sabato 8 settembre 2018

Gli immigrati si difendono con la severità, non con il lassismo






Quello che è successo a Chemnitz (la ex Karl Marx-Stadt dei tempi del socialismo reale) dove il partito euroscettico Afd si è unito agli anti-islamici di Pegida in una manifestazione contro l’immigrazione tout court, è lo specchio di ciò che succederà a breve in tutta Europa. Nonostante il forte ricordo nostalgico della ex DDR che alimenta, in quelle plaghe, un consenso elettorale per la Linke vicino al 20%. 

Per certi versi, i Paesi ex socialisti sono un laboratorio anticipatore delle tendenze che prendono piede in Europa: negli Anni Novanta, con le shock therapy dei figli di Friedman hanno sperimentato la forma più pura di turbocapitalismo e mercato totalmente liberalizzato e finanziarizzato, che ne ha devastato il tessuto sociale. Ed adesso sperimentano, in anticipo rispetto al resto d’Europa, la svolta xenofoba, come conseguenza di una devastazione sociale molto più avanzata e incisiva e del ricordo degli altissimi livelli di protezione di cui si godeva fino al 1989. 

La protezione e l’integrazione degli immigrati regolari già presenti nei nostri Paesi costituisce, ovviamente, una necessità, e peraltro lo stesso Salvini, tanto odiato per un suo immaginario razzismo, lo ha sempre detto nei suoi discorsi. Si tratta di un obiettivo minimale di pacificazione sociale, al quale personalmente aggiungo l’esigenza di uno Ius soli per i minori già presenti da noi (con meccanismi di straordinarietà ed eccezionalità che non incentivino però l’ulteriore immigrazione di minori per ottenimento della cittadinanza) ma per poter essere realizzato necessita di due condizioni preliminari:

a)       il blocco delle frontiere. C’è un limite quantitativo all’integrazione che possiamo permetterci di sopportare senza esplosioni sociali da parte del nostro popolo. E’ un limite sia di tipo strutturale (in tempi di crisi e di impoverimento, anche i posti di lavoro meno qualificati diventano appetibili, e la crescita di un esercito industriale di riserva ne abbassa i salari ed i diritti, in una guerra fra autoctoni e immigrati; l’importazione di poveri crea concorrenza nell’accesso al welfare, dalle liste di attesa ospedaliere alle graduatorie per l’accesso alle case popolari) sia sovrastrutturale (l’accesso illimitato di culture e religioni così lontane dalla nostra crea problemi identitari e paure di perdita del sé – in fondo le tradizioni sono l’anima di un popolo, come diceva Gustave Le Bon, ma d’altra parte costituiscono “la concezione della vita e del mondo”, per Gramsci). Che il fattore sovrastrutturale sia potente lo dimostra la crescita degli anti-immigrazionisti svedesi, nonostante un Paese ancora in crescita e con un welfare ancora invidiabile, seppur in contrazione;


b     b) un modello di integrazione che rifugga il multiculturalismo. Chi viene da noi deve essere portato, nel giro di due o tre generazioni, ad abbracciare i nostri valori, il nostro stile di vita, la nostra concezione del mondo. Non si può costruire un modello-patchwork nel quale le singole comunità immigrate sono lasciate a coltivare la chiusura su loro stesse, creando subculture, aggravandolo, peraltro, con i modelli urbani di tipo segregativo tipici delle banlieues. Non c’è bisogno di andare lontano. Una teoria fondamentale della criminologia, la teoria della disorganizzazione sociale, evidenzia che la formazione di subculture chiuse su loro stesse allenta il controllo sociale, ed espone i membri della subcultura all’impressione di essere isolati e “contro” la cultura mainstream del Paese di accoglienza, favorendone la tendenza alla devianza. Leggete Sampson e Wilson (1995. Towards a Theory of Race, Crime, and Urban Inequality. Pp. 37-56 in Crime and Inequality, curato da John Hagan e Ruth Peterson. Stanford, CA e Bursick-Grasmick (1993. Neighborhoods and Crime: The Dimensions of Effective Community Control. Lexington). Del resto, nessuno si chiede perché le reclute più fanatiche dell’Isis nei Paesi europei di alta immigrazione islamica siano immigrati di seconda o terza generazione? Quindi, l’utilizzo della lingua e la pratica religiosa autonoma degli immigrati, nonché la colorazione etnica dei quartieri, sono elementi che non vanno incentivati, anche se non possono essere eliminati e, se non rilevantissimi, e comunque inseriti dentro un percorso di progressiva integrazione per la quale si vedono concreti segnali, possono essere anche tollerati. Però ci si può risparmiare di costruire le moschee su richiesta, o di consentire pratiche che cozzano contro l’identità culturale del nostro popolo, ad iniziare dal Burka o dai matrimoni combinati. 

Prima ancora, il senso comunitario si forgia dal rispetto di un corpus di leggi riconosciuto cogente. Occorre quindi che gli immigrati rispettino rigidamente le leggi dello Stato italiano, pena l’espulsione, che va peraltro resa immediata e cogente nei confronti dei clandestini e degli irregolari, tramite la costruzione di nuovi CIE dove trattenerli, l’aumento del periodo di trattenimento oltre i 18 mesi attualmente consentiti, accordi specifici con i Paesi di provenienza per riprenderseli in condizioni di rispetto dei diritti umani, incentivi per il rientro volontario, una più intensa azione di controllo sul territorio. 

In queste condizioni, e solo in queste, eviteremo il pogrom, dando cioè accesso politico non a chi vuole regolamentare l’immigrazione, ma la vuole far sparire. Non è mettendosi contro i sentimenti popolari che si proteggono gli immigrati già presenti da noi. Al contrario, li si mette in grave pericolo.

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