Si va delineando, in termini
ovviamente ancora molto generali, la manovra di bilancio del Governo
gialloverde. Le indicazioni fornite da Tria in una lunga intervista sul Sole 24
Ore sono infatti piuttosto significative. Da un lato, si punterà (probabilmente
mettendo sul piatto anche la relazione privilegiata costruita con Trump, oltre
che il timore di altri Stati membri che l’attuale fase di rallentamento della
crescita si trasformi in una nuova recessione globale – non è un caso che Tria
dica “non è nell’interesse della Commissione Ue una nuova fase di instabilità”)
ad ottenere in sede europea una ulteriore flessibilità nel percorso di convergenza
verso il pareggio strutturale di bilancio (si parla sottovoce della richiesta di
un anno di slittamento nel conseguimento del pareggio strutturale, dal 2020 al
2021, una cosa che, se ottenuta, libererebbe circa 13 miliardi di maggiore
margine, di fatto coprendo la disattivazione delle clausole di salvaguardia,
che costa 12,4 miliardi).
Tale richiesta sarà supportata,
come dice Tria, da una ricomposizione del bilancio dello Stato, mediante un
maggiore peso della spesa in conto capitale rispetto a quella corrente. E ciò
si otterrebbe sia con una spending review di tipo selettivo (che non incida
cioè su voci come la scuola, la ricerca e la sanità) sul versante della spesa
corrente, sia con una ripresa degli investimenti pubblici “a costo zero”,
cercando, anche con una revisione semplificatrice del codice degli appalti, di
sbloccare investimenti per i quali la spesa è già stata stanziata in esercizi
precedenti, ma rimasti bloccati dall’assenza della progettazione definitiva o
dalle farraginosità amministrative (gli effetti finanziari dello sblocco di
investimenti già finanziati, quindi, sarebbero meramente contabili, spostando
la competenza al 2019, ma non effettivi, essendo già stati previsti gli
appostamenti di bilancio necessari).
Dall’altro lato, si cercherà di
dare avvio a moduli “sperimentali” e non definitivi dei due provvedimenti di
bandiera, ovvero la flat tax ed il reddito di cittadinanza. La prima bandiera
(la flat tax) prevederà, probabilmente, l’estensione del regime fiscale
forfettario ad aliquota unica già esistente per autonomi, piccoli imprenditori
ed artigiani ed una prima rimodulazione/riduzione del numero di aliquote e
scaglioni dell’Irpef. Tale operazione sarà finanziata con un taglio alle tax expenditures
ed ai bonus (ivi compreso quello degli 80 euro) con il vincolo che il nuovo
sistema che ne esca non danneggi fiscalmente nessuno (quindi i redditi
medio-bassi dovrebbero rimanere al riparo dal taglio delle deduzioni e
detrazioni più tipiche di tale fascia reddituale, e compensare la perdita degli
80 euro con un aumento della no-tax area).
La seconda ingloberà strumenti
welfaristici già esistenti (sicuramente il reddito di inclusione già varato dal
Governo Gentiloni, gli strumenti di lotta alla povertà e forse qualche altro
strumento assistenziale esistente) dentro uno strumento unico, coprendo la
parte delle politiche attive di inclusione mediante il FSE (il che richiederà,
probabilmente, una riprogrammazione dei PO regionali FSE per centralizzare le
risorse a beneficio di Anpal, al fine di potenziare i Centri per l’Impiego,
destinatari di maggiori risorse umane tramite la concentrazione su tale settore
delle assunzioni previste per la PA). In questo caso, probabilmente, l’attuazione
dello strumento universalistico sarà limitata ad una prima fase sperimentale, poiché,
come Tria ha specificato, il pieno dispiegamento dello strumento andrà
conseguito, anno per anno, in funzione delle maggiori risorse che dovessero
rendersi disponibili. Probabilmente, con la prossima legge di bilancio, vedremo
soltanto la nascita di uno strumento “a costo zero”, che ingloba cioè diversi
strumenti assistenziali i cui costi sono già a carico del bilancio dello Stato,
con un meccanismo più semplice e diretto nell’accesso ai benefici monetari da
parte dei beneficiari (che, con le norme ed i controlli attuali, spesso devono
attendere dei mesi dalla domanda per poter percepire il contributo) e con una
prima previsione di investimento nel potenziamento dei Centri per l’Impiego in
funzione di ricollocazione dei soggetti sul mercato del lavoro.
Per il resto, filtra davvero
poco. La questione delle grandi infrastrutture (TAP e TAV) non indifferente in termini
di creazione di occupazione di cantiere e quindi di crescita rimane riservata
alla discussione politica in atto fra i due contraenti della maggioranza. Di
sicuro, dovrebbe esserci la proroga degli incentivi fiscali all’acquisto di
beni capitali nuovi (il super e l’iper ammortamento) che saranno quindi
rifinanziati. Di Maio ha anticipato l’inserimento di una misura di riduzione
del cuneo fiscale e contributivo per nuove assunzioni a tempo indeterminato, ma
il silenzio di Tria lascia percepire che le coperture finanziarie non sono
state ancora trovate.
Possiamo interrogarci sul
contenuto espansivo di tali misure, anche se la discussione è relativamente
sterile, nella misura in cui una legge di bilancio fatta a saldo zero è
intrinsecamente non espansiva ma, d’altra parte, il rilancio degli investimenti
pubblici bloccati e di misure fiscali ed assistenziali possono generare effetti
occupazionali di cantiere, da un lato, e migliori aspettative, con un riflesso
sui consumi e la domanda aggregata, dall’altro. Ciò che deve preoccupare in
termini di profilo futuro della crescita è, piuttosto, la fine prematura della
politica monetaria espansiva della Bce che, in una fase in cui la crescita
globale è ancora debole ed incerta, anche a causa delle crescenti tensioni
internazionali, potrebbe indurre un aumento del tasso di interesse, in un contesto
in cui le banche non hanno ancora raggiunto livelli ottimali di equilibrio nel
proprio portafoglio di attività ponderato per il rischio e quindi non sono
ancora in grado di sostenere una espansione del credito elevata. Tra l’altro,
la crescita del valore dei derivati sui tassi di interesse negoziati sui
mercati over the counter, che nel 2016, con i suoi 3.000 miliardi di dollari,
ha raggiunto una massa pari al 140% di quella degli anni pre-crisi (dato di
fonte Banca dei Regolamenti Internazionali), indica un pericoloso mix fra sviluppo
di posizioni speculative e Ponzi-type in assenza di un vero e proprio boom
economico, ma di una crescita ancora modesta.
Questi sono i veri rischi della
crescita, e si risolvono soltanto con una regolamentazione internazionale della
crescita della finanza speculativa e del ruolo di prestatore di ultima istanza
delle Banche Centrali, nonché con strumenti e metodologie più accurate di early
warning in corrispondenza di possibili crisi finanziarie e con politiche
moderate e selettive di protezione delle produzioni interne nei confronti delle
economie emergenti a forte dumping sociale, non certo facendo grandi analisi
sulla legge di bilancio di un singolo Paese.
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