Il programma di reddito di
cittadinanza promosso dai 5 Stelle ed accolto intelligentemente da Salvini va finalmente a colmare un ritardo che il
nostro sistema di welfare aveva rispetto agli altri Stati membri dell’Ue,
atteso che il programma messo in piedi dal Governo Gentiloni e dal prode Poletti
era poco più che una sperimentazione, viste le cifre modeste messe a
disposizione dalla destra economica rappresentata dal PD.
Dietro questa storia della
“moralità” della spesa del reddito di cittadinanza si sta consumando una
polemica senza senso, poiché essa ha un solo fine: parare il provvedimento sul
reddito di cittadinanza dalle critiche, miopi ed ingenerose, di un Paese
incarognito dalla crisi, che non è solo economica, ma anche morale e culturale.
Tutti questi che si preoccupano del presunto “parassitismo” di questo
provvedimento non capiscono che nei prossimi 10-20 anni sarà lo stesso concetto
di lavoro ad essere rimesso in discussione. Senza ripercorrere veteroluddismi,
non si è verificato mai nella storia che una ondata schumpeteriana di innovazione
tecnologica oramai alle porte, data dalla combinazione fra tecnologie
energetiche, micromeccatroniche, robotiche e di intelligenza artificiale, si
associasse allo spostamento strutturale della ricchezza e dell’occupazione
fuori dalle economie tradizionali dell’Occidente.
Le altre grandi rivoluzioni
tecnologiche si sono verificate o in epoche in cui i due terzi della
popolazione mondiale erano esterni al capitalismo, e non potevano esercitare
pressioni competitive sul mercato del lavoro dei Paesi occidentali che
introducevano le innovazioni, oppure, come nel caso dell’ultima ondata, quella
informatica/microelettronica, quando il primato economico dei capitalismi maturi
occidentali era ancora solido.
In questo caso, l’inevitabile
disoccupazione tecnologica che si produrrà sarà, nei nostri Paesi occidentali,
enormemente aggravata dallo spostamento della catena del valore capitalistico
fuori dalle nostre economie, verso quelle emergenti. Già oggi, il 23,5% del PIL
globale è prodotto da economie emergenti, ed il trend a medio termine parla di
un ulteriore incremento di tale quota negli anni a venire. Ciò produce un
fattore autonomo di pressione al ribasso sui mercati del lavoro delle economie
occidentali che rischia di associarsi alla imminente crescita della
disoccupazione tecnologica da ondata innovativa, aggravandone le dimensioni, e
richiedendo molti più anni, e molta più creazione di nuova ricchezza grazie ai
nuovi paradigmi produttivi, per essere riassorbita. Nel frattempo, la coesione
sociale dovrà essere garantita con strumenti che consentano ai disoccupati di
domani di sopravvivere dignitosamente, conservando anche la speranza di poter
essere reintrodotti nel mercato del lavoro tramite le politiche attive che
accompagnano l’erogazione monetaria.
Ignorare queste considerazioni
banali in nome di chiacchiericci stupidi, astratti e fuori dalla realtà, come
il primato dell’investimento sulla creazione di lavoro piuttosto che
sull’assistenzialismo, è indice di grettezza culturale nonché pericolosissimo ossequio
alla retorica neoliberista della competitività e della responsabilizzazione
individuale. Rischia di contribuire ad un futuro distopico in cui i pochissimi
sopravvissuti di una civiltà lavoristica si trincereranno dietro i muri della
loro cittadella, dove ancora c’è lavoro, per difendersi dalle masse di
disperati espulsi dal ciclo produttivo ed immiseriti fino all’inverosimile. Che
anche a sinistra si odano, qui e lì, vocine che assecondano la critica al
reddito di cittadinanza in nome di una astratta maggiore dignità del lavoro, è
solo uno dei sottoprodotti tossici che la decomposizione culturale della
sinistra italiana genera nella sua troppo lenta agonia.
Non parlo nemmeno della grettezza
di cuore di chi protesta perché con il suo lavoro dovrebbe mantenere dei
“fannulloni”. Costui meriterebbe semplicemente di essere ridotto in schiavitù e
messo a lavorare in una miniera a pane ed acqua.
Tornando alla polemica sulla
moralità dei consumi che saranno garantiti dal reddito di cittadinanza, quindi,
le frasi di Di Maio vanno interpretate come l’ennesima necessità di proteggere
il nascituro provvedimento dal perbenismo peloso degli esegeti della morale del
mercato libero e concorrenziale.
Nella pratica, in effetti, ai
tempi in cui progettammo, in Regione Basilicata, il prototipo dell’attuale
reddito di cittadinanza (era il lontano 2003) ci ponemmo anche noi il problema
di vincolare l’erogazione monetaria a spese effettivamente essenziali e non
superflue (lasciamo perdere la questione della moralità della spesa, troppo
scivolosa). Abbandonammo subito la questione, non soltanto perché era
impossibile evitare la trasgressione delle regole di spesa (con il reddito di
cittadinanza posso anche dover comprare il prosciutto per sfamare le bocche
avide dei miei figli, piuttosto che un litro di vino per ubriacarmi come un
bastardo qualsiasi, ma niente mi impedisce di barattare il prosciutto
acquistato con il vino successivamente).
Ma soprattutto perché non dava
soluzione alla “trappola della povertà”. L’orientamento consapevole ed utile
della spesa verso beni di prima necessità dipende una capacità razionale di
valutare i propri bisogni e quelli della propria cerchia familiare e di
metterli a confronto con il reddito disponibile. E questa operazione
intellettuale deriva da una qualche forma di maturazione culturale, che spesso,
nelle situazioni di emarginazione e povertà più estreme, viene a mancare del
tutto.
Niente, nessun programma di
sostegno alla povertà può costruire un percorso di autoconsapevolezza e di
razionalità nella scelta delle priorità vitali, senza la collaborazione
intenzionale dei suoi beneficiari. Senza contare che c’è uno zoccolo duro di
povertà che non può fuoriuscirne per motivi oggettivi: il pensionato, l’inabile
al lavoro, la vedova anziana e sola, chi è privo di qualsiasi competenza anche
minima, non possono oggettivamente uscire dalla povertà, e dovranno essere
assistiti per sempre, a prescindere dalla loro volontà di uscire dalla
situazione in cui si trovano. Non è un caso se, nell’esperienza internazionale,
programmi di questo genere hanno tassi di successo (ovvero di fuoriuscita dei
beneficiari per reperimento di una occupazione dignitosa) che si aggirano
nell’intorno del 10-15%. Significa che, nel migliore dei casi, l’80-85% dei
beneficiari di questi programmi vanno mantenuti perpetuamente dentro il
circuito dell’assistenza pubblica, a meno di non volerli condannare alla morte
per inedia e miseria estrema, il che è ovviamente una indegnità.
Quindi qui il problema vero non è
la “moralità” della spesa garantita dalla card sociale, ma è quello di
accettare un principio welfaristico di contrasto alla povertà che sappia
accettare, come dati di fatto, almeno i due seguenti elementi:
-
Che dovremo combattere una disoccupazione
tecnologica molto più ampia e perniciosa rispetto alle altre rivoluzioni
tecnologiche del passato;
-
Che c’è una base molto ampia della povertà che,
per problemi culturali (trappola della povertà) o oggettivi (condizioni
personali di competitività) richiede una assistenza costante, a tempo
indeterminato, senza porsi obiettivi irrealistici di empowerment personale.
Se accettiamo questi due
elementi, la questione della moralità della spesa diventa secondaria e,
sostanzialmente, molto difficilmente controllabile. Piuttosto, ci si concentri,
nella stesura del programma, sui seguenti elementi, molto più concreti ed
importanti:
-
Che i programmi di reinserimento lavorativo
siano coerenti con la professionalità del beneficiario, onde evitare che
l’ingegnere nucleare si ritrovi a fare lo sguattero;
-
Che la presa in carico del beneficiario sia “di
filiera”, cioè sia basata su una valutazione completa dello stato di bisogno,
sul versante materiale, ma anche su quello sanitario, socio assistenziale,
lavorativo, formativo, in modo da predisporre piani personali di reinserimento
ad hoc;
-
Che i servizi sociali sul territorio siano
potenziati, professionalizzati e messi in rete, superando la situazione
attuale, in cui essi sono perlopiù abbandonati e dequalificati;
-
Che il requisito dell’ISEE, essendo rilevato
annualmente, non discrimini chi, nell’anno precedente, lavorava, poi ha perso
il lavoro ma ha ancora un ISEE che lo collocherebbe fuori dalla platea dei
beneficiari. Occorre istituire un sistema di rilevazione semi-permanente delle
condizioni economiche dei richiedenti.
P.S. Benissimo che il programma
sia riservato ai soli cittadini italiani. Deve passare il principio che non
abbiamo le risorse per occuparci della povertà altrui, non potendo nemmeno
coprire integralmente quella nostra. Chi non è italiano e si ritrova da noi
senza soldi e senza casa, se non ha immediate prospettive di lavoro o di
sostegno familiare, deve tornare al suo Paese a farsi sostenere. Altrimenti, i
delicati animi che si oppongono a tutto ciò sborsassero di tasca loro quei 10-20
miliardi che servono per coprire la povertà anche dei variopinti personaggi che
vengono dal mare per stabilirsi da noi.
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