelli per coprire parte dei costi di Regioni ed enti locali e
quelli per il settore della sanità (nel complesso, per ulteriori 4,1 miliardi
nel 2022). Il tutto basterebbe a coprire, come ammette lo stesso Governo, solo
un quarto della maggiore bolletta energetica di imprese e famiglie, con il che,
evidentemente, si rileva che senza uno scostamento di bilancio per ulteriori 45-50
miliardi, la sportiva partecipazione al disastro ucraino costerà migliaia di
imprese in fallimento ed un ulteriore aumento del trend della povertà. A fronte
di ciò, si prevede un modesto intervento urgente (da attuarsi ad aprile) pari a
mezzo punto di Pil, ovvero 9,4 miliardi, poi scesi ad 8 nel recentissimo dl
appena approvato, lontanissimi cioè dal fabbisogno reale dell’economia, per il
sostegno alle bollette elettriche ed al settore energivoro, il rifinanziamento
delle garanzie alle imprese ed alcune misure di carattere sanitario.
Quello che invece esiste nelle
ipotesi programmatiche del Def è quanto segue:
- Un rallentamento della crescita nominale della
spesa pubblica di parte corrente a partire dal 2022, che si attesterà a +3%, a
fronte del +5,1% del 2021, il che in termini reali, considerando un deflatore
programmatico del 3%, significa una crescita nulla della spesa corrente per il
2022 ed una riduzione (cioè un nuovo ciclo di austerity) di circa 20 miliardi a
partire dal 2023, a fronte di aumenti di spesa in conto capitale, per investimenti
fissi lordi, per circa 10 miliardi reali nel solo 2022 (al netto
dell’inflazione) e di ulteriori 15-20 miliardi circa nel 2023, anche grazie al
Pnrr;
- Una
pressione fiscale sostanzialmente immutata al di sopra del 43% del Pil,
nonostante la riforma fiscale (ancora in discussione parlamentare, peraltro),
che a regime avrebbe un effetto limitato, di circa 0,4 punti di Pil, su tale
parametro, che rimane ancora fra i più alti del mondo occidentale;
- Spese welfaristiche strutturali in riduzione
rispetto al Pil, anche se ovviamente in aumento in termini di valori assoluti:
la spesa sanitaria passerebbe, entro il 2025, dal 6,5-7% del Pil degli anni
pre-Covid al 6,2%, con un aumento annuale del suo valore assoluto reale di
circa 1,1 punti (dando ovviamente per buone le trionfalistiche previsioni sulla
crescita del Pil formulate dal Governo). Parimenti, la spesa per istruzione
passerebbe dal 4% del Pil nel 2020 al 3,5% al 2025, con un incremento di spesa
reale dello 0,7% all’anno. La spesa previdenziale, infine, passerebbe dal 17%
del Pil al 2020 al 16,1% nel 2025, con un incremento di spesa reale di 1,3
punti all’anno (come effetto, da un lato, di maggiori pensionamenti anticipati
legati alle code di “quota 100” e “quota 102” e dall’altro di una crescita
delle indicizzazioni delle pensioni vigenti). Naturalmente, è appena il caso di precisare che, se anche le spese sociali, dell'istruzione e sanitarie crescono in valore assoluto, la loro riduzione in termini di incidenza sul Pil segnala scelte redistributive della nuova ricchezza creata di tipo regressivo;
- Grazie al cielo, i proventi da privatizzazione
sono considerati pari a zero nel triennio, quindi si spera che il Governo non
intenda procedere nelle sue intenzioni di privatizzare pezzi di industria
militare come Oto Melara.
Su tutto
questo, si è abbattuta una mozione di maggioranza, in sede di approvazione
parlamentare del Def, che dovrebbe impegnare il governo ad un eventuale
scostamento di bilancio ulteriore nel 2022, utilizzando “gli spazi derivanti
dalla manovra (che per gli errori nelle previsioni troppo ottimistiche del Pil
non ci saranno, ndr) per nuove iniziative espansive disponendo ulteriori
interventi per contenere l’aumento dei prezzi dell’energia nonchè mediante la
revisione del sistema dei prezzi di riferimento e dei carburanti, assicurando
la necessaria liquidità alle imprese mediante la concessione di garanzie”. Tale
risoluzione prevede anche alcuni interventi specifici (la proroga del
superbonus alle villette, l’ampliamento del bonus sociale, la prosecuzione
degli esoneri contributivi per donne e giovani neoassunti.
E’
naturalmente del tutto futile dire che tale mozione di maggioranza, essendo
impegnativa solo sotto il profilo politico e morale, non verrà implementata dal
Governo, che era contrario, anche perché, per l’appunto, non ci sono margini
finanziari, per cui resterà l’impianto di un Def francamente anche difficile
da interpretare, perché basato su un quadro macroeconomico ottimistico e farlocco,
che però dal 2023, a prescindere da qualsiasi dibattito sul Patto di Stabilità,
reintrodurrà forme di austerità sulla spesa corrente e di riduzione del debito,
anche se, per fortuna, ed almeno in termini previsionali, la spesa in
istruzione e sanità continuerà a crescere in valore assoluto (la riduzione dell’incidenza sul Pil si applica su
un Pil di dimensioni maggiori), insieme agli investimenti fissi lordi,
alimentati dal Pnrr.
Va infatti
evidenziato che le linee-guida della Commissione Europea per il 2023, che sono state scritte a prescindere da quello che sarà il destino del Patto di
Stabilità, e che valgono anche nell’ipotesi, più che probabile, di un suo
ulteriore congelamento, stabiliscono che occorre:
i)
assicurare il coordinamento a livello europeo e
realizzare un mix coerente di politiche tale da rispettare le esigenze di
sostenibilità e quelle di stabilizzazione
ii)
garantire la sostenibilità del debito pubblico
attraverso un aggiustamento di bilancio graduale, attento alla qualità della
finanza pubblica ed alla crescita economica;
iii) promuovere
gli investimenti e la crescita sostenibile, dando priorità alla transizione
verde e digitale.
In particolare, gli stati membri ad alto debito, come
l’Italia, dovranno ridurre lo stesso, realizzando un aggiustamento di bilancio
già a partire dal 2023 (anche se non viene dato un target quantitativo, ma
saranno comunque formulate raccomandazioni in termini di contenimento della
spesa pubblica ordinaria). Come dire…un Patto di Stabilità senza il Patto di
Stabilità, con il beneficio di una previsione di riduzione del debito di tipo qualitativo e senza (ancora) l'infernale meccanismo del ritmo di riduzione di un ventesimo all'anno prestabilito dal Six Pack! Di conseguenza, il Def non può che ricalcare tale tendenza.
[1] In
questa nota, per semplicità, gli scenari “a legislazione vigente” ed a
“politiche invariate” sono usati come sinonimi, perché gli scostamenti fra i
due sono molto limitati (sono nulli nel 2022 e pari a 0,1 punti di Pil sul lato
delle entrate ed a 0,3 punti di Pil su quello delle spese per il 2023).