Oggi, 20 agosto 2018, il piano di “assistenza” dell’ESM
è per così dire concluso, la Grecia, formalmente, è fuori dal terzo ed ultimo piano di “salvataggio”,
e da oggi può tornare a finanziare il suo debito sul mercato, essendo
formalmente tornata in possesso della sua sovranità fiscale.
Solo formalmente, però. Per poter
ritardare di dieci anni il rimborso di 110 miliardi di euro di prestiti
ricevuti dall’Efsf (predecessore dell'ESM), la Grecia dovrà assicurare un avanzo primario del 3,5% fino
al 2022 e del 2,2% fino al 2060. Di fatto, per i prossimi 42 anni, l’economia
greca dovrà continuare ad essere sottoposta a pesanti misure di austerità,
senza la possibilità di interventi statali per alleviare la sua situazione
sociale disastrosa (20% di disoccupazione, il 35% di popolazione a rischio di
povertà o esclusione sociale, madri che devono affidare i figli alle case
famiglia perché non li possono nutrire, anziani che cercano nell’immondizia,
gente che muore di malattie evitabili perché non può permettersi le cure,
133.000 greci che nel solo 2017 hanno dovuto rinunciare ad una eredità perché
non potevano pagare le tasse). Senza contare il fatto che il Paese dovrà
garantire rimborsi annuali del debito dal 2033 al 2060 pari a circa il 60%
delle entrate fiscali dello Stato.
Senza contare che, colmo dell’egoismo,
i pescecani della Trojka escluderanno il Paese dal programma di liquidità di
emergenza, nonostante un settore bancario ancora afflitto da un tasso di
sofferenze sui prestiti del 46,5%. D’ora in poi, le banche greche, per
approvvigionarsi di liquidità presso la Bce, dovranno pagare ai tassi
ufficiali.
Un avanzo primario di queste
dimensioni richiederebbe tassi di crescita annui del 4-5% per essere
sostenibile senza ulteriori misure di austerità, mentre il percorso di crescita
dell’economia greca, nel medio periodo, sembra assestato attorno ad un ben più
modesto 1,5-2%. La deriva sociale e di impoverimento proseguirà quindi negli
anni a venire, in un Paese che dal 2010 ha perso il 35% di popolazione attiva,
fra emigrazione e caduta nelle non forze di lavoro, e che entro il 2050 avrà
più del 33% di popolazione ultrasessantacinquenne, a causa di un tasso di natalità,
depresso dalla crisi, fra i più bassi d’Europa. La Grecia si avvia a diventare
una sorta di pensionato povero per anziani nel prossimo trentennio. Le leve
principali dell’economia greca sono oramai in mani straniere: il porto del
Pireo, la rete aeroportuale, ed altri asset di valore, ivi compresi monumenti e
spiagge, sono stati privatizzati e venduti a stranieri.
I risultati di questa “cura” sono
disastrosi anche sotto il profilo macroeconomico: il Paese ha perso il 25% del
suo PIL fra 2008 e 2017, ai ritmi di crescita attuali ci vorranno almeno 20
anni per recuperare i livelli pre-crisi di ricchezza, sempre che la
prosecuzione dell’austerità consenta di sostenere la pur mediocre crescita dell’ultimo
biennio. Il debito pubblico, che al 2010 era del 146% del PIL, è schizzato al
180%, compromettendo per sempre ogni possibilità di autonomia finanziaria del
Paese (essendo in larga misura un debito detenuto da soggetti esteri). Questo risultato
così disastroso è stato ottenuto con un programma di aiuti, pari a 273 miliardi
di euro, di entità superiore al Pil di Paesi come il Portogallo o la Danimarca.
E’ difficile immaginare come una
eventuale uscita dall’euro del Paese avrebbe potuto conseguire risultati
sociali ed economici peggiori di questo. E’ ovvio che la scelta di tenere il
Paese dentro l’euro è stata fatta per preservare gli interessi delle banche
creditrici, soprattutto tedesche e francesi, terrorizzate da una svalutazione
dei loro crediti in euro in caso di ridenominazione in dracme, non per ottenere
il “meno peggio” per la popolazione. Da questo punto di vista, la
responsabilità storica che Tsipras dovrà sostenere, nonostante i suoi ipocriti
festeggiamenti, è tanto enorme che non si capisce come possa sostenerla con
tanta leggerezza, a meno di non ipotizzare che soffra di turbe psichiche molto
gravi.
Certo, il discorso qui è
complesso. Tsipras ha preso in mano un Paese già compromesso dalla crisi
speculativa del suo debito, non più vendibile sul mercato e quindi nelle
condizioni, senza sovranità monetaria, di non poter pagare più nemmeno gli
stipendi ai funzionari pubblici, e con un sistema dei pagamenti al collasso,
che solo il programma ELA ha consentito di tenere in piedi evitando l’esproprio
di tutti i depositi bancari e il congelamento totale dei prestiti (peraltro
insufficienti a salvare le banche dal collasso stesso). Va al governo di una
economia priva di una industria di sostituzione delle importazioni e
completamente dipendente dagli afflussi di turisti da altri Paesi dell’area
euro e dall’export agroalimentare verso l’area euro stessa, per la quale una
ipotesi di autarchia a seguito di uscita dall’euro era improponibile. Gode di un
consenso mirato a modificare il piano di ristrutturazione, non per uscire dall’euro,
ipotesi che terrorizza l’elettorato.
Ma le giustificazioni finiscono
qui. Nel momento in cui Tsipras si rende conto che il memorandum non è
modificabile, se non in peggio, solo pochi giorni dopo un referendum popolare
che a larghissima maggioranza gli ha affidato il mandato di rinegoziare, l’unica
cosa da NON fare era quella di accettarlo passivamente. Detta in altri termini:
se nel momento era necessario firmarlo, perché la morsa del blocco della
liquidità della Bce stava portando il sistema bancario al tracollo, Tsipras
porta la responsabilità di averlo applicato in modo pressoché fedelissimo
(tranne piccoli scostamenti del tutto simbolici, ad esempio esperimenti di
reintroduzione della contrattazione collettiva e/o di un reddito di povertà). Un
mix di disobbedienza contenuta (non tale da comportare il blocco del piano di
aiuti cui, ricordiamolo, erano interessate Germania, Francia ed altri creditori
euro in primis, perché serviva per tenere il malato in coma farmacologico il
tempo necessario per far recuperare i soldi ai propri creditori bancari) e di
esperimenti innovativi (l’introduzione di una moneta parallela per i pagamenti
interni o di un sistema come i CCF, in questo caso, sarebbe stata utilissima
per ridurre la dipendenza dalla liquidità della Bce e rianimare la domanda
interna) avrebbero consentito di ammortizzare gli effetti sociali devastanti di
un pur necessario assoggettamento del Paese ai diktat europei. Certe privatizzazioni
che, dal punto di vista simbolico, hanno depredato il Paese della sua identità,
dovevano essere cancellate dati alla mano, nel momento in cui si dimostrava che
non riducevano il debito pubblico, che anzi è cresciuto. Una battaglia per conservare
margini di autonomia nazionale nella programmazione e gestione di forme di
politica industriale, anche per imprese pubbliche in settori strategici per il
Paese (turismo, agroindustria, industria di base) andava quantomeno tentata.
Tsipras ha invece fatto i
compiti, come scolaretto diligente, credo soprattutto per il timore di una
qualche forma di colpo di Stato che lo avrebbe esautorato, o di qualche “incidente”
che lo avrebbe ucciso. Raggiungendo il culmine della sua indegnità personale e
politica, in barba alle sofferenze del suo popolo, oggi ha anche il coraggio di
festeggiare, insieme alla Trojka, la “fine” (del tutto apparente, come detto
prima) del programma di aiuti, come un vero traditore sociale. Così facendo, ha
condannato l’unica esperienza di sinistra di governo in Europa (al netto dei
timidi socialisti portoghesi) ad un miserrimo fallimento. Che dimostra una sola
cosa, di cui tenere conto anche per l’Italia: la sinistra, nel migliore dei
casi (quando cioè non è venduta agli interessi extranazionali, come avviene da
noi) è moralmente, culturalmente e politicamente inservibile, in questa fase
storica. E’ un arnese guasto irrimediabilmente, da buttare via senza grandi
rimpianti.
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