domenica 21 ottobre 2018

Federalismo differenziato: falsi timori e questioni reali





Lunedì 22 ottobre arriverà in Consiglio dei Ministri il disegno di legge sul cosiddetto “federalismo differenziato”, ovvero la richiesta, ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, di concessione di maggiore autonomia alle Regioni Veneto e Lombardia, a seguiti di un referendum tenutosi in tali regioni.
Su tale iniziativa, si è scatenato un coro di protesta di un meridionalismo erede più del versante di Menichella e del meridionalismo cattolico, fondato sui trasferimenti statali perequativi, che su quello di Salvemini, di impronta socialista riformista, e favorevole anche a forme di federalismo. La protesta contro il provvedimento verte sul principio per il quale, se si lasciano alle due regioni più sviluppate del Paese maggiori quote di gettito fiscale prodotto sul loro territorio, ciò avrà un effetto in termini di minore perequazione finanziaria per il Mezzogiorno.
L’argomento è però fallace non soltanto perché già oggi, a legislazione vigente, la spesa per lo sviluppo è squilibrata: i Conti Pubblici Territoriali ci dicono che la spesa pubblica totale netta pro capite nel Mezzogiorno è il 29% del totale nazionale, pur avendo tale ripartizione più del 34% della popolazione italiana. La spesa in conto capitale, più direttamente connessa con lo sviluppo, è stata, negli ultimi sedici anni, più alta al Centro Nord, in termini pro capite. Quindi non serve un cambiamento di assetto istituzionale per riorientare a svantaggio del Sud il flusso di risorse pubbliche. Tale riorientamento è già in atto da molti anni.
La lamentela è errata soprattutto perché occorre vedere come sarà attuato il federalismo differenziato. Se, come sembra dalle indiscrezioni relative al ddl, la maggiore quota di compartecipazione fiscale alle due regioni in esame sarà esattamente commisurata al costo storico di quota regionale dei servizi e delle competenze per i quali si richiede la totale devoluzione, allora, in linea di principio, non vi sarà nessuno squilibrio sperequativo: lo Stato lascerà come gettito fiscale ciò che oggi spende, in quelle stesse regioni, per gestire i servizi. La massa di risorse da redistribuire, anche in chiave perequativa, rimarrà inalterata. Certo, diverso sarebbe se il parametro fosse quello dei costi standard, ovvero dei costi più efficienti per gestire servizi o acquistare beni. In presenza di strutturali differenze di efficienza amministrativa fra regioni del Nord e del Sud, il criterio dei costi standard per la determinazione della compartecipazione fiscale regionale sarebbe oggettivamente penalizzante. Ma non è questo il caso.
Quindi, lasciando perdere assurde polemiche sulle questioni finanziarie e perequative, il vero tema su cui interrogarsi è quello del modello di Stato che vogliamo, e che riteniamo più utile per il nostro Paese. Cosa è meglio per l’Italia? Un modello centralistico che redistribuisce le risorse sulla base di una programmazione generale ed astratta, o un modello federalistico, in cui le singole Regioni programmano su scala territoriale e delegano alle Città Metropolitane, ai Comuni ed alle loro forme associazionistiche pianificazione e gestione?
Il punto di partenza è quello di superare l’attuale regionalismo, una scelta intermedia fra i due poli, che ne accumula i difetti reciproci, esaurendosi, da un lato, in una interminabile polemica sui limiti delle reciproche competenze rispetto alle materie del secondo comma dell’articolo 117, ed in una istituzione regionale che non è né carne né pesce, ente programmatore ed al contempo gestore, finendo quindi per creare eccessiva accumulazione di poteri (sia programmatori che di gestione) e per produrre piccole baronie localistiche e consociative.
Detto questo, e reso l’onore delle armi al modello centralistico, che nel secondo dopoguerra, prima che fossero istituite le Regioni, è stato protagonista della fase più dinamica dello sviluppo economico e sociale italiano e della riduzione del gap di sviluppo del Mezzogiorno, non vi è dubbio che il modello federalistico si attagli meglio alle differenze culturali e di stile di vita che caratterizzano un Paese il cui processo di unità nazionale non si è mai compiuto integralmente. Come premesso, lo stesso Salvemini, insieme a Colajanni e Ciccotti, riteneva che il federalismo fosse preferibile per lo stesso Mezzogiorno, al fine di ridurre gli effetti nefasti del centralismo, in termini di asservimento del notabilato locale agli interessi politici ed alla bulimia amministrativa di Roma.
Un sano federalismo, ad esempio alla tedesca, in cui il principio della concorrenzialità sulle materie sia circoscritto dalla primazia della legislazione federale e dal principio della garanzia di “eguali condizioni di vita”, come recita la Costituzione tedesca, servirebbe, forse, per ridare senso alle Regioni come istituzioni di programmazione dello sviluppo locale, per ricostruire capitale sociale di prossimità, nella difficoltà di giungere alfine alla costruzione di una identità nazionale, per rendere più responsabile il rapporto fra amministratore ed amministrato.
Per questo, forse, un tema così importante avrebbe meritato di essere trattato unitariamente, con tutte le regioni, e non solo con le due più veloci e più forti. Si rischia di far decadere un tema fondamentale per il futuro del Paese in una speculazione di interessi locali ed elettoralistici. Chi vuole essere destra nazionale questo tema se lo deve porre.


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