venerdì 2 agosto 2019

Autonomia differenziata: polemiche infondate e qualche rischio reale


La sconfitta del meridionalismo tradizionale
Il dibattito sul federalismo differenziato, nel nostro Paese, è fra i tanti temi che sono viziati da pregiudiziali, ideologiche e spesso influenzate da interessi molto concreti. Nello specifico, il dibattito sullo sviluppo del Sud non ha mai superato un meridionalismo rivendicazionista (il Sud ha pagato sulla sua pelle lo sviluppo del nord, quindi occorrono compensazioni) un po’ keynesiano autentico ed un po’ finto-keynesiano, utile a coprire spesa pubblica inefficiente se non destinata ad oliare meccanismi consociativi e clientelari di potere e consenso, come ben diceva un economista meridionale come De Cecco.
Cio’ che e’ mancato e’ stata una seria autocritica di tale impostazione. Il fiume immenso di trasferimenti pubblici, statali ed europei, non hanno neanche scalfito superficalmente le condizioni strutturali del ritardo di sviluppo meridionale, se non nel ventennio ‘50-60, quando la programmazione e la progettazione degli interventi si faceva da Roma, dalla Casmez, da un gruppo di funzionari competenti, indipendenti dalla fame di consenso e soldi di una classe dirigente meridionale di tipo neo-feudale ed ignorante e dai vagiti assistenzialistici di una societa’ civile deprivata di senso civico e di consapevolezza del bene comune, ed abituata storicamente al metodo dell’elargizione.
Motivo fondamentale del successo dei primi anni di Casmez fu anche il fatto che le politiche fatte erano relativamente facili, perche’ basate su accumulazione di capitale fisico: infrastrutture, scuole, ospedali, aree industriali, quartieri popolari, stabilimenti industriali delle PPSS, tutta roba che si poteva fare disponendo, come avveniva in quegli anni, di risorse finanziarie pubbliche illimitate.
Lo sviluppo industriale del Nord, parallelo, garantì l'assorbimento di manodopera in eccesso, provenienti dalle campagne modernizzate con la riforma agraria, che la nascente industria pubblica meridionale non avrebbe potuto assorbire appieno, e creo' le condizioni per investimenti industriali privati (la Fiat a Cassino, Melfi, Pomigliano e Termini Imerese, Termoli e Foggia, l’Olivetti nel napoletano, la Barilla in Puglia ed in Basilicata, Sgs a Catania, la Saras di Moratti in Sardegna, ecc. ecc.) e per creare aree protodistrettuali di terzisti degli stabilimenti settentrionali (il distretto salentino del Tac, la corsetteria di Lavello, la componentistica elettronica a Marcianise, la concia della pelle a Solofra,ecc.).
Ma in tutta questa fase di crescita del capitale materiale e di avvio di forme di industrializzazione, sia per poli che diffusa, manco’ un ingrediente fondamentale di un processo di sviluppo autosostenuto, non dipendente da investimenti esogeni: lo sviluppo di un capitale immateriale, fatto di competenze accessibili e diffuse, reti sociali e di senso comunitario e civico, di creativita’ e di meccanismi di riconoscimento e premio del merito. Dietro la maschera di una modernizzazione fittizia e solo materiale, la società meridionale continuava ad essere succube di logiche familistiche, clientelari, fideistiche e gerarchiche, mentre i migliori votavano con i piedi, emigrando, e lasciandosi dietro contesti sociali e lavorativi infeudati e fragili. Basta guardare le condizioni degli Atenei meridionali, nel sia pur generale dissesto italiano.
Senza questa capacità di rinnovamento civile e morale, nel momento in cui la catena dei soldi pubblici trasferiti dal ricco Nord al Sud si è incrinata, anche per scelte politiche di governi fortemente influenzati dal mondo imprenditoriale settentrionale, il finto sviluppo del Sud si è fermato, ed Il gap con il resto del Paese e’ tornato ad allargarsi.
Al di là di tutte le seghe mentali che economisti di area Pd sciorinano per creare un falso allarme secessionistico, il punto fondamentale è che, più dei soldi, il Mezzogiorno ha bisogno di un enorme investimento immateriale in capitale sociale, scolarizzazione, senso civico e comunitario, etica degli affari e della vita quotidiana, promozione dei migliori. È così, e non certo con fiumi di soldi pubblici, che aree un tempo poverissime del Veneto interno, alcune zone dell’Appennino tosco-emiliano, delle Marche e del Friuli sono diventate ricche.
La cultura dei trasferimenti va mantenuta, ed infatti, anche con la volontà esplicita dei governatori della Lombardia e del Veneto, ci saranno fondi perequativi, a copertura delle particolari diseconomie esterne causate dalla gestione dei servizi pubblici in aree scarsamente connesse e povere. Ma quello che vogliono impedire i cosiddetti denuncianti di inesistenti secessioni e’ che, seppur con maggiori margini derivanti dalle suddette diseconomie esterne, le Regioni meridionali razionalizzino la spesa corrente al costo standard sostenuto dalle altre, perche’ sulle inefficienze campano interi circuiti di clientelismo. Cio’ che e’ inaccettabile e’ che le regioni che conseguono risparmi di spesa non possano reinvestirli sul loro territorio per migliorare i servizi, anziche’conferire alle altre regioni tale risparmio, per coprire inefficienze altrui, come avviene oggi, con il sequestro, da parte dello Stato, dell’intero residuo fiscale. Perche’ vige un concetto peloso di solidarieta’, in base al quale i migliori devono autolivellarsi verso il basso per non emergere rispetto ai peggiori. E questo è pauperismo, non solidarietà. Non e’ accettabile che nessuno sia reponsabile dei soldi pubblici, perche’ gli attuali governatori si trincerano dietro la scusa che il denaro viene da Roma, insieme, il piu’ delle volte, alle regole su come spenderlo.

Dove risiede il vero punto di attacco al progetto federalista
Una vera critica del federalismo differenziato, quindi, non puo’ basarsi sulla volonta’ di tenere in piedi un sistema come quello attuale, un albero rovesciato, come lo defini Tremonti, appoggiandosi su calcoli aritmetici dei residui fiscali, spesso anche sbagliati. Critiche provenienti da ambienti accademici e tecnostrutture che beneficiano ampiamente del permanere del meridionalismo deviato di cui parlavo all’inizio.
Una vera critica si dovrebbe basare su un elemento piu’strutturale, e piu’ strategico. Non e’ escluso che settori della borghesia del Centro Nord, appoggiandosi sulla piattaforma ideologica leghista, pensino che non sia piu’ possibile salvare economicamente l’Italia nel suo insieme. Pensino cioe’ che, nei vincoli imposti dall’Europa ai conti pubblici. non vi siano margini per conseguire tassi di crescita potenziali piu’ alti per l’economia nazionale, tramite (nella loro visione liberista) un calo della pressione fiscale che sostenga consumi, profitti e competitività' di costo. A questo punto, la strategia potrebbe essere quella di portare la programmazione dei servizi e delle politiche pubbliche sui territori, spostandola da Roma. Cio’ consentirebbe di creare in loco le condizioni per una riduzione del peso fiscale, sbarazzandosi della necessità di finanziare i costi da inefficienza delle altre regioni, perlopiù del Sud.
Tale deriva innescherebbe una sorta di secessione economica, anche ad invarianza degli assetti istituzionali. La solidarieta’ finanziaria con le Regioni del Sud, che ancora oggi Zaia e Fontana assicurano, tenderebbe con il tempo a sfilacciarsi. Le imprese del nord, dentro un mercato interno ancora piu’ segmentato dell’attuale, tenderebbero inevitabilmente ad integrarsi, produttivamente e commercialmente, con le aree centro e nord europee. Lo strumento operativo di tale integrazione sarebbe dato dalle attuali macro-regioni europee, ovvero aree vaste di tipo transfrontaliero, destinatarie di specifici finanziamenti della Ue.

Che fare, che prospettive?
Naturalmente, e’ ancora possibile fermare tale deriva. Ma non si puo’ pretendere di farlo con pseudo-argomenti costituzionali di dubbia fondatezza, simulazioni finanziarie pilotate per creare allarmismi o rivendicazioni territoriali, che alimentano ulteriormente il fenomeno, anziche’ fermarlo, o negando a milioni di elettori del Nord di vedere un esito per il loro voto referendario, alimentando ulteriore sfiducia nella democrazia. Si fa costringendo la Lega ad inserirsi dentro un meccanismo di solidarieta’ reali, con fondi di perequazione permanenti commisurati a diseconomie esterne appurate e stimate, e con il parallelo obbligo di definire a livello normativo i livelli essenziali delle prestazioni, in modo da garantire servizi omogenei a tutti gli italiani, perche’ l’assenza di tale definizione per tutti i servizi pubblici e’ il vero vulnus in termini di solidarieta’ nazionale, non il federalismo.
Rimane da chiedersi cosa succederebbe se, invexe, lo scenario autonomistico puro realizzasse, il residuo di un sentimento unitario italiano che, storicamente, ha fatto molta fatica ad imporsi, ed in fondo non vi e’ riuscito del tutto, sparirebbe. Su un piano piu’ generale, l’esigenza di difendersi dalle minacce della globalizzazione scenderebbe dalle frontiere nazionali, oramai troppo porose, alle comunita’ locali, piu’ omogenee in termini culturali, relazionali e storici, quindi piu’ resilienti dello Stato nazionale rispetto ai tentativi della globalizzazione di imporre omogeneizzazioni forzate. Si tratta, in fondo, dell'intuizione di Acquaviva, ma anche di alcuni concetti sul regionalismo espressi da Porter.
Su un piano piu’ specifico, finito, insieme ad una unita’ nazionale molto litigiosa e poxo sentita, un meridionalismo rivelatosi inefficace, il nostro Sud dovrebbe nuotare o morire: o costruire il capitale immateriale necessario ad un processo do sviluppo endogeno ed autosostenuto, oppure morire.




Ma ad un certo livello dello sviluppo, l’accum

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