sabato 11 agosto 2018

Gramsci and Lenin are dead or alive?



Gramsci is dead? Era il titolo provocatorio di un pamphlet prodotto durante la fase del movimento no-global e, in una logica anarco-movimentista, aveva il senso di chiedersi se un partito di massa tradizionale fosse ancora in grado di cogliere le istanze libertarie che in quegli anni sembravano emergere.
La sconfitta di quel movimento ha lasciato cadere quella domanda, che però oggi si ripropone rispetto al successo, non solo italiano, dei populismi. Gramsci and Lenin are dead? La risposta è no, ancora una volta, però un no che va qualificato bene, per essere realistico. Lo schema tradizionale del partito-massa novecentesco, in cui il partito trasformava la classe in sé in classe per sé mediante la sintesi di una domanda sociale omogenea proveniente da blocchi sociali omogenei è entrato in crisi con la liquefazione (per dirla alla Bauman) e la progressiva differenziazione interna alle stesse classi sociali in termini di domanda sociale. Tali fenomeni rendono pressoché impossibile per il partito-massa dare rappresentanza ad istanze spesso conflittuali fra loro. Il precario cognitivo non ha tendenzialmente la stessa domanda sociale del lavoratore ancora tutelato dal vecchio articolo 18, il lavoratore della new economy è una figura sfuggente, con caratteristiche ibride fra il tradizionale proletariato e la tradizionale piccola borghesia, non essendo né l’uno né l’altra, lo stesso proletariato industriale, dopo la fine del fordismo e l’adozione dei modelli di qualità totale, assume approcci che sono collaborativi, o comunque meno conflittuali del passato, rispetto alla proprietà. Diventa allora pressoché impossibile incasellare dentro una dottrina politica ed una base ideologica preconfezionate tali diversità e tali contraddizioni. E ciò complica la vita ad un partito-massa “classico”.
I populismi, rinunciando ab origine ad avere una dottrina politica ed una base ideologica hanno, da questo punto di vista, un vantaggio competitivo evidente, perché non pretendono di costruire una sintesi di una domanda sociale omogenea ma, inserendosi con grande capacità di ascolto nelle differenze interne che disgregano l’unitarietà della domanda sociale, forniscono risposte differenziate, talvolta “conflittuali”, se viste con le lenti del conflitto di classe: oggi fanno il Decreto Dignità con il quale restituiscono diritti ai lavoratori a tempo determinato, domani fanno un provvedimento fiscale favorevole alle imprese. Oggi si scagliano contro la Fornero, domani fanno la flat tax, o viceversa. Si adattano in forma camaleontica alla differenziazione interna della domanda sociale del loro blocco sociale, fornendo un set differenziato di risposte, talché l’errore caratteristico di chi gli si oppone da sinistra è quello di voler far rilevare tali contraddizioni, che però contraddizioni non sono: aggregando un blocco sociale disomogeneo, occorre avere una tastiera completa di risposte possibili. Non rappresentando una classe sociale ben delimitata, quanto piuttosto un aggregato sociale composito, si forniscono segmenti di risposte, non risposte complete, per accontentare segmenti di classe sociale. L’apparente contraddittorietà della linea politica dei populismi ne costituisce la forza.
Ma allora Mélenchon, e Corbyn, e Sanders, è la domanda spontanea da porsi per cercare di analizzare il motivo del loro successo in Paesi dove i populismi, a vario titolo, sono forti? In realtà non c’è risposta univoca a tale domanda. Mélenchon e Sanders (così come Podemos) hanno, per certi versi, replicato alcune caratteristiche dei populismi, ad esempio la grande rilevanza della figura del leader che schiaccia quella dell’organizzazione partitica, che ne diventa, con gradazioni diverse (ad esempio, con minore gradazione in Podemos, dove il dibattito interno è vivace) una appendice. Corbyn, invece, si è preso l’ultimo dei grandi partiti socialdemocratici di massa (perché Spd, Psf, Psoe e Pd non sono più socialdemocratici) ma anche in questo caso impone il suo potere con il carisma della sua leadership, non con l’articolazione organizzativa di una corrente interna robusta e relativamente “autonoma” dal suo capo.
Inoltre, tutte queste sinistre sopravvissute al cataclisma hanno saputo evitare la “crisi da rappresentanza” collegandosi a tematiche trasversali, generali, così generali e trasversali da tagliare orizzontalmente la grande differenziazione della domanda sociale indotta dalla liquefazione dei blocchi sociali novecenteschi: la giustizia distributiva, che è tema che interessa il disoccupato come l’operaio come il piccolo commerciante, la battaglia contro la globalizzazione in nome di forme di ritorno a sovranismi, che interessa il piccolo imprenditore come il suo dipendente, il ritorno verso una attenzione al tema dell’ecosostenibilità dei processi produttivi, che è oramai preoccupazione diffusa in tutti i gruppi sociali, nella specificità spagnola la partecipazione dal basso e la difesa degli autonomismi hanno contribuito fortemente al successo di Podemos.
In altri termini, le sinistre sopravvissute al massacro hanno identificato alcuni temi strategici cross-cutting che evitano di disperdersi nel grande frazionamento della domanda sociale e nell’elasticità un po’ random delle risposte offerte dai populismi, ed in questo modo, su questi temi strategici trasversali, hanno potuto conservare quella capacità di proporre una linea politica di sintesi, basata anche su una piattaforma ideologica che recupera pezzi di identità tradizionale socialista. Sintesi strategica e ideologizzazione delle questioni che erano i due ingredienti di successo del socialismo storico. Ma così facendo, inconsapevolmente, si pongono su un piano più collaborativo che conflittuale con i populismi, perché, dopo la battaglia elettorale, tali sinistre forniscono, su alcune questioni, un framework entro il quale lavorano anche i populismi. Parlare di patriottismo costituzionale e di lotta agli aspetti più iniqui della globalizzazione riviene, in definitiva, a dover collaborare con i populismi, quando essi affrontano la stessa questione. Rivendicare maggiore giustizia sociale finisce per incrociare i populismi quando essi, ad esempio, propongono strumenti come il reddito di cittadinanza.
Naturalmente, in Paesi dove la sinistra è ancora radicata socialmente, tale collaborazione si può fare “da pari a pari”, senza escludere fasi di confronto e di contrasto, quando le strade divergono. In Italia, invece, la sinistra si è suicidata scegliendo, di volta in volta, i temi cross-cutting sbagliati, dai diritti civili all’eurismo buono e pacifista, dal multiculturalismo in termini indifferenziati rispetto all’immigrazione alla canna libera. Temi che irritavano o, al meglio, lasciavano indifferente gran parte della società. Non riuscendo a uscire da tale trappola, anche in ragione di un notevole quantum di opportunismo cinico da parte dei gruppi dirigenti della sinistra (tali temi garantivano comode coalizioni con il Pd, perché non disturbavano il manovratore, e quindi assicuravano un tot di posti di lavoro in Parlamento e nelle istituzioni, oltre che nel sottobosco della sottopolitica), nel nostro Paese si è avuto come risultato che i settori sociali di tradizionale insediamento della sinistra hanno vinto. Lo hanno fatto abbandonando la sinistra e trasferendosi nei populismi.
Per questo non c'è chance di recupero, perché il radicamento sociale oggi ha trovato rappresentanza in forma stabile con una formula politica che è addirittura al governo, lasciando la sinistra politica nella pattumiera della storia. La qualità della sconfitta è quindi strutturale, gli strati popolari scelgono una via diversa, e riescono a trovarvi una vittoria elettorale, sia pur dentro un blocco sociale che include la piccola borghesia. Se non capiamo il salto di gravità della crisi della sinistra, non potremo che intestardirci in ennesimi esperimenti di autonomia, magari confidando nell'uomo della provvidenza, che però si rivela mediocre amministratore ed incapace di uscire dal suo micro bacino localistico di consenso (De Magistris) oppure confidando in idee corrette, con la speranza di poterle diffondere in un corpo politico esausto e obsoleto, disperdendole (Fassina) o ancora affidandosi a movimentismi senza vento (Pap-test) o rifugiandosi in un sellismo 2.0 appena più radicalizzato, che vale il 2% dei ceti medi globalizzati.
Evidentemente, quindi, non essendovi più radicamento sociale e non essendovi più credibilità politica per riconquistarlo, perché francamente agli occhi della maggior parte degli italiani la sinistra appare come qualcosa che oscilla fra inutilità folkloristica e opportunismo carrieristico, l’unica strada percorribile è quella di ricostruire i legami con il popolo laddove il popolo è andato, ovvero nella pancia dei populismi. Forme di collaborazione mirate a ridurre l’eclettismo sociale dei populismi, inducendoli a spostarsi su prospettive più egualitarie e progressiste, possono essere sperimentate soltanto con esperimenti coalizionali, non certo dalla sterilità di una microscopica pattuglia parlamentare senza visibilità, o con iniziative ridicole e perlopiù odiose alla massa degli italiani, come le crociere sulle navi ONG, o ancora con ridicole ed astoriche ricostruzioni di presunti fascismi o assurde accuse di razzismo, cui nessuno (giustamente) presta ascolto, isolandosi in una opposizione pecoreccia, insultante, paranoica e francamente inutile. 

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