sabato 31 agosto 2019

Certezza della pena, funzione rieducativa e recidiva: alcune riflessioni

Concerto di Johnny Cash nel carcere di massima sicurezza di Saint Quentin, febbraio 1969


Da anni, ogni progetto di riforma della giustizia, annunciato o prodotto, viene accompagnato dalla retorica della “certezza della pena”. E’ una retorica avvincente, per certi versi, perché fa presa su un Paese che ha, insieme, una sfiducia radicata nelle istituzioni (quindi anche nella giustizia) e dall’altro è innervato da un giustizialismo forcaiolo, riflesso di una rabbia sociale e di un sentimento di insicurezza diffusi.
Ma chiediamoci che cosa significhi l’espressione “certezza della pena”: nell’accezione comune, quella dell’uomo della strada, essa significa una sorta di automatismo fra commissione di un reato e espiazione carceraria dello stesso. Addirittura, la volontà di anticipare la carcerazione rispetto alla stessa condanna, cancellando l’ovvio concetto di civiltà giuridica per il quale chiunque è innocente fino a prova contraria. La giustizia, spettacolarizzata dai media, è divenuta uno sfogatoio di rabbie latenti: la sofferenza indotta dalla punizione (giusta o ingiusta) crea un palcoscenico nella quale, in parte, autoconsolarsi (c’è chi sta peggio di me, io almeno non sto al fresco) ed in parte proiettare sul reo le proprie frustrazioni personali.
Anche fuori da tale visione completamente distorta, il concetto di “certezza della pena” implica una idea di automatismo, per il quale ad ogni evento debba, necessariamente, corrispondere una determinata pena, una volta che la rilevanza penale dell’evento sia stata accertata giudiziariamente. Tale idea di automatismo confligge, però, con il naturale ed ovvio buon senso. Esso implica che le Procure e le Forze dell’Ordine siano sempre, indifferentemente, in grado di trovare e consegnare ai Tribunali gli autori effettivi dei reati, che il giudice agisca come un automa, applicando in automatico una previsione normativa penale perfetta, tale, cioè, da non essere suscettibile di alcuna interpretazione o di alcun adattamento alla situazione concreta per la quale si sta agendo, e che le circostanze attenuanti o aggravanti, perlomeno di tipo generico, non siano mai applicate.
Nel «Contratto per il cambiamento» firmato da Lega e M5S per il governo giallo-verde, emerge esattamente tale interpretazione della “certezza della pena” declinata dal principio di automatismo fra reato e carcere e dalla severità estrema della concezione penale. Tale proposta, infatti, punta su “più carcere per tutti”, inteso sia come quantità di galera da far scontare a chi commette reati sia come quantità di prigioni da costruire per ospitare una popolazione di detenuti destinata ad aumentare per la preannunciata eliminazione di misure alternative e di benefici di ogni genere. Carcere chiuso, insomma, anzi chiusissimo. Per garantire “più sicurezza per tutti”.

Qualche elemento di Costituzione e di teoria della pena

Evidentemente, tale approccio confligge con l’ordinario buon senso, che evidenzia come il diritto sia per sua natura incerto, e richieda quindi, caso per caso, una interpretazione del giudice basata, oltre che su criteri tecnico-professionali e sulla giurisprudenza, anche sul suo libero convincimento in relazione all’area grigia non interpretabile secondo criteri tecnici a priori, ma soltanto in base ad una opinione che si forma sul caso concreto che viene giudicato.
Ma tale approccio confligge anche con la natura della pena prevista dalla nostra Costituzione. L’articolo 27, infatti, recita “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La Costituzione si inserisce, con una scelta precisa, in un dibattito sulla natura della pena che dura sin da Beccaria. In estrema sintesi, l’approccio giuridico anglosassone si concentra sulla natura espiativa della pena, che ha una valenza triplice: essa deve, in tale concezione, servire da deterrente a chi voglia commettere un reato, e quindi essere sufficientemente severa da scoraggiare chi volesse intraprendere una azione criminosa, ed al contempo deve servire da “contrappasso”, da compensazione morale per il male arrecato alla società da parte di chi delinque, ed in questo senso trovano ospitalità istituti penali tipicamente anglosassoni, come il lavoro forzato, inteso in termini di compensazione economica ad un danno economico arrecato alla società, oppure la pena di morte, come parallelo di un omicidio commesso. Infine, la pena deve “togliere di mezzo” individui ritenuti inadatti ad una vita sociale ordinata per la gravità dei reati commessi, o con la morte oppure con l’ergastolo effettivo, quello in cui effettivamente non si esce più dal carcere. Tale concezione della pena è definibile come “retributiva”, per la parte in cui intende “compensare” con la pena il danno sociale arrecato, ed in parte come “funzionalistica”, nella misura in cui intende eliminare dalla vita sociale individui considerati pericolosi ed irredimibili.
Già Beccaria si discosta da tale approccio, ritenendo la pena come un deterrente sociale alla commissione del reato e, in una logica marginalista, prevedendo la fissazione della stessa esattamente al punto di congiunzione fra il beneficio ottenibile tramite la commissione di un reato e il costo da pagare in caso di condanna. In questo approccio, Beccaria rigetta quindi le pene puramente espiative, cioè eccessivamente severe rispetto alla gravità del fatto commesso, ivi compresa la valutazione di totale inadeguatezza dell’individuo rispetto alla società che ne giustificherebbe la “sparizione” (egli infatti è avverso alla pena di morte) ma al contempo rigetta ogni finalità rieducativa della pena. Ciò perché egli ragiona in termini puramente razionali e non etici: il criterio etico di inadeguatezza sociale non ha fondamenti razionali, e non può quindi essere assunto a criterio-guida di pene tendenti ad eliminare per sempre il reo dal consesso sociale. La pena ha quindi, nella costruzione teorica di Beccaria, una funzione essenzialmente deterrente: eliminando il beneficio del reato con una sanzione di entità almeno pari allo stesso, scoraggia l’individuo che vorrebbe delinquere. E’ evidente come tale approccio sconti l’assunzione di razionalità degli agenti sociali tipica dell’intera impalcatura neoclassica e utilitaristica/marginalista. Il crimine dipende soltanto da una valutazione razionale fra costi e benefici effettuata dal potenziale delinquente, non da aspetti socio-psicologici o culturali, o dall’interazione di cause bio-psico-sociali, come un filone moderno di criminologia statunitense ritiene.
Con il progressivo (anche se momentaneo) affermarsi della componente meramente sociologica della criminologia, emerge invece la possibilità di pensare alla pena come occasione di redenzione e reinserimento sociale attivo del reo. La condizione criminale non è più vista come una mera condizione fisiologica dell’individuo, come nelle teorie lombrosiane, che giustificano l’idea di una impossibile redenzione dell’individuo, che va meramente messo in condizione di non nuocere più alla società, né come una scelta razionale, che calibra la pena al punto di intersezione con l’utilità marginale dell’azione criminale. Emerge l’idea che l’ambiente socio-educativo in cui cresce l’individuo è alla radice del comportamento criminale, per cui la pena può, in qualche modo, “rieducare” il reo, fornendogli i valori di rispetto della legge e delle regole della collettività che le condizioni socio-educative in cui è cresciuto non gli hanno consegnato. La dottrina marxista fornisce un quadro in cui, se da un lato la criminalità comune è condannata fermamente come sottoprodotto del capitalismo, essa è però considerata come una conseguenza delle condizioni sociali di sfruttamento dell’uomo sull’uomo tipiche dello sfruttamento capitalistico. Altri filoni non marxisti, come la teoria delle sottoculture di Cohen, adottata per spiegare forme specifiche di devianza, come quella giovanile, insistono comunque anch’esse sulle condizioni sociali, abitative, educative e di opportunità lavorativa e di ascesa sociale in un contesto sociale molto competitivo come quello statunitense.
Detta corrente di pensiero evolve fino ad assumere una forma teoricamente completa negli anni Sessanta, tramite la teoria del “labelling” (etichettatura). Secondo tale teoria, il livello di allarme sociale dei diversi reati è influenzato dalle classi dominanti della società in modo da reprimere in misura più forte i ceti sociali più deboli e disagiati, che più frequentemente li commettono. La reazione sociale a queste specifiche categorie di reato (che includono, tipicamente, la microcriminalità urbana, il piccolo spaccio di stupefacenti, i piccoli reati contro il patrimonio, il vandalismo, ecc.) condurrebbe alla conseguenza negativa di “etichettare” in modo negativo e permanente chi li commette, generalmente un membro delle classi sociali disagiate o delle minoranze, producendo, sia all’interno del sistema carcerario che all’esterno, nella società, forme di autopercezione negativa di sé e una reputazione che ostacola qualsiasi tentativo di inserimento sano dentro il tessuto lavorativo. Al contempo, l’etichettatura induce gli etichettati a formare una “sottocultura”, come direbbe Cohen, frequentandosi fra di loro e quindi autoalimentando nuovi propositi criminali.
In sostanza, secondo la labelling theory, come esposta nella sua versione più completa da Howard Becker nel suo libro “Outsiders” del 1973, sostiene che è la società a “criminalizzare” gli individui, come forma di lotta di classe, producendo forme di ghettizzazione, sia carceraria che sociale, che paradossalmente portano alla recidiva ed alla cronicizzazione delle carriere criminali. In questo filone, si sviluppa una classe di teorie chiamate “convicting theories”, che criticano il sistema carcerario per la sua assoluta carenza di attenzione alle tecniche ed alle modalità di rieducazione sociale e psicologica dei rei, ed anzi, nelle condizioni tipiche del sovraffollamento degli istituti penitenziari, mostrano come il contatto fra piccoli criminali e delinquenti di professione porti ad un aumento della probabilità di recidiva dei primi.
In questo contesto teorico, dunque, la nostra Costituzione si pone nell’obiettivo, tipico della criminologia sociologica di sinistra, della funzione rieducativa della pena. Un obiettivo peraltro molto combattuto a livello di interpretazione della norma costituzionale, soprattutto da parte delle componenti democristiane di destra che parteciparono ai lavori della Costituente: “i primi anni cinquanta hanno rappresentato un periodo caratterizzato da alti indici di criminalità, che ha sicuramente costituito il terreno fertile per interpretazioni dottrinali  tese  a  comprimere  la  portata  innovativa  del  principio  rieducativo.  Come sempre avviene in periodi di forte allarme sociale, anche in questi anni tendono a prevalere preoccupazioni di tipo  generalpreventivo,  cui  si  accompagna  la mortificazione delle teorie di prevenzione speciale e  un pericoloso ritorno a teorie retributive  per  lo  più  orientate  in  senso  religioso,  derivanti  dall'affermarsi  nel dopoguerra dell'egemonia culturale cattolica (…) La  posizione  più  significativa,  anche  perché  non  è  semplice  riproposizione  del passato, ma è spesso indirizzata verso nuovi fronti, è quella di Bettiol. Egli, in una serie continua di saggi, nell'arco di un quarantennio, ribadendo la finalità retributiva della pena, ha preso di mira  sia  la  prevenzione  speciale  che  quella  generale, accusando entrambe di fare dell'uomo un oggetto pieghevole alle finalità del gruppo, della società, dello Stato53. Ma la sua analisi più attenta si è rivolta al «mito della rieducazione» dal momento che, proprio questa idea rieducativa e risocializzatrice, vulnererebbe l'uomo nella sua libertà interiore e sarebbe in agguato per soffocarne l'individualità in nome della prepotenza politica e del totalitarismo” (Zanirato, 2013). Tale impostazione ha finito per guidare diverse sentenze della Corte Costituzionale, tese a ridurre il contenuto rieducativo della pena ed a affiancarlo alla funzione “retributiva” della stessa.

Funzione rieducativa della pena e tasso di recidiva

Ma rispetto al contenuto ancora “rieducativo” della pena, che comunque rimane nella nostra Costituzione, cosa possiamo affermare? Il tasso di recidiva in Italia non è significativamente diverso da quello del resto dei Paesi occidentali: esso è del 68% per i detenuti negli istituti penitenziari, a fronte del 66% circa negli USA. Tuttavia, esso crolla al 19% per chi è sottoposto a misure alternative alla carcerazione, come ad esempio i domiciliari, ed è assistito dai servizi sociali (Leonardi, 2007). E qui misuriamo già in modo chiaro il fallimento del modello penitenziario italiano, affetto da sovraffollamento (le nostre carceri hanno più di 54.000 detenuti a fronte di appena 49.700 posti disponibili), scarsa capacità di separare i piccoli criminali da quelli cronici e professionali (il 46% dei detenuti italiani sconta pene inferiori ai 5 anni, quindi è un piccolo criminale, spesso occasionale) modeste risorse assegnate per percorsi di formazione culturale, civica e lavorativa (soltanto il 4,6% dei detenuti segue corsi professionali, solo il 30% ha un lavoro in carcere).
Anche i tentativi di sminuire l’enorme differenza statistica fra la recidiva in carcere e quella per le misure alternative allo stesso, tramite la considerazione che i detenuti nelle carceri tradizionali sono generalmente reclusi per reati più gravi (e quindi indicativi di una “professionalizzazione” o cronicizzazione del comportamento criminale) rispetto a chi è ai domiciliari o in carceri “sperimentali”, vengono meno alla luce del lavoro empirico di ricerca.
Come riferisce Donatella Stasio, “Daniele Terlizzese (dirigente di Banca d’Italia e direttore dell’Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanzia, Eief) e Giovanni Mastrobuoni (Università di Essex), dal 2012 al 2014 hanno misurato gli effetti sulla recidiva di un carcere “aperto” – Bollate a Milano – dove il rapporto tra il dentro e il fuori è continuo e dove le attività di studio, lavoro, formazione preparano i detenuti alle misure alternative e poi alla libertà. (…) I risultati della ricerca sono infatti estremamente significativi, e incontestabili, sul fronte della recidiva: «La sostituzione di un anno in un carcere “chiuso e duro” con un anno in un carcere “aperto e umano” riduce la recidiva di 6-10 punti percentuali (tra il 15 e il 25% della recidiva media dei detenuti sfollati a Bollate)» spiega Terlizzese, aggiungendo che «l’effetto è maggiore per i detenuti con più bassi livelli di istruzione e per detenuti alla loro prima esperienza carceraria». Particolarmente interessante è il maggior effetto sui detenuti sfollati, i quali, non essendo passati per il processo di “selezione” con cui vengono invece scelti gli ospiti di Bollate, sono molto più simili al detenuto medio delle carceri italiane. Il che rafforza la “validità esterna” di questa ricerca (e demolisce l’argomento secondo cui la maggior recidiva per chi è in carceri chiuse tradizionali dipende dalla maggior gravità del comportamento criminale, indice di maggiore professionalizzazione e cronicizzazione ab origine, NdA). Più in generale, lo studio dimostra quanto sia determinante – ai fini della recidiva – scontare la pena in condizioni che non umilino i detenuti ma li responsabilizzino, lasciando loro spazi di autodeterminazione”.
D’altra parte, la maggior parte degli studi empirici condotti dimostra come la tipologia di relazioni intrattenute in carcere incida direttamente sulla recidiva, rendendo di fatto l’esperienza carceraria una sorta di “scuola criminale”, anziché una occasione per redimersi. Persino l’amministrazione di destra di Bush, nel 2004, ha approvato una legge (il c.d. “Second Chance Act”) mirata ad abbattere i tassi di recidiva soprattutto fornendo opportunità lavorative, già a partire dal carcere, e di reperimento di un alloggio e di cure mediche idonee dopo la scarcerazione. La valutazione dell’impatto d itale misura è controversa, ad esempio D’Amico-
A partire dal 2008, 36 Stati americani hanno sperimentato un calo drastico dei tassi di incarcerazione. 33 di questi, a partire dal 2007, hanno introdotto misure di espiazione alternativa al carcere per i reati di basso impatto sociale, sperimentando un forte calo del tasso di recidiva.
Per il nostro Paese, il Rapporto 2019 di Antigone sottolinea come “delle 44.287 misure (alternative alla detenzione carceraria – detenzione domiciliare, semilibertà, messa in prova, liberazione condizionale, NdA)  in esecuzione nel primo semestre del 2018 ne sono state revocate in tutto 1.509, il 3,4%. E di queste solo 201, lo 0,5%, per la commissione di nuovi reati”. Ciò sostanzialmente conferma i bassi tassi di recidività di chi gode di misure alternative al carcere.

Conclusione

In conclusione, lungi dall’accogliere proposte draconiane e apocalittiche sulla “certezza della pena”, sul ritorno di concezioni retributive e funzionalistiche della pena, in contrasto con il nostro dettato costituzionale, noi sappiamo, oggi, che le misure riabilitative riducono la recidiva, quindi migliorano la qualità della vita delle nostre comunità, abbattendo la criminalità, e contribuiscono a ridurre il costo economico del mantenimento di un gran numero di detenuti in carceri sovraffollate e fatiscenti.
Sappiamo anche, in barba ai profeti della “certezza della pena” intesa come automatismo fra reato e carcere, che la misura più efficace per ridurre la recidiva è l’assegnazione di pene alternative alla detenzione, come ad esempio i domiciliari, i lavori di pubblica utilità, la messa in prova, o la condizionale. Noi siamo già un Paese forcaiolo: appena il 44,8% dei rei è condannato a misure alternative al carcere, a fronte del 71,7% in Germania, del 70,3% in Francia, del 63,7% in Gran Bretagna, o del 52,1% in Spagna. Non abbiamo quindi bisogno di maggiore severità per sovraffollare ulteriormente carceri inadatte a costruire percorsi di reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, al contrario abbiamo bisogno di rispettare il dettato costituzionale.

mercoledì 21 agosto 2019

Il Patto di Pacificazione dell'agosto 1921: una enorme opportunità persa dalle sinistre


 Zaniboni ed Acerbo, i due autori del Patto di pacificazione
Un episodio non molto analizzato del periodo pre-fascista fu il cosiddetto “Patto di Pacificazione”, che Mussolini offrì alla sinistra, nel pieno del fuoco della guerra civile che sconvolgeva il Paese. Generalmente lo si archivia come una delle tante furbate trasformistiche di Mussolini, presto abbandonata per l’opposizione dei Ras locali, assolutamente ostili ad abbandonare la profittevole (per loro) guerra civile nei loro territori di appartenenza.
La realtà è più complessa, e merita di essere analizzata più approfonditamente. Lo scenario è il seguente: il Paese è in piena guerra civile. Ogni giorno, le squadre fasciste e quelle socialiste, ivi compresi gli anarchici, si confrontano sanguinosamente per le strade. Lo scontro è feroce, ma in realtà è stato già perso dalla sinistra. Il tentativo di dare l’assalto al cielo si era compiuto, ed esaurito, nel 1919-1920. Nel solo primo anno, più di 1,5 milioni di lavoratori parteciparono agli scioperi, ai tumulti, alle occupazioni di fabbriche, che in alcuni casi portano ad esperimenti di autogestione operaia. Nel 1920, tale numero arriva a 2,3 milioni. Ad ottobre 1919, il congresso di Bologna del partito socialista aveva visto la vittoria dei massimalisti, ai danni della componente istituzionale e riformista di Turati, con l’esplicito sdoganamento della violenza politica come strumento di lotta con l’obiettivo di costruire una Repubblica di tipo sovietico.
Ma il “momentum” della lotta viene perso quasi subito, condannando il tentativo rivoluzionario ad un fallimento. La direzione politica della fase insurrezionale da parte dei massimalisti al comando del partito socialista è fallimentare, e non riesce ad indirizzare il popolo verso obiettivi precisi. Scrive Angelo Tasca che “il partito continua ad ubriacarsi di parole, a redigere sulla carta dei progetti di Soviet, abbandonando a sé stesse le commissioni di fabbrica del nord ed i contadini affamati di terra del sud”.
Nonostante una netta vittoria alle elezioni del 1919, con il partito socialista che prende il 32,4% dei voti, ed i vecchi partiti liberaldemocratici, del tutto incapaci di affrontare la deriva disperata ed estremistica del Paese, messi per la prima volta in minoranza, i socialisti riescono nel più perfetto dei cul-de-sac: a livello istituzionale vengono letti come degli estremisti pericolosi, e non riescono a cementare una alleanza con l’altro partito espressione dei ceti medio-bassi, ovvero il partito popolare di Don Sturzo, che sorreggerà con l’appoggio esterno i moribondi partiti liberaldemocratici, mentre nelle piazze sono troppo indecisi per guidare una insurrezione di tipo rivoluzionario. Il fallimento dello “sciopero delle lancette” negli stabilimenti Fiat di Torino, con il conseguente ridimensionamento dei Consigli di Fabbrica, si verifica perché i vertici del partito socialista e del sindacato, spaventati da un movimento operaio che li sta superando per dinamismo rivoluzionario, si rifiutano di fornire supporto. Da quel momento, il movimento rivoluzionario inizia a perdere slancio ed incidenza. L’11 settembre 1920, a fronte di una vastissima sequela di occupazione di fabbriche del nord, dalla Fiat alle Officine Romeo e alla Isotta Fraschini fino ai cantieri navali di Genova, i vertici del sindacato e del partito decisero, di fatto, di abbandonare lo sbocco rivoluzionario della lotta, cercando di ricondurla entro i limiti dei normali negoziati con il padronato. Entro la fine del mese, le occupazioni delle fabbriche cessarono, a fronte, praticamente, di nessuna conquista vera e propria da parte degli operai. 

 Guardie Rosse in una fabbrica occupata

La sconfitta del Biennio Rosso ebbe però pesanti conseguenze sociali e politiche in un Paese sconvolto e privo di guida, distrutto dalla crisi economica e dall’inflazione. La componente rivoluzionaria del PSI, delusa dai massimalisti, uscì dal partito per fondare il partito comunista, a Livorno, nel 1921. La borghesia italiana, spaventata dagli scioperi e dalle occupazioni, avanti alla relativa neutralità messa in mostra dal politicamente fragile Governo Giolitti durante la fase più dura della lotta sociale, decise che le soluzioni liberali e democratiche non erano più in grado di difenderla. C’era bisogno di autoritarismo.
Un piccolo movimento, perlopiù agrario e concentrato nella pianura padana, guidato da un dirigente socialista rinnegato ed economicamente spiantato, Benito Mussolini, uomo che nel 1920 sembrava finito, viene preso in considerazione per l’efficace e violenta azione di soffocamento di alcune rivolte contadine nella Bassa condotta da ex militari profondamente antisocialisti. A fronte del disprezzo per gli ex combattenti che la stupidità pacifista del PSI mette in luce sotto la guida delle segreterie massimaliste di Bombacci e Gennari, le Associazioni di reduci, che parlano a milioni di ex soldati, tornati feriti nell’anima e nel corpo dalla guerra, umiliati dalla pace mutilata del 1919 e non più reinseriti nella vita civile a causa della grave crisi economica in cui versa il Paese, guardano con speranza di riscatto a questo Movimento dei Fasci Italiani di Combattimento. 

Squadristi fascisti

Giolitti, oramai senescente ed incapace di ricostruire la fitta rete di consenso che ne aveva decretato il suo grande potere negli anni anteguerra, è in cerca dell’ultima carambola: presentarsi come uomo di unità e ricucitura di un Paese dilaniato da odio e lotta sociale. L’intento è paradigmatico del giolittismo: assimilare la componente riformista del PSI e del sindacato dentro un fronte sociale di orientamento borghese e moderatamente liberale, tramite alcune, piccole, concessioni sociali. Commette il più grande errore della sua carriera politica: alle elezioni politiche del maggio 1921, include i fascisti dentro le liste elettorali del suo blocco nazionale. E’ in parte un tentativo di ingraziarsi la borghesia, sempre più estremizzata e che chiede uno Stato forte ed autoritario, in parte l’illusione di poter facilmente controllare, e poi liquidare il fascismo, dopo averlo ripulito e incivilito con le pratiche del trasformismo parlamentare. Giolitti e Croce vedono nel giovane movimento fascista poco più che un caotico ed incolto movimento agrario di picchiatori politicamente ingenui, guidato da un colorito ma sostanzialmente ingenuo e fallito istrione, utile per tenere tranquilli gli istinti autoritari della borghesia, richiamare a sé i voti degli ex combattenti e controbilanciare le profferte programmatiche fatte ai socialisti: tassazione dei profitti di guerra, imposizione delle successioni, istituzione della settimana lavorativa a 48 ore nell’industria, e soprattutto la nominatività e tassazione dei titoli azionari, che colpiva duramente le rendite degli industriali e degli enti ecclesiastici. 

 Un anziano Giolitti

Naturalmente, in una situazione di polarizzazione e lacerazione sociale così accentuata, il vecchio equilibrismo giolittiano non può più avere successo. Le elezioni sono per lui un fallimento: il suo blocco nazionale ottiene appena un centinaio di seggi, e di conseguenza è necessario ricercare una formula di coalizione. Ma la sinistra, avvelenata per la soppressione del prezzo politico del pane e per l’inclusione dei fascisti nelle liste elettorali, gli volta le spalle. I popolari, aizzati dalla Chiesa per via della questione della nominatività dei titoli azionari, gli negano ogni appoggio. Il Re Vittorio Emanuele nutre profonda antipatia da sempre nei suoi confronti.  
In un quadro di instabilità politico-parlamentare drammatico, i fascisti sono gli unici a poter sorridere: nel 1919 non avevano ottenuto nemmeno un seggio, sepolti da un risultato elettorale modestissimo. Adesso, sfruttando la forza di inerzia del blocco giolittiano in cui sono stati inseriti, ottengono 35 seggi parlamentari, fra i quali quello conquistato dallo stesso Mussolini. Il quale è molto lesto a svincolarsi dall’alleanza con Giolitti, iniziando ad operare autonomamente. E’ a capo di un movimento di violenti, con una fama di spacca-testa. Gli Arditi e gli squadristi, guidati da capetti locali, soprannominati “ras”, che organizzano sul territorio spedizioni punitive e agguati violenti, perlopiù per eliminare avversari politici locali, “raddrizzare” giornalisti o sindacalisti scomodi a qualche borghese del posto, o fare qualche bottino, sono l’unico tratto unificante di un movimento caotico, in cui convivono anarco-sindacalisti, sindacalisti rivoluzionari, marxisti e persino ex comunisti, ex liberali pentiti, agrari e piccoli imprenditori, ex combattenti disoccupati ed incazzati con tutti, criminali comuni, mazzieri del Sud insieme a braccianti o picc
oli mezzadri in rovina, senza contare i monarchici più reazionari come De Bono o De Vecchi.

Scontri fra squadristi ed Arditi del Popolo a Roma

E’ molto importante, ai nostri fini, capire quale fosse la mentalità del Mussolini di quel periodo: approdato fra gli scanni del Parlamento dopo aver patito la fame, essere emigrato in Svizzera per fare lavoretti precari, essere stato molto vicino alla sparizione definitiva dal circuito politico, essere lì gli deve essere parso un miracolo. Ed infatti in parte lo era, mentre in parte era solo la conseguenza di una destra economica che iniziava a puntare su di lui per ottenere un profondo rinnovamento in senso reazionario dello Stato liberale oramai paralizzato e declinante. Il suo carattere irruente lo portava a credere che tutto fosse già possibile, che stesse per raggiungere il potere assoluto. Sedette, per sfida, alla destra estrema dell’emiciclo parlamentare, dove nessuno voleva sedere per non essere additato da estremista, sfidò democrazia e istituzioni nel suo primo discorso, e cercò di costruire una alleanza tattica con i popolari, puntando sulle componenti più confessionali del partito, ma anche con gli elementi riformisti del sindacato, facendo leva sulle relazioni maturate nel suo passato da dirigente socialista. Il suo movimentismo politico in quei primi mesi fu intenso, anche se partecipava raramente alle sedute parlamentari, da lui ritenute noiose espressioni di una plutocrazia da abbattere al più presto. Il suo tempo lo trascorreva preferibilmente nei comizi, al contatto con il popolo.
Era però un Mussolini disorientato. Non sapeva bene dove dovesse portare il suo movimento, e fino a dove gli sarebbe stato consentito di far avanzare la sfida al vecchio Stato liberale. I suoi non lo aiutavano affatto, andavano formandosi alcuni potentati locali che, nel futuro, sarebbero stati per lui fonti di fastidio: Farinacci a Cremona, Grandi ad Imola, Ciano a Livorno, e così via. Erano i ras del movimento, supportati dalla forza militare degli squadristi, che impedivano a Mussolini di avere il pieno controllo della sua stessa creatura politica, e che al tempo stesso, con le loro brutali e continue violenze, non gli consentivano di acquisire quel “bon ton” necessario per partecipare da statista riconosciuto al consesso politico ed istituzionale. 

 L'ispiratore del Patto di Pacificazione, il premier Ivanoe Bonomi

Il nuovo Governo, guidato dal socialista liberale Bonomi, uomo di Giolitti, ha, del resto, un atteggiamento ambiguo nei confronti del fascismo. Da un lato, con una circolare segreta, ordina all’Esercito di rifornire di mezzi, carburante ed armi le squadre fasciste, conferendo loro una potenza militare, ed una pericolosità, mai sperimentata prima. Dall’altro lato, ogni tanto arriva la risposta repressiva alle scorribande delle camicie nere, come a Sarzana, il 21 luglio, quando una squadra fascista che voleva far evadere lo squadrista Renato Ricci, incarcerato con l’accusa di violenza politica, viene affrontata a fucilate dai carabinieri. E’ evidente l’atteggiamento oscillante da parte degli ambienti monarchici, dai quali dipendono le Forze Armate e di polizia e di quelli borghesi, che da un lato vogliono favorire l’ascesa di Mussolini, ma dall’altra non si fidano ancora di lui, e quindi ogni tanto pensano di doverlo ridimensionare.
In questo contesto di incertezza, Mussolini ha due esigenze: da un lato, deve “smilitarizzare” il movimento fascista, di fronte ad un pericolo rivoluzionario bolscevico oramai superato, per indebolire i tanti ras locali che ne minano l’autorità. Dall’altro, deve conquistarsi le simpatie delle élite economiche del Paese che, stanche del continuo stato di guerra civile, vogliono normalizzare la situazione per poter passare a fare affari. Ed in questo contesto, spinto dallo stesso Premier Bonomi e dal liberale Enrico De Nicola, Presidente della Camera dei Deputati, Mussolini dà mandato al suo deputato più intelligente e moderato, Giacomo Acerbo, di prendere contatto con il gruppo parlamentare socialista per avviare una forma di pacificazione fra le rispettive milizie. Dall’altra parte, i socialisti designano come mediatore Tito Zaniboni, interventista e simpatizzante dell’impresa fiumana di D’Annunzio, quindi uomo tutto sommato, in quel momento specifico, non del tutto ostile al fascismo (poi proverà ad uccidere Mussolini, ma è un’altra storia). Entrambi massoni, Acerbo e Zaniboni tessono, in pochi giorni, lo schema dell’accordo di pacificazione, stipulato il 3 agosto. Socialisti e fascisti si impegnano a cessare ogni attività armata ed illegale ed ogni violenza reciproca, affidandosi ad un collegio arbitrale, in capo a De Nicola, per risolvere pacificamente ogni controversia relativa al patto stesso.
Si tratta, per la sinistra che, per ignavia ed inconcludenza, ha perso di fatto l’appuntamento con la storia, dopo il fallimento del biennio rosso, dell’ultima opportunità per fermare l’ascesa del fascismo. Una adesione intelligente al Patto, infatti, avrebbe aiutato Mussolini a sbarazzarsi della sua ala militare, oramai quasi fuori controllo, normalizzando il Paese, ed al contempo di infilarsi nelle contraddizioni interne al movimento fascista, fra intransigenti e mediatori, accrescendo il peso di questi ultimi, anche grazie al desiderio di Mussolini di rafforzare il lato istituzionale e politico del suo movimento, in questo modo frenando e, forse, invertendo la deriva inevitabile verso una crescente tendenza all’autoritarismo ed al sovversivismo che avrebbe, poi, connotato il partito, culminato nell’omicidio Matteotti.
Un simile accordo avrebbe forse, se avesse avuto successo, gettato le basi per un più avanzato livello di intelligenza politica fra fascismo e socialismo, spostandone più a sinistra il baricentro.
Naturalmente, per chi ragiona in termini di ideologia e di radicalismo, l’intelligenza tattica e mediatrice è una facoltà spenta. Il Patto nasce morto, ma non per colpa di Mussolini, ma per colpa dei comunisti, titolari di alcuni dei gruppi armati più violenti, che si sfilano dal Patto immediatamente, rifiutando per partito preso “intelligenze con il nemico di classe”, e degli Arditi del Popolo che, in totale autonomia, continuano la loro guerra personale contro gli squadristi fascisti.
L’adesione dei socialisti al Patto diviene, quindi, immediatamente inutile, non riuscendo a fermare l’idiotismo di una lotta armata oramai chiaramente perdente contro un nemico di gran lunga più forte ed organizzato, ed equipaggiato con materiale dell’Esercito e dei carabinieri. Comunisti, anarchici ed Arditi del Popolo, nel loro furore ideologico, offrono la sponda ai tanti ras locali del movimento fascista che non ne vogliono sapere niente di una eventuale pacificazione del Paese, poiché dalle loro scorribande ricavano potere, privilegi e ricchezza. Dentro il PSI, si apre un processo politico contro il segretario Bacci, che ha voluto il Patto, e che porterà all’espulsione di tutta l’ala moderata e potenzialmente dialogante, da Turati a Treves.
Con il fallimento del Patto, principalmente causato dal boicottaggio della “sinistra de sinistra”, Mussolini viene quindi messo in posizione difficile all’interno del suo stesso movimento. Dino Grandi cerca di scalzarlo dalla guida del fascismo, rimproverandogli la mollezza di voler la pace con la sinistra, che continua a sparare contro i propri camerati: il 16 agosto, i dirigenti emiliani del movimento, manovrati da Grandi, respingono il Patto. Mussolini, nonostante tutto, cerca di difendere la sua decisione politica, ed il giorno dopo, per protesta, si dimette dal Comitato Centrale dei Fasci. Motiva la sua decisione con argomenti ragionevoli: non si può pensare di eliminare con la forza due milioni di socialisti, l’obiettivo politico del fascismo va raggiunto con mezzi diversi dalle armi.
E’ chiaro che siamo ad un momento cruciale: si è aperto in modo esplicito un conflitto latente fra l’ala politico-parlamentare e quella squadrista del fascismo, in un momento come questo non bisogna dormire ma reagire: sarebbe necessario dare solidarietà a Mussolini, anche chiedere un arresto unilaterale di ogni ostilità come segnale di buona volontà, rafforzando l’ala negoziale, offrendo una sponda. Ma dalla sinistra non arriva niente. Mussolini è quindi isolato, senza sponde e a quel punto, per preservare il suo potere, scarica il Patto: al Consiglio Nazionale del 26 agosto, dove ha in mano la maggioranza, fa in modo di far respingere le sue dimissioni. In cambio del ritorno in sella, offre al rivale Grandi la rinuncia al Patto di pacificazione e la testa di Cesare Rossi, il vicesegretario dei Fasci, che era fra i firmatari del Patto stesso, e che in seguito passerà all’ala poliziesca e intransigente del regime, divenendo l’organizzatore della “Ceka” del Ministero dell’Interno.
Una delle ultime occasioni di utilizzare le contraddizioni interne del fascismo viene sprecata dalla sinistra. A quel punto, l’ascesa di Mussolini diverrà inarrestabile, il suo governo diverrà sempre più autoritario e repressivo, fino a fondare un regime, e la lotta armata degli anarchici e degli Arditi del Popolo verrà soffocata. Dopo l’ennesimo errore strategico dell’Aventino, le opposizioni di sinistra verranno messe a tacere per i successivi vent’anni.