mercoledì 29 agosto 2018

Risposta a Veltroni



Su Repubblica di oggi, un Veltroni uguale a sé stesso ripropone la minestrina preconfezionata dei populismi pericolosi per la democrazia, per la pax funebris imposta dall’euro sui cadaveri delle economie mediterranee sconfitte, per la libertà e la solidarietà verso i fratelli giunti da noi dall’altra parte del mar. Una minestrina che sembra essere l’unico argomento cui si aggrappano gli sconfitti della storia.
A Veltroni, a differenza di altri piddini, va riconosciuta lealtà per le sue idee e coerenza, ma quello che non capisce, ma io credo addirittura in buona fede, il che è ancora peggio, è che i pericoli da lui evocati nell’intervista a Repubblica, dalla crisi della democrazia rappresentativa ai possibili focolai di una guerra prima commerciale e poi militare, ammesso e non concesso che abbiano un fondamento e non siano degli spauracchi legati ad una visione meccanicistica della storia, come in larga misura io credo che siano, non sono il frutto avvelenato dei populismi, sono il portato delle pratiche politiche di una sinistra degenerata, che nel caso italiano ha raggiunto l’apice del suo degrado ideale e culturale con il Lingotto.
La crisi della democrazia non affonda le sue radici in Salvini o nelle pratiche di gestione del consenso dei pentastellati, ma nel primato del maggioritarismo, associato alla liquefazione del concetto di rappresentanza intermedia insito nella visione del partito liquido di Veltroni e nei progetti di riforma della Costituzione portati avanti testardamente dal PD in tutti questi anni. Maggioritarismo e liquefazione della rappresentanza intermedia in nome di una partecipazione non mediata portano dritti a soluzioni padronali come unica via per fare sintesi. Se il partito-massa novecentesco non è più replicabile, l’utopia libertaria del movimento liquido ed aperto ad una società civile teorizzata ma inesistente non porta a niente.
I rischi per la pace dipendono da un credito eccessivo assegnato alle presunte virtù della globalizzazione dei mercati, di cui l’europeismo acritico, ammantato di assurde utopie sulla politicizzazione di un processo essenzialmente mercantilistico, è una specificazione. Tale processo crea darwinismo fra nazioni, e il darwinismo produce tensioni, che sfociano in guerre economiche e poi militari.
La xenofobia non deriva dalle urla di Salvini o di Orban, ma da una immigrazione senza freni, accompagnata da modelli di integrazione sbagliati, basati sul multiculturalismo indifferenziato e paritario, promossi dal veltronismo e dalla sua versione femminile, il boldrinismo. A peggiorare la situazione interviene il moralismo da sermone domenicale, che Veltroni ed i suoi ammanniscono a larghe dosi, che tenta di promuovere l’immigrazione tramite una colpevolizzazione degli italiani, dipinti come razzisti genetici ed inconsci e tramite un solidarismo a senso unico, molto generoso con il nigeriano e completamente assente nei confronti dell’italiano povero.
Maggioritarismo plebiscitario da primarie a due euro il chilo, globalismo ed eurismo acritici e compradori, multiculturalismo da patchwork comprato nel mercatino delle pulci, interclassismo ecumenico che mette insieme l’individualismo metodologico dell’homo economicus con quello libertario dei diritti civili dentro una ideologia basata sulla responsabilizzazione individuale dell’uomo lasciato solo senza protezioni in una società mercatistica, selettiva e malvagia (che significa la liturgia della meritocrazia, se non chi è senza meriti, o con meriti minori, deve morire?) tutti questi ingredienti del blair/veltrinismo non hanno fatto altro che produrre minore accesso alle capacitazioni democratiche formali e sostanziali, producendo un popolo subalterno, impoverito e sradicato dalla sua identità.
I populismi, quindi, non sono affatto un prodotto della rabbia e dell’esacerbazione, ma primariamente della ricerca di una risposta ai problemi che la sinistra, nelle tre versioni temibili del blair/veltronismo, del radicalismo di maniera e del libertarismo movimentista, ha alimentato e/o non ha saputo risolvere. La rabbia e l’esasperazione sono soltanto la manifestazione sovrastrutturale ed emotiva di questa ricerca di soluzioni. Veltroni dovrebbe sapere (ma a Frattocchie c’è stato? I fondamenti del mestiere glieli hanno trasmessi?) che la storia non è mossa dalle passioni e dalle pulsioni, ma dal substrato di interessi materiali che compone la base del conflitto sociale. Pulsioni e passioni sono solo una conseguenza, non una forza propulsiva.
E’ al cuore del modello di società proposto dal riformismo degenerante della sinistra post-muro, e allo stupido e folkloristico contorno di carabattole che la sinistra pseudo-radicale vi ha aggiunto, senza cambiare niente alla portata principale, che occorre risalire per capire perché i populismi sono un tentativo di soluzione ai problemi, non la fonte di quei problemi e pericoli che Veltroni evoca.
E Veltroni può anche non rassegnarsi, ma la ruota della storia gira indipendentemente da lui, e la ruota gira in una direzione ben chiara: sta distruggendo ciò che resta delle velleità politiche della sinistra. La sinistra è già morta, solo che nessuno glielo ha detto, e non lo sa. Morta perché non è culturalmente, organizzativamente, umanamente ed emotivamente in grado di dare risposte alle istanze di eguaglianza formale e sostanziale, di giustizia e di solidarietà che continuano a vivere dentro la società. In Italia la mortalità è accelerata dalla particolare stupidità messa in mostra dalla sua dirigenza e dal misto di dogmatismo e tifoseria da stadio della sua militanza, ma la patologia non tarderà ad allargarsi al resto del mondo occidentale, e non saranno gli sforzi di Sisifo di pochi eroi, si chiamino Corbyn, Sanders o Mélenchon, a salvarla.
Ma ciò avviene per un motivo banale: il conflitto sociale principale si è spostato dall’asse fra lavoro e capitale a quello interno al capitale stesso, fra piccola borghesia nazionale e grande borghesia apolide e finanziarizzata. Questo è il senso del lunghissimo ventennio di pensiero unico, culminato nella finalizzazione fisiologica della crisi e della sua risposta neoliberista: la sconfitta definitiva del lavoro, privato di una sua identità, di una sua rappresentanza e persino di un suo immaginario, visto che la frontiera ideologica proposta dal sistema è quella di trasformare il lavoratore in una sorta di imprenditore di sé stesso. Solo quando il lavoro, oggi frammentato in tante forme e modalità diverse dopo la crisi del fordismo, riuscirà a ritrovare forme di unitarietà, l’asse del conflitto sociale potrà favorire una nuova sinistra di massa. Ma al momento non è dato capire quando e come ciò avverrà, e quindi è legittimo prevedere tempi molto lunghi. Troppo lunghi per valere la pena di spendersi.
Oggi, necessariamente, la risposta ai problemi creati da Veltroni e dai suoi compari deve rinvenirsi dentro il conflitto sociale rappresentato, nello scenario politico, dalla battaglia fra una destra economica, globalistica e liberale ed una destra popolare, nazionale e corporativa. E’ dentro questo asse che bisogna schierarsi, a favore dei populismi, cercando di portarvi le istanze degli ultimi, lavorando sugli spazi e le contraddizioni interne al loro blocco sociale, per tentare di spostare il più a sinistra possibile il punto di equilibrio, in un esercizio dialettico e non conflittuale.
Chi ne vuole restare fuori in nome di una terza posizione è una testimonianza di un mondo che non esiste più, e che non tornerà. Ha il diritto all’onore delle armi ed al riconoscimento del coraggio del combattente isolato. Ma morirà.

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