Gramsci is dead? Era il titolo
provocatorio di un pamphlet prodotto durante la fase del movimento no-global e,
in una logica anarco-movimentista, aveva il senso di chiedersi se un partito di
massa tradizionale fosse ancora in grado di cogliere le istanze libertarie che
in quegli anni sembravano emergere.
La sconfitta di quel movimento ha
lasciato cadere quella domanda, che però oggi si ripropone rispetto al successo,
non solo italiano, dei populismi. Gramsci and Lenin are dead? La risposta è no,
ancora una volta, però un no che va qualificato bene, per essere realistico. Lo
schema tradizionale del partito-massa novecentesco, in cui il partito
trasformava la classe in sé in classe per sé mediante la sintesi di una domanda
sociale omogenea proveniente da blocchi sociali omogenei è entrato in crisi con
la liquefazione (per dirla alla Bauman) e la progressiva differenziazione
interna alle stesse classi sociali in termini di domanda sociale. Tali fenomeni
rendono pressoché impossibile per il partito-massa dare rappresentanza ad
istanze spesso conflittuali fra loro. Il precario cognitivo non ha
tendenzialmente la stessa domanda sociale del lavoratore ancora tutelato dal
vecchio articolo 18, il lavoratore della new economy è una figura sfuggente, con
caratteristiche ibride fra il tradizionale proletariato e la tradizionale piccola
borghesia, non essendo né l’uno né l’altra, lo stesso proletariato industriale,
dopo la fine del fordismo e l’adozione dei modelli di qualità totale, assume
approcci che sono collaborativi, o comunque meno conflittuali del passato, rispetto
alla proprietà. Diventa allora pressoché impossibile incasellare dentro una
dottrina politica ed una base ideologica preconfezionate tali diversità e tali
contraddizioni. E ciò complica la vita ad un partito-massa “classico”.
I populismi, rinunciando ab
origine ad avere una dottrina politica ed una base ideologica hanno, da questo
punto di vista, un vantaggio competitivo evidente, perché non pretendono di
costruire una sintesi di una domanda sociale omogenea ma, inserendosi con
grande capacità di ascolto nelle differenze interne che disgregano l’unitarietà
della domanda sociale, forniscono risposte differenziate, talvolta “conflittuali”,
se viste con le lenti del conflitto di classe: oggi fanno il Decreto Dignità
con il quale restituiscono diritti ai lavoratori a tempo determinato, domani
fanno un provvedimento fiscale favorevole alle imprese. Oggi si scagliano
contro la Fornero, domani fanno la flat tax, o viceversa. Si adattano in forma
camaleontica alla differenziazione interna della domanda sociale del loro
blocco sociale, fornendo un set differenziato di risposte, talché l’errore
caratteristico di chi gli si oppone da sinistra è quello di voler far rilevare
tali contraddizioni, che però contraddizioni non sono: aggregando un blocco
sociale disomogeneo, occorre avere una tastiera completa di risposte possibili.
Non rappresentando una classe sociale ben delimitata, quanto piuttosto un
aggregato sociale composito, si forniscono segmenti di risposte, non risposte
complete, per accontentare segmenti di classe sociale. L’apparente
contraddittorietà della linea politica dei populismi ne costituisce la forza.
Ma allora Mélenchon, e Corbyn, e
Sanders, è la domanda spontanea da porsi per cercare di analizzare il motivo
del loro successo in Paesi dove i populismi, a vario titolo, sono forti? In realtà
non c’è risposta univoca a tale domanda. Mélenchon e Sanders (così come
Podemos) hanno, per certi versi, replicato alcune caratteristiche dei
populismi, ad esempio la grande rilevanza della figura del leader che schiaccia
quella dell’organizzazione partitica, che ne diventa, con gradazioni diverse
(ad esempio, con minore gradazione in Podemos, dove il dibattito interno è
vivace) una appendice. Corbyn, invece, si è preso l’ultimo dei grandi partiti
socialdemocratici di massa (perché Spd, Psf, Psoe e Pd non sono più
socialdemocratici) ma anche in questo caso impone il suo potere con il carisma
della sua leadership, non con l’articolazione organizzativa di una corrente
interna robusta e relativamente “autonoma” dal suo capo.
Inoltre, tutte queste sinistre
sopravvissute al cataclisma hanno saputo evitare la “crisi da rappresentanza”
collegandosi a tematiche trasversali, generali, così generali e trasversali da
tagliare orizzontalmente la grande differenziazione della domanda sociale
indotta dalla liquefazione dei blocchi sociali novecenteschi: la giustizia
distributiva, che è tema che interessa il disoccupato come l’operaio come il
piccolo commerciante, la battaglia contro la globalizzazione in nome di forme
di ritorno a sovranismi, che interessa il piccolo imprenditore come il suo
dipendente, il ritorno verso una attenzione al tema dell’ecosostenibilità dei
processi produttivi, che è oramai preoccupazione diffusa in tutti i gruppi
sociali, nella specificità spagnola la partecipazione dal basso e la difesa
degli autonomismi hanno contribuito fortemente al successo di Podemos.
In altri termini, le sinistre
sopravvissute al massacro hanno identificato alcuni temi strategici
cross-cutting che evitano di disperdersi nel grande frazionamento della domanda
sociale e nell’elasticità un po’ random delle risposte offerte dai populismi,
ed in questo modo, su questi temi strategici trasversali, hanno potuto
conservare quella capacità di proporre una linea politica di sintesi, basata
anche su una piattaforma ideologica che recupera pezzi di identità tradizionale
socialista. Sintesi strategica e ideologizzazione delle questioni che erano i
due ingredienti di successo del socialismo storico. Ma così facendo,
inconsapevolmente, si pongono su un piano più collaborativo che conflittuale
con i populismi, perché, dopo la battaglia elettorale, tali sinistre forniscono,
su alcune questioni, un framework entro il quale lavorano anche i populismi. Parlare
di patriottismo costituzionale e di lotta agli aspetti più iniqui della
globalizzazione riviene, in definitiva, a dover collaborare con i populismi,
quando essi affrontano la stessa questione. Rivendicare maggiore giustizia
sociale finisce per incrociare i populismi quando essi, ad esempio, propongono
strumenti come il reddito di cittadinanza.
Naturalmente, in Paesi dove la
sinistra è ancora radicata socialmente, tale collaborazione si può fare “da
pari a pari”, senza escludere fasi di confronto e di contrasto, quando le
strade divergono. In Italia, invece, la sinistra si è suicidata scegliendo, di
volta in volta, i temi cross-cutting sbagliati, dai diritti civili all’eurismo
buono e pacifista, dal multiculturalismo in termini indifferenziati rispetto
all’immigrazione alla canna libera. Temi che irritavano o, al meglio,
lasciavano indifferente gran parte della società. Non riuscendo a uscire da
tale trappola, anche in ragione di un notevole quantum di opportunismo cinico
da parte dei gruppi dirigenti della sinistra (tali temi garantivano comode
coalizioni con il Pd, perché non disturbavano il manovratore, e quindi
assicuravano un tot di posti di lavoro in Parlamento e nelle istituzioni, oltre
che nel sottobosco della sottopolitica), nel nostro Paese si è avuto come
risultato che i settori sociali di tradizionale insediamento della sinistra
hanno vinto. Lo hanno fatto abbandonando la sinistra e trasferendosi nei
populismi.
Per questo non c'è chance di
recupero, perché il radicamento sociale oggi ha trovato rappresentanza in forma
stabile con una formula politica che è addirittura al governo, lasciando la
sinistra politica nella pattumiera della storia. La qualità della sconfitta è
quindi strutturale, gli strati popolari scelgono una via diversa, e riescono a
trovarvi una vittoria elettorale, sia pur dentro un blocco sociale che include
la piccola borghesia. Se non capiamo il salto di gravità della crisi della
sinistra, non potremo che intestardirci in ennesimi esperimenti di autonomia,
magari confidando nell'uomo della provvidenza, che però si rivela mediocre
amministratore ed incapace di uscire dal suo micro bacino localistico di
consenso (De Magistris) oppure confidando in idee corrette, con la speranza di
poterle diffondere in un corpo politico esausto e obsoleto, disperdendole
(Fassina) o ancora affidandosi a movimentismi senza vento (Pap-test) o
rifugiandosi in un sellismo 2.0 appena più radicalizzato, che vale il 2% dei
ceti medi globalizzati.
Evidentemente, quindi, non
essendovi più radicamento sociale e non essendovi più credibilità politica per
riconquistarlo, perché francamente agli occhi della maggior parte degli
italiani la sinistra appare come qualcosa che oscilla fra inutilità
folkloristica e opportunismo carrieristico, l’unica strada percorribile è
quella di ricostruire i legami con il popolo laddove il popolo è andato, ovvero
nella pancia dei populismi. Forme di collaborazione mirate a ridurre l’eclettismo
sociale dei populismi, inducendoli a spostarsi su prospettive più egualitarie e
progressiste, possono essere sperimentate soltanto con esperimenti
coalizionali, non certo dalla sterilità di una microscopica pattuglia
parlamentare senza visibilità, o con iniziative ridicole e perlopiù odiose alla
massa degli italiani, come le crociere sulle navi ONG, o ancora con ridicole ed
astoriche ricostruzioni di presunti fascismi o assurde accuse di razzismo, cui
nessuno (giustamente) presta ascolto, isolandosi in una opposizione pecoreccia,
insultante, paranoica e francamente inutile.
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