A quanto
pare la nazionalizzazione delle autostrade non si farà, e personalmente me ne
dolgo, perché era una occasione veramente importante. Troppo costoso acquisire
le aziende concessionarie, troppo dura l'opposizione ideologica al ruolo del
pubblico nell'economia da parte del corpo più interno alla Lega. Ciò non toglie
che la revoca della concessione per chi ha fatto crollare un ponte ci debba
essere, e che si attivi un dibattito sulla frontiera fra pubblico e privato,
che negli ultimi venticinque anni, complice una sinistra degenerata, non c'è
stato.
Contrariamente
a quanto si possa pensare, le aperture a tale dibattito ci sono: Giorgetti, il
più ostile alla nazionalizzazione dei concessionari, in una intervista
dell'altro ieri ha aperto ad una revisione del modello gestionale delle
attività con concessione scaduta, come le centrali idroelettriche delle Alpi.
Questo significa che gli spazi per discutere ci sono. E nel contratto di
governo si prevede una banca pubblica di investimenti, che possa anche
acquisire partecipazioni nell'ambito di iniziative di interesse pubblico e
strategico, così come di rilancio di Alitalia in una logica di interesse
nazionale.
Gl ispazi
teorici ci sono, però è chiaro che tale dibattito è molto difficile, e non può
portare a nessun tipo di avanzamento, se rimane confinato dentro un settarismo
di sinistra che fa della nazionalizzazione hic et nunc una bandiera o una forma
di "in o out" rispetto al dialogo, o che si blocca ideologicamente di
fronte alla ipotesi di flat tax (che poi si concretizzerà in una riduzione
degli scaglioni, posto che una flat tax alla russa è proibita dalla Costituzione)
senza dare fede a Tria, quando dice che sarà introdotta con una logica
paretiana in cui nessuno ci dovrà rimettere, e senza aver fatto simulazioni sul
sistema complessivo, comprensivo della no tax area e del sistema di tax
expenditures che emergerà, tenuto conto delle nuove agevolazioni (come il
reddito di cittadinanza) per la quota più debole della platea contributiva.
Solo una
forza socialista che voglia dialogare con i populisti, non cercare
furbescamente (e - aggiungo - inutilmente) di fregargli i voti facendo i
maestrini, può alimentare tale dibattito e sperare di cavarne fuori atti
concreti. Gli atti concreti non si ottengono né rimanendo nella splendida
solitudine del 2%, dove non si incide, né cercando convergenze con la forza più
liberista di tutte, ovvero il PD.
Quindi
sarebbe meglio evitare di parlare di Bombacci (mostrando peraltro di non
conoscere né Bombacci né il fascismo né il populismo, visto che si mettono insieme
in uno slogan cose che non hanno nessun rapporto l’una con l’altra) e sporcarsi
le mani, con l'unica possibilità alternativa all'inutile autonomia del 2% o al
dannoso rapporto con illusori centrisinistra: il dialogo con i populisti, per
lavorare su uno spostamento più a sinistra dell'asse di un governo, nell'unico
posto dove tale spostamento è, sia pur minimamente, possibile, perché il
governo attuale è sostenuto dai ceti sociali di riferimento tradizionale della
sinistra.
Francamente
sento discorsi assurdi su Terze Posizioni, basati su riproposizioni
meccanicistiche di ciò che sta accadendo in Francia con Mélenchon, in Gran
Bretagna con Corbyn oppure negli USA con Sanders. Peccato, però, che ogni Paese
ha le sue specificità, per le quali non è possibile pensare di fare
trasposizioni automatiche di esperienze diverse. In particolare, l’assenza di
credibilità e di leadership di cui soffre la sinistra italiana non ha eguali né
in Francia (dove un’area di conflitto sociale di sinistra è sempre esistita ed
è stata sempre forte) né in Gran Bretagna (dove, nonostante le degenerazioni
blairiane, esiste ancora un partito che si definisce “socialista” nel suo
Statuto ed ha un rapporto stretto ed operativo con dei sindacati ancora
combattivi) né negli USA, dove il sanderismo gode della credibilità personale
di un leader storico, delle contraddizioni sociali aberranti di tale Paese, che
diventano insopportabili non appena il meccanismo della crescita tende anche
solo a rallentare, svuotando di senso l’illusione di American Dream che tiene
insieme la società, e della possibilità che i meccanismi specifici della
competizione elettorale statunitense fornisce ad una corrente interna di uno
dei due grandi partiti di darsi visibilità internazionale durante le primarie
(per inciso, sarebbe interessante analizzare il populismo statunitense degli
anni Trenta, come culla della virata socialdemocratica dei Democratici con
Roosevelt).
La verità
della sinistra italiana ci dice che c’è
stata una dilapidazione di credibilità e prestigio che ha comportato lo
svuotamento completo del serbatoio elettorale cui la sinistra poteva aspirare,
fuggito dentro la pancia dei populismi (a differenza della Francia, dove ad
esempio il risultato di France Insoumise ha impedito la vittoria del FN alle
presidenziali).
Non c’è
Terza Posizione perché non c’è elettorato che la sostenga. Come si pensa di convincere un elettore di sinistra fuggito nel M5S o
nella Lega a tornare indietro, dopo la profonda e pluriennale esperienza di
tradimento e delusione patita? Forse sperando segretamente che il Governo
gialloverde fallisca, per riaprire le porte inevitabilmente all’ennesimo
governicchio tecnico neoliberista al soldo della Troika, sperando poi di essere
più efficaci nel raccogliere la rabbia sociale? Mi dispiace, non ci sto. Per il
Paese voglio il meglio, non il ritorno dei Governi dei professori soltanto per
fare guadagnare qualche decimale ad una sinistra che, nel caso di specie, si
dimostrerebbe antipatriottica. Comunque, l’operazione di sabotaggio non
renderebbe niente, dal punto di vista del consenso. Gli elettori capirebbero
molto chiaramente che chi ha collaborato, su vari piani, a far cadere il
governo populista, sarebbe corresponsabile dei danni che ne deriverebbero
successivamente. Ancora: come convincere i ceti emergenti del precariato
cognitivo e della new economy, confluiti nel M5S, a guardare altrove, quando
non è stato fatto alcun discorso sociologico serio, continuando a rappresentare
società e mercato del lavoro in modo distorto ed obsoleto?
Il dibattito
sulla questione dei 177 migranti di nave Diciotti è emblematico di questa
confusione strategica. La punta culturalmente più progredita ed intelligente
della sinistra propone di far sbarcare i migranti, e poi rivalersi sui
contributi che l’Italia versa alla Ue in quanto contribuente netto, al fine di
fare pressioni sulla redistribuzione per Stato membro dei migranti stessi. Questa
strategia ha un obiettivo evidente: mostrare all’elettorato dei populisti di
essere a favore di una riduzione della pressione migratoria sulla nostra
società, al contempo proponendo una soluzione meno brutale, più sofisticata e
più equa di quella proposta da Salvini. Tuttavia, tale idea non funziona
operativamente: dal profondo dell’Africa, la gente continuerà ad immigrare
fintanto che l’Europa la farà entrare: per loro, essere redistribuiti dall’Italia
all’Ungheria, una volta entrati, non ha nessuna rilevanza. Per chi attraversa
il Sahara a piedi, che la sua emigrazione comporti rappresaglie finanziarie fra
Italia e Bruxelles è il minore dei pensieri, sicuramente non lo sa, e non gli
importa. Qui il problema vero non è redistribuire un flusso virtualmente infinito
fra i vari Paesi europei, ma di non far entrare più nessuno, con politiche
restrittive analoghe a quelle dell’Australia, che ha praticamente azzerato un
grosso flusso migratorio. Chi ha studiato Marx e la sua illustrazione degli
effetti dell’immigrazione su esercito industriale di riserva e salari lo
dovrebbe capire. Ma la stessa esplosione sociale svedese, in un Paese
benestante, con un welfare ancora solido ed in crescita, mostra che l’immigrazione,
oltre certe soglie, genera effetti sovrastrutturali di rigetto: si teme la
perdita di identità culturale e nazionale anche quando il proprio modello
economico consentirebbe di reggere un flusso migratorio imponente senza grosse
ripercussioni su salari, protezione sociale e tenore di vita. Per questo stesso
motivo, l’idea non funziona nemmeno elettoralmente, oltre che operativamente:
un Paese che ha raggiunto il limite in termini di capacità di accoglienza
(capacità culturale ed identitaria, prima che logistica o economica) non vuol
sentire parlare di “riduzione del danno” tramite redistribuzioni. Vuol sentire
chi, come Salvini, promette il “no way” australiano.
E stiamo
parlando della parte più evoluta della sinistra attuale: figuriamoci gli altri,
quelli che stanno in porto con l’arancina in mano, quei poveri coglioni che
scambiano l’impegno etico con quello politico, come se fossero due cose simili,
e non profondamente diverse.
Solo una
sinistra che sta dentro i processi sociali, anche quelli che puzzano di merda,
può capire come muoversi. I tatticismi furbeschi, le illusioni di autonomia
senza popolo, stanno a zero. Salvini e Di Maio hanno capito molto di più di
tutti noi messi insieme, al di là dei modi, più o meno ruvidi e più o meno
bruschi o sboroni. Il tema non è sfidarli, il tema è confrontarsi con loro (che
presuppone rispetto e buona educazione reciproca) per inserirsi dentro un
fenomeno ancora magmatico, che potrà essere egemonizzato da posizioni di destra
o di sinistra, a seconda dei rapporti di forza. Lasciare derivare a destra il
populismo o, peggio ancora, contribuire alla sua disfatta, nella speranza di
rendite di posizione, sarebbe storicamente imperdonabile.
E questa è
la posizione di chi non ha assolutamente niente da rinnegare della sua storia. Sono
stato convintamente socialista e lo sono ancora e lo sarò per sempre, ho supportato posizioni e dirigenze
insostenibili, come l’ultima esperienza di LeU-Si, sperando che la sopravvivenza
di quell’area potesse germinare qualche seme di resipiscenza, e sono stato
anche ostile ai populismi attuali, fintanto che vi era la
residua speranza di poterli superare da posizioni più avanzate. Ma questa speranza si è chiusa
definitivamente, non certo per colpa mia, e non soltanto per colpa di ceti
dirigenti obiettivamente infami, ma perché la militanza storica della sinistra
non è culturalmente in grado di avanzare di un millimetro rispetto agli
stereotipi. Ma non sono più disponibile ad ulteriori follie. Non ho la
vocazione di Sisifo, ed a differenza di Camus non immagino Sisifo felice.
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