Lunedì 22 ottobre arriverà in
Consiglio dei Ministri il disegno di legge sul cosiddetto “federalismo
differenziato”, ovvero la richiesta, ai sensi dell’articolo 116 della
Costituzione, di concessione di maggiore autonomia alle Regioni Veneto e
Lombardia, a seguiti di un referendum tenutosi in tali regioni.
Su tale iniziativa, si è
scatenato un coro di protesta di un meridionalismo erede più del versante di
Menichella e del meridionalismo cattolico, fondato sui trasferimenti statali
perequativi, che su quello di Salvemini, di impronta socialista riformista, e
favorevole anche a forme di federalismo. La protesta contro il provvedimento
verte sul principio per il quale, se si lasciano alle due regioni più
sviluppate del Paese maggiori quote di gettito fiscale prodotto sul loro territorio,
ciò avrà un effetto in termini di minore perequazione finanziaria per il
Mezzogiorno.
L’argomento è però fallace non
soltanto perché già oggi, a legislazione vigente, la spesa per lo sviluppo è
squilibrata: i Conti Pubblici Territoriali ci dicono che la spesa pubblica
totale netta pro capite nel Mezzogiorno è il 29% del totale nazionale, pur
avendo tale ripartizione più del 34% della popolazione italiana. La spesa in
conto capitale, più direttamente connessa con lo sviluppo, è stata, negli
ultimi sedici anni, più alta al Centro Nord, in termini pro capite. Quindi non
serve un cambiamento di assetto istituzionale per riorientare a svantaggio del
Sud il flusso di risorse pubbliche. Tale riorientamento è già in atto da molti
anni.
La lamentela è errata soprattutto
perché occorre vedere come sarà attuato il federalismo differenziato. Se, come
sembra dalle indiscrezioni relative al ddl, la maggiore quota di
compartecipazione fiscale alle due regioni in esame sarà esattamente
commisurata al costo storico di quota regionale dei servizi e delle competenze
per i quali si richiede la totale devoluzione, allora, in linea di principio,
non vi sarà nessuno squilibrio sperequativo: lo Stato lascerà come gettito
fiscale ciò che oggi spende, in quelle stesse regioni, per gestire i servizi.
La massa di risorse da redistribuire, anche in chiave perequativa, rimarrà
inalterata. Certo, diverso sarebbe se il parametro fosse quello dei costi
standard, ovvero dei costi più efficienti per gestire servizi o acquistare
beni. In presenza di strutturali differenze di efficienza amministrativa fra
regioni del Nord e del Sud, il criterio dei costi standard per la
determinazione della compartecipazione fiscale regionale sarebbe oggettivamente
penalizzante. Ma non è questo il caso.
Quindi, lasciando perdere assurde
polemiche sulle questioni finanziarie e perequative, il vero tema su cui
interrogarsi è quello del modello di Stato che vogliamo, e che riteniamo più
utile per il nostro Paese. Cosa è meglio per l’Italia? Un modello centralistico
che redistribuisce le risorse sulla base di una programmazione generale ed
astratta, o un modello federalistico, in cui le singole Regioni programmano su
scala territoriale e delegano alle Città Metropolitane, ai Comuni ed alle loro
forme associazionistiche pianificazione e gestione?
Il punto di partenza è quello di
superare l’attuale regionalismo, una scelta intermedia fra i due poli, che ne
accumula i difetti reciproci, esaurendosi, da un lato, in una interminabile
polemica sui limiti delle reciproche competenze rispetto alle materie del
secondo comma dell’articolo 117, ed in una istituzione regionale che non è né
carne né pesce, ente programmatore ed al contempo gestore, finendo quindi per
creare eccessiva accumulazione di poteri (sia programmatori che di gestione) e
per produrre piccole baronie localistiche e consociative.
Detto questo, e reso l’onore
delle armi al modello centralistico, che nel secondo dopoguerra, prima che
fossero istituite le Regioni, è stato protagonista della fase più dinamica
dello sviluppo economico e sociale italiano e della riduzione del gap di
sviluppo del Mezzogiorno, non vi è dubbio che il modello federalistico si
attagli meglio alle differenze culturali e di stile di vita che caratterizzano
un Paese il cui processo di unità nazionale non si è mai compiuto
integralmente. Come premesso, lo stesso Salvemini, insieme a Colajanni e
Ciccotti, riteneva che il federalismo fosse preferibile per lo stesso
Mezzogiorno, al fine di ridurre gli effetti nefasti del centralismo, in termini
di asservimento del notabilato locale agli interessi politici ed alla bulimia
amministrativa di Roma.
Un sano federalismo, ad esempio
alla tedesca, in cui il principio della concorrenzialità sulle materie sia
circoscritto dalla primazia della legislazione federale e dal principio della
garanzia di “eguali condizioni di vita”, come recita la Costituzione tedesca,
servirebbe, forse, per ridare senso alle Regioni come istituzioni di programmazione
dello sviluppo locale, per ricostruire capitale sociale di prossimità, nella
difficoltà di giungere alfine alla costruzione di una identità nazionale, per
rendere più responsabile il rapporto fra amministratore ed amministrato.
Per questo, forse, un tema così
importante avrebbe meritato di essere trattato unitariamente, con tutte le
regioni, e non solo con le due più veloci e più forti. Si rischia di far
decadere un tema fondamentale per il futuro del Paese in una speculazione di
interessi locali ed elettoralistici. Chi vuole essere destra nazionale questo
tema se lo deve porre.
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