giovedì 23 agosto 2018

Riflessioni sparse di fine estate




A quanto pare la nazionalizzazione delle autostrade non si farà, e personalmente me ne dolgo, perché era una occasione veramente importante. Troppo costoso acquisire le aziende concessionarie, troppo dura l'opposizione ideologica al ruolo del pubblico nell'economia da parte del corpo più interno alla Lega. Ciò non toglie che la revoca della concessione per chi ha fatto crollare un ponte ci debba essere, e che si attivi un dibattito sulla frontiera fra pubblico e privato, che negli ultimi venticinque anni, complice una sinistra degenerata, non c'è stato.

Contrariamente a quanto si possa pensare, le aperture a tale dibattito ci sono: Giorgetti, il più ostile alla nazionalizzazione dei concessionari, in una intervista dell'altro ieri ha aperto ad una revisione del modello gestionale delle attività con concessione scaduta, come le centrali idroelettriche delle Alpi. Questo significa che gli spazi per discutere ci sono. E nel contratto di governo si prevede una banca pubblica di investimenti, che possa anche acquisire partecipazioni nell'ambito di iniziative di interesse pubblico e strategico, così come di rilancio di Alitalia in una logica di interesse nazionale.
Gl ispazi teorici ci sono, però è chiaro che tale dibattito è molto difficile, e non può portare a nessun tipo di avanzamento, se rimane confinato dentro un settarismo di sinistra che fa della nazionalizzazione hic et nunc una bandiera o una forma di "in o out" rispetto al dialogo, o che si blocca ideologicamente di fronte alla ipotesi di flat tax (che poi si concretizzerà in una riduzione degli scaglioni, posto che una flat tax alla russa è proibita dalla Costituzione) senza dare fede a Tria, quando dice che sarà introdotta con una logica paretiana in cui nessuno ci dovrà rimettere, e senza aver fatto simulazioni sul sistema complessivo, comprensivo della no tax area e del sistema di tax expenditures che emergerà, tenuto conto delle nuove agevolazioni (come il reddito di cittadinanza) per la quota più debole della platea contributiva.

Solo una forza socialista che voglia dialogare con i populisti, non cercare furbescamente (e - aggiungo - inutilmente) di fregargli i voti facendo i maestrini, può alimentare tale dibattito e sperare di cavarne fuori atti concreti. Gli atti concreti non si ottengono né rimanendo nella splendida solitudine del 2%, dove non si incide, né cercando convergenze con la forza più liberista di tutte, ovvero il PD.

Quindi sarebbe meglio evitare di parlare di Bombacci (mostrando peraltro di non conoscere né Bombacci né il fascismo né il populismo, visto che si mettono insieme in uno slogan cose che non hanno nessun rapporto l’una con l’altra) e sporcarsi le mani, con l'unica possibilità alternativa all'inutile autonomia del 2% o al dannoso rapporto con illusori centrisinistra: il dialogo con i populisti, per lavorare su uno spostamento più a sinistra dell'asse di un governo, nell'unico posto dove tale spostamento è, sia pur minimamente, possibile, perché il governo attuale è sostenuto dai ceti sociali di riferimento tradizionale della sinistra.

Francamente sento discorsi assurdi su Terze Posizioni, basati su riproposizioni meccanicistiche di ciò che sta accadendo in Francia con Mélenchon, in Gran Bretagna con Corbyn oppure negli USA con Sanders. Peccato, però, che ogni Paese ha le sue specificità, per le quali non è possibile pensare di fare trasposizioni automatiche di esperienze diverse. In particolare, l’assenza di credibilità e di leadership di cui soffre la sinistra italiana non ha eguali né in Francia (dove un’area di conflitto sociale di sinistra è sempre esistita ed è stata sempre forte) né in Gran Bretagna (dove, nonostante le degenerazioni blairiane, esiste ancora un partito che si definisce “socialista” nel suo Statuto ed ha un rapporto stretto ed operativo con dei sindacati ancora combattivi) né negli USA, dove il sanderismo gode della credibilità personale di un leader storico, delle contraddizioni sociali aberranti di tale Paese, che diventano insopportabili non appena il meccanismo della crescita tende anche solo a rallentare, svuotando di senso l’illusione di American Dream che tiene insieme la società, e della possibilità che i meccanismi specifici della competizione elettorale statunitense fornisce ad una corrente interna di uno dei due grandi partiti di darsi visibilità internazionale durante le primarie (per inciso, sarebbe interessante analizzare il populismo statunitense degli anni Trenta, come culla della virata socialdemocratica dei Democratici con Roosevelt). 
La verità della sinistra italiana ci dice che c’è stata una dilapidazione di credibilità e prestigio che ha comportato lo svuotamento completo del serbatoio elettorale cui la sinistra poteva aspirare, fuggito dentro la pancia dei populismi (a differenza della Francia, dove ad esempio il risultato di France Insoumise ha impedito la vittoria del FN alle presidenziali).

Non c’è Terza Posizione perché non c’è elettorato che la sostenga. Come si pensa di convincere un elettore di sinistra fuggito nel M5S o nella Lega a tornare indietro, dopo la profonda e pluriennale esperienza di tradimento e delusione patita? Forse sperando segretamente che il Governo gialloverde fallisca, per riaprire le porte inevitabilmente all’ennesimo governicchio tecnico neoliberista al soldo della Troika, sperando poi di essere più efficaci nel raccogliere la rabbia sociale? Mi dispiace, non ci sto. Per il Paese voglio il meglio, non il ritorno dei Governi dei professori soltanto per fare guadagnare qualche decimale ad una sinistra che, nel caso di specie, si dimostrerebbe antipatriottica. Comunque, l’operazione di sabotaggio non renderebbe niente, dal punto di vista del consenso. Gli elettori capirebbero molto chiaramente che chi ha collaborato, su vari piani, a far cadere il governo populista, sarebbe corresponsabile dei danni che ne deriverebbero successivamente. Ancora: come convincere i ceti emergenti del precariato cognitivo e della new economy, confluiti nel M5S, a guardare altrove, quando non è stato fatto alcun discorso sociologico serio, continuando a rappresentare società e mercato del lavoro in modo distorto ed obsoleto?

Il dibattito sulla questione dei 177 migranti di nave Diciotti è emblematico di questa confusione strategica. La punta culturalmente più progredita ed intelligente della sinistra propone di far sbarcare i migranti, e poi rivalersi sui contributi che l’Italia versa alla Ue in quanto contribuente netto, al fine di fare pressioni sulla redistribuzione per Stato membro dei migranti stessi. Questa strategia ha un obiettivo evidente: mostrare all’elettorato dei populisti di essere a favore di una riduzione della pressione migratoria sulla nostra società, al contempo proponendo una soluzione meno brutale, più sofisticata e più equa di quella proposta da Salvini. Tuttavia, tale idea non funziona operativamente: dal profondo dell’Africa, la gente continuerà ad immigrare fintanto che l’Europa la farà entrare: per loro, essere redistribuiti dall’Italia all’Ungheria, una volta entrati, non ha nessuna rilevanza. Per chi attraversa il Sahara a piedi, che la sua emigrazione comporti rappresaglie finanziarie fra Italia e Bruxelles è il minore dei pensieri, sicuramente non lo sa, e non gli importa. Qui il problema vero non è redistribuire un flusso virtualmente infinito fra i vari Paesi europei, ma di non far entrare più nessuno, con politiche restrittive analoghe a quelle dell’Australia, che ha praticamente azzerato un grosso flusso migratorio. Chi ha studiato Marx e la sua illustrazione degli effetti dell’immigrazione su esercito industriale di riserva e salari lo dovrebbe capire. Ma la stessa esplosione sociale svedese, in un Paese benestante, con un welfare ancora solido ed in crescita, mostra che l’immigrazione, oltre certe soglie, genera effetti sovrastrutturali di rigetto: si teme la perdita di identità culturale e nazionale anche quando il proprio modello economico consentirebbe di reggere un flusso migratorio imponente senza grosse ripercussioni su salari, protezione sociale e tenore di vita. Per questo stesso motivo, l’idea non funziona nemmeno elettoralmente, oltre che operativamente: un Paese che ha raggiunto il limite in termini di capacità di accoglienza (capacità culturale ed identitaria, prima che logistica o economica) non vuol sentire parlare di “riduzione del danno” tramite redistribuzioni. Vuol sentire chi, come Salvini, promette il “no way” australiano.

E stiamo parlando della parte più evoluta della sinistra attuale: figuriamoci gli altri, quelli che stanno in porto con l’arancina in mano, quei poveri coglioni che scambiano l’impegno etico con quello politico, come se fossero due cose simili, e non profondamente diverse.

Solo una sinistra che sta dentro i processi sociali, anche quelli che puzzano di merda, può capire come muoversi. I tatticismi furbeschi, le illusioni di autonomia senza popolo, stanno a zero. Salvini e Di Maio hanno capito molto di più di tutti noi messi insieme, al di là dei modi, più o meno ruvidi e più o meno bruschi o sboroni. Il tema non è sfidarli, il tema è confrontarsi con loro (che presuppone rispetto e buona educazione reciproca) per inserirsi dentro un fenomeno ancora magmatico, che potrà essere egemonizzato da posizioni di destra o di sinistra, a seconda dei rapporti di forza. Lasciare derivare a destra il populismo o, peggio ancora, contribuire alla sua disfatta, nella speranza di rendite di posizione, sarebbe storicamente imperdonabile.

E questa è la posizione di chi non ha assolutamente niente da rinnegare della sua storia. Sono stato convintamente socialista e lo sono ancora e lo sarò per sempre, ho supportato posizioni e dirigenze insostenibili, come l’ultima esperienza di LeU-Si, sperando che la sopravvivenza di quell’area potesse germinare qualche seme di resipiscenza, e sono stato anche ostile ai populismi attuali, fintanto che vi era la residua speranza di poterli superare da posizioni più avanzate. Ma questa speranza si è chiusa definitivamente, non certo per colpa mia, e non soltanto per colpa di ceti dirigenti obiettivamente infami, ma perché la militanza storica della sinistra non è culturalmente in grado di avanzare di un millimetro rispetto agli stereotipi. Ma non sono più disponibile ad ulteriori follie. Non ho la vocazione di Sisifo, ed a differenza di Camus non immagino Sisifo felice.  


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