Per la prima volta da più di
venticinque anni, il Governo annuncia, tramite la Nota di aggiornamento del
DEF, una manovra finanziaria prossima ventura espansiva, finanziata a deficit.
Portare la previsione di rapporto fra disavanzo e PIL dal percorso previsto dal
DEF del Governo Gentiloni, ovvero 0,9% nel 2019 e 0,2% nel 2020, al 2,4% per
entrambi gli anni, significa andarsi a prendere a disavanzo circa 27 miliardi
nel 2019 e circa 41 miliardi nel 2020. Significa cancellare da un orizzonte
politicamente programmabile il concetto di pareggio strutturale di bilancio.
L’impostazione, fra il rilancio
di 118 miliardi di investimenti pubblici già stanziati, quindi già scontati dal
calcolo del debito, ma mai implementati per problemi progettuali e gestionali
delle Amministrazioni titolari (su alcuni dei quali, forse, una analisi di
costi/benefici per capire se sono ancora attualmente utili andrebbe fatta), il
varo di un importante programma di contrasto monetario alla povertà (soltanto
per gli italiani, finalmente!) l’aumento di spesa previdenziale prevista dalla
modifica della legge Fornero ed altre partite di spesa (tra le quali il ristoro
per 1,5 miliardi degli obbligazionisti delle banche fallite) è di tipo
keynesiano più che liberista, perché basato maggiormente sulla leva delle spese
che su quella delle entrate. Lo stimolo fornito dalla riduzione della pressione
fiscale è affidato ad un primo modulo di flat tax riservato solo ad imprese e
professionisti, da una prevista riduzione dell’aliquota Ires e da una
detassazione degli utili reinvestiti in innovazione o nuove assunzioni,
peraltro misure autofinanziate all’interno del sistema fiscale stesso, dalla
riduzione delle tax expenditures.
La manovra configurata dal DEF
costituisce, quindi, un vero e proprio salto quantico che azzera i vincoli del
Six Pack che l’Italia subisce da anni, ed il suo effetto potenziale, su un’area
euro bloccata dal gigantesco surplus commerciale tedesco, è potenzialmente
dirompente. Si tratta, di fatto, di smentire la filosofia della deflazione
interna come fattore di competitività finalizzato a riequilibrare i
differenziali nei saldi di bilancia commerciale. Reinserire risorse nel
circuito della spesa e della domanda interna non potrà che alimentare
inflazione, restituendo spazio al mercato interno come elemento a sostegno
della crescita. In un’epoca segnata da un ritorno di forme di protezionismo, tale
impostazione appare quanto mai essenziale, e non è un caso se il Presidente di
Confindustria, oggi, abbia speso parole sostanzialmente caute, se non anche
positive, sul progetto gialloverde.
Evidentemente, però, questa
impostazione sconvolge l’assetto ordoliberista dell’area euro, mette pressione
sugli altri Stati membri per rilassare la disciplina di bilancio, isola la
Germania ed il suo progetto di lebensraum economica basato sull’esportazione su
scala europea del suo modello. Qui è in gioco qualcosa di più della fiducia
degli investitori, in palio c’è l’egemonia politica sul continente. Se la
Germania non potesse, in un futuro, scaricare le tensioni interne all’area euro
imponendo deflazione agli altri Stati membri, sarebbe costretta, da un lato, a
fare politiche di sostegno alla sua domanda interna per riassorbire il surplus
commerciale, e dall’altro ad adottare scelte di condivisione del
rischio/mutualizzazione dei debiti sovrani, non potendo più contare su
politiche di bilancio nazionali di austerità. Oppure dissolvere l’euro,
tornando alle valute nazionali, dando però ragione a quella destra interna,
l’Afd, che della Merkel vuole lo scalpo. Consegnando la Germania stessa, da
sola e senza copertura europea, alla
furia protezionistica statunitense, che mira proprio a colpire le importazioni
manifatturiere tedesche, posto che con Governi amici, come quello italiano,
Trump ha negoziato separatamente condizioni di favore per il nostro export
agroalimentare.
E’ quindi altrettanto evidente
che il progetto di manovra di bilancio sotteso alla Nota di aggiornamento del
DEF non passerà il vaglio della Troika. La Germania non se lo può permettere,
sarebbe la fine dei suoi disegni di dominanza continentale. A novembre, la
Commissione restituirà un parere negativo sulla bozza di legge di bilancio, e
non aspetterà la prima finestra per l’apertura della connessa procedura
d’infrazione, che si apre solo a maggio, cioè dopo elezioni europee che
potrebbero sconvolgere la composizione del Parlamento Ue a favore dei gialloverdi
e dei loro alleati negli altri Paesi. E’ molto probabile infatti che si
attiveranno i canali interni: la mancata promulgazione da parte del Colle per
conflitto con l’articolo 81 della Costituzione. Mattarella ha già avvertito,
peraltro, che userà tale facoltà.
D’altra parte, la reazione dei
mercati non può essere ignorata. Per il momento, il rialzo dello spread è stato
contenuto perché l’approvazione della nota di aggiornamento è avvenuta giovedì
sera, e venerdì è un giorno dedicato, normalmente, alle operazioni di chiusura
delle partite aperte in settimana. Ma dalla settimana prossima è più che
probabile che si inizi a ballare, e che la fine progressiva del Qe della Bce
metta ancora più pressioni sui rendimenti dei titoli di Stato italiani. E’ difficile
che Trump si muova per un eventuale sostegno all’Italia, se ci sarà, prima
delle elezioni mid-term di novembre. Un eventuale aiuto al nostro Paese,
tramite pressioni su Wall Street per aumentare gli acquisti di bond italiani,
potrebbe essere strumentalizzato in veste elettorale. Almeno fino a novembre
occorrerà camminare da soli, e sperare che le elezioni statunitensi premino
Donald.
Su questo scenario si innesta
però un elemento molto importante, che potrà essere sfruttato dai gialloverdi.
L’Italia non può essere trattata come la Grecia. Le dimensioni economiche
contano. Non può essere fatta fallire gettandola nel caos politico ed economico
che deriverebbe dal blocco tout court della legge di bilancio e dal default che
deriverebbe dall’incremento incontrollato dello spread e da eventuali downgrade
delle agenzie di rating. Il 28% del debito pubblico italiano è detenuto da
soggetti esteri, un ammontare gigantesco, pari a 664 miliardi di euro. La
“fuga” dai nostri titoli, che si è verificata in questi mesi, non potrà
continuare senza produrre un crollo delle quotazioni dei nostri titoli, che
porterebbe a durissimi contraccolpi sul patrimonio di sorveglianza di banche ed
operatori finanziari esteri detentori di bond tricolori. Le dimissioni del
governo gialloverde che potrebbero seguire alla bocciatura integrale del suo
progetto di legge di bilancio, senza una alternativa di maggioranza,
getterebbero il Paese nel caos di elezioni anticipate, oltretutto facilmente
vinte dai gialloverdi stessi, che potrebbero fare leva su una reazione ostile
alla Troika da parte dell’elettorato. Nessuno può permettersi il lusso di
mettere un Paese così centrale per l’eurozona alle strette, in una condizione
greca.
Non va sottovalutata la frase di
Moscovici, che ammette che non è interesse della Commissione far fallire
l’Italia. Tale frase rappresenta un’apertura di negoziato. Io credo che alla
fine l’esito non sarà né il crollo dell’euro-area né, come sostiene la parte
avversa, un drammatico fallimento economico italiano da spread e downgrade del
debito. L’esito sarà un compromesso, in cui qualcosa dovrà essere riconosciuta
anche all’Italia, in termini di margini espansivi sulla legge di bilancio.
Sicuramente l’obiettivo del 2,4% non potrà essere sostenuto, si scenderà, ma
certamente non fino allo 0,9% a cui saremmo costretti dal percorso di
convergenza verso l’equilibrio strutturale di bilancio, e c’è, forse, anche
qualche possibilità di rimanere sopra l’1,6% negoziato informalmente con la
Commissione. Questo cedimento parziale alle nostre ragioni sarebbe, peraltro,
il primo successo diplomatico italiano in sede di negoziato sulle politiche di
bilancio da più di quattro lustri a questa parte. Innescherebbe una dialettica
diversa dentro l’euroarea, ed aprirebbe spazi per inserire un pensiero
economico diverso da quello ordoliberista sinora utilizzato. Tali spazi, in
caso di vittoria di Trump al mid-term e di successo dei populismi alle elezioni
europee, potrebbero essere allargati ulteriormente, conducendo, nel giro di
pochi anni, ad un rovesciamento del modello economico di riferimento dell’euro.
Sarebbe bene, in questa
prospettiva, che:
- - Alcuni sovranisti abbandonassero infantilismi da
“tutto e subito”, ed iniziassero a fare politica con la testa, e non con il
fegato;
-
- Le parti più avanzate di ciò che resta della
sinistra la smettessero di trastullarsi con idee identitarie e pretese di
difesa di una bandiera, ed aderissero, da sinistra e conservendo tutta
l’autonomia di pensiero e di programma che intendono conservare, ad alleanze
con i populismi, perché, alla fine, i Mélenchon di turno tolgono voti alle
destre popolari, che sono le uniche ad avere la forza per cambiare le cose,
senza uscire da posizioni minoritarie, dalle quali non si incide. Un gioco a
somma negativa. Il futuro non si gioca sulla flat tax. Quello è un simbolo. Il
futuro si gioca da chi esce vincitore in una battaglia fra sovranismo e
globalismo, che è l’’unica battaglia vera che si sta combattendo. Il resto sono
frattaglie di identitarismo di cui liberarsi, se si vuole partecipare al gioco.