mercoledì 21 agosto 2019

Il Patto di Pacificazione dell'agosto 1921: una enorme opportunità persa dalle sinistre


 Zaniboni ed Acerbo, i due autori del Patto di pacificazione
Un episodio non molto analizzato del periodo pre-fascista fu il cosiddetto “Patto di Pacificazione”, che Mussolini offrì alla sinistra, nel pieno del fuoco della guerra civile che sconvolgeva il Paese. Generalmente lo si archivia come una delle tante furbate trasformistiche di Mussolini, presto abbandonata per l’opposizione dei Ras locali, assolutamente ostili ad abbandonare la profittevole (per loro) guerra civile nei loro territori di appartenenza.
La realtà è più complessa, e merita di essere analizzata più approfonditamente. Lo scenario è il seguente: il Paese è in piena guerra civile. Ogni giorno, le squadre fasciste e quelle socialiste, ivi compresi gli anarchici, si confrontano sanguinosamente per le strade. Lo scontro è feroce, ma in realtà è stato già perso dalla sinistra. Il tentativo di dare l’assalto al cielo si era compiuto, ed esaurito, nel 1919-1920. Nel solo primo anno, più di 1,5 milioni di lavoratori parteciparono agli scioperi, ai tumulti, alle occupazioni di fabbriche, che in alcuni casi portano ad esperimenti di autogestione operaia. Nel 1920, tale numero arriva a 2,3 milioni. Ad ottobre 1919, il congresso di Bologna del partito socialista aveva visto la vittoria dei massimalisti, ai danni della componente istituzionale e riformista di Turati, con l’esplicito sdoganamento della violenza politica come strumento di lotta con l’obiettivo di costruire una Repubblica di tipo sovietico.
Ma il “momentum” della lotta viene perso quasi subito, condannando il tentativo rivoluzionario ad un fallimento. La direzione politica della fase insurrezionale da parte dei massimalisti al comando del partito socialista è fallimentare, e non riesce ad indirizzare il popolo verso obiettivi precisi. Scrive Angelo Tasca che “il partito continua ad ubriacarsi di parole, a redigere sulla carta dei progetti di Soviet, abbandonando a sé stesse le commissioni di fabbrica del nord ed i contadini affamati di terra del sud”.
Nonostante una netta vittoria alle elezioni del 1919, con il partito socialista che prende il 32,4% dei voti, ed i vecchi partiti liberaldemocratici, del tutto incapaci di affrontare la deriva disperata ed estremistica del Paese, messi per la prima volta in minoranza, i socialisti riescono nel più perfetto dei cul-de-sac: a livello istituzionale vengono letti come degli estremisti pericolosi, e non riescono a cementare una alleanza con l’altro partito espressione dei ceti medio-bassi, ovvero il partito popolare di Don Sturzo, che sorreggerà con l’appoggio esterno i moribondi partiti liberaldemocratici, mentre nelle piazze sono troppo indecisi per guidare una insurrezione di tipo rivoluzionario. Il fallimento dello “sciopero delle lancette” negli stabilimenti Fiat di Torino, con il conseguente ridimensionamento dei Consigli di Fabbrica, si verifica perché i vertici del partito socialista e del sindacato, spaventati da un movimento operaio che li sta superando per dinamismo rivoluzionario, si rifiutano di fornire supporto. Da quel momento, il movimento rivoluzionario inizia a perdere slancio ed incidenza. L’11 settembre 1920, a fronte di una vastissima sequela di occupazione di fabbriche del nord, dalla Fiat alle Officine Romeo e alla Isotta Fraschini fino ai cantieri navali di Genova, i vertici del sindacato e del partito decisero, di fatto, di abbandonare lo sbocco rivoluzionario della lotta, cercando di ricondurla entro i limiti dei normali negoziati con il padronato. Entro la fine del mese, le occupazioni delle fabbriche cessarono, a fronte, praticamente, di nessuna conquista vera e propria da parte degli operai. 

 Guardie Rosse in una fabbrica occupata

La sconfitta del Biennio Rosso ebbe però pesanti conseguenze sociali e politiche in un Paese sconvolto e privo di guida, distrutto dalla crisi economica e dall’inflazione. La componente rivoluzionaria del PSI, delusa dai massimalisti, uscì dal partito per fondare il partito comunista, a Livorno, nel 1921. La borghesia italiana, spaventata dagli scioperi e dalle occupazioni, avanti alla relativa neutralità messa in mostra dal politicamente fragile Governo Giolitti durante la fase più dura della lotta sociale, decise che le soluzioni liberali e democratiche non erano più in grado di difenderla. C’era bisogno di autoritarismo.
Un piccolo movimento, perlopiù agrario e concentrato nella pianura padana, guidato da un dirigente socialista rinnegato ed economicamente spiantato, Benito Mussolini, uomo che nel 1920 sembrava finito, viene preso in considerazione per l’efficace e violenta azione di soffocamento di alcune rivolte contadine nella Bassa condotta da ex militari profondamente antisocialisti. A fronte del disprezzo per gli ex combattenti che la stupidità pacifista del PSI mette in luce sotto la guida delle segreterie massimaliste di Bombacci e Gennari, le Associazioni di reduci, che parlano a milioni di ex soldati, tornati feriti nell’anima e nel corpo dalla guerra, umiliati dalla pace mutilata del 1919 e non più reinseriti nella vita civile a causa della grave crisi economica in cui versa il Paese, guardano con speranza di riscatto a questo Movimento dei Fasci Italiani di Combattimento. 

Squadristi fascisti

Giolitti, oramai senescente ed incapace di ricostruire la fitta rete di consenso che ne aveva decretato il suo grande potere negli anni anteguerra, è in cerca dell’ultima carambola: presentarsi come uomo di unità e ricucitura di un Paese dilaniato da odio e lotta sociale. L’intento è paradigmatico del giolittismo: assimilare la componente riformista del PSI e del sindacato dentro un fronte sociale di orientamento borghese e moderatamente liberale, tramite alcune, piccole, concessioni sociali. Commette il più grande errore della sua carriera politica: alle elezioni politiche del maggio 1921, include i fascisti dentro le liste elettorali del suo blocco nazionale. E’ in parte un tentativo di ingraziarsi la borghesia, sempre più estremizzata e che chiede uno Stato forte ed autoritario, in parte l’illusione di poter facilmente controllare, e poi liquidare il fascismo, dopo averlo ripulito e incivilito con le pratiche del trasformismo parlamentare. Giolitti e Croce vedono nel giovane movimento fascista poco più che un caotico ed incolto movimento agrario di picchiatori politicamente ingenui, guidato da un colorito ma sostanzialmente ingenuo e fallito istrione, utile per tenere tranquilli gli istinti autoritari della borghesia, richiamare a sé i voti degli ex combattenti e controbilanciare le profferte programmatiche fatte ai socialisti: tassazione dei profitti di guerra, imposizione delle successioni, istituzione della settimana lavorativa a 48 ore nell’industria, e soprattutto la nominatività e tassazione dei titoli azionari, che colpiva duramente le rendite degli industriali e degli enti ecclesiastici. 

 Un anziano Giolitti

Naturalmente, in una situazione di polarizzazione e lacerazione sociale così accentuata, il vecchio equilibrismo giolittiano non può più avere successo. Le elezioni sono per lui un fallimento: il suo blocco nazionale ottiene appena un centinaio di seggi, e di conseguenza è necessario ricercare una formula di coalizione. Ma la sinistra, avvelenata per la soppressione del prezzo politico del pane e per l’inclusione dei fascisti nelle liste elettorali, gli volta le spalle. I popolari, aizzati dalla Chiesa per via della questione della nominatività dei titoli azionari, gli negano ogni appoggio. Il Re Vittorio Emanuele nutre profonda antipatia da sempre nei suoi confronti.  
In un quadro di instabilità politico-parlamentare drammatico, i fascisti sono gli unici a poter sorridere: nel 1919 non avevano ottenuto nemmeno un seggio, sepolti da un risultato elettorale modestissimo. Adesso, sfruttando la forza di inerzia del blocco giolittiano in cui sono stati inseriti, ottengono 35 seggi parlamentari, fra i quali quello conquistato dallo stesso Mussolini. Il quale è molto lesto a svincolarsi dall’alleanza con Giolitti, iniziando ad operare autonomamente. E’ a capo di un movimento di violenti, con una fama di spacca-testa. Gli Arditi e gli squadristi, guidati da capetti locali, soprannominati “ras”, che organizzano sul territorio spedizioni punitive e agguati violenti, perlopiù per eliminare avversari politici locali, “raddrizzare” giornalisti o sindacalisti scomodi a qualche borghese del posto, o fare qualche bottino, sono l’unico tratto unificante di un movimento caotico, in cui convivono anarco-sindacalisti, sindacalisti rivoluzionari, marxisti e persino ex comunisti, ex liberali pentiti, agrari e piccoli imprenditori, ex combattenti disoccupati ed incazzati con tutti, criminali comuni, mazzieri del Sud insieme a braccianti o picc
oli mezzadri in rovina, senza contare i monarchici più reazionari come De Bono o De Vecchi.

Scontri fra squadristi ed Arditi del Popolo a Roma

E’ molto importante, ai nostri fini, capire quale fosse la mentalità del Mussolini di quel periodo: approdato fra gli scanni del Parlamento dopo aver patito la fame, essere emigrato in Svizzera per fare lavoretti precari, essere stato molto vicino alla sparizione definitiva dal circuito politico, essere lì gli deve essere parso un miracolo. Ed infatti in parte lo era, mentre in parte era solo la conseguenza di una destra economica che iniziava a puntare su di lui per ottenere un profondo rinnovamento in senso reazionario dello Stato liberale oramai paralizzato e declinante. Il suo carattere irruente lo portava a credere che tutto fosse già possibile, che stesse per raggiungere il potere assoluto. Sedette, per sfida, alla destra estrema dell’emiciclo parlamentare, dove nessuno voleva sedere per non essere additato da estremista, sfidò democrazia e istituzioni nel suo primo discorso, e cercò di costruire una alleanza tattica con i popolari, puntando sulle componenti più confessionali del partito, ma anche con gli elementi riformisti del sindacato, facendo leva sulle relazioni maturate nel suo passato da dirigente socialista. Il suo movimentismo politico in quei primi mesi fu intenso, anche se partecipava raramente alle sedute parlamentari, da lui ritenute noiose espressioni di una plutocrazia da abbattere al più presto. Il suo tempo lo trascorreva preferibilmente nei comizi, al contatto con il popolo.
Era però un Mussolini disorientato. Non sapeva bene dove dovesse portare il suo movimento, e fino a dove gli sarebbe stato consentito di far avanzare la sfida al vecchio Stato liberale. I suoi non lo aiutavano affatto, andavano formandosi alcuni potentati locali che, nel futuro, sarebbero stati per lui fonti di fastidio: Farinacci a Cremona, Grandi ad Imola, Ciano a Livorno, e così via. Erano i ras del movimento, supportati dalla forza militare degli squadristi, che impedivano a Mussolini di avere il pieno controllo della sua stessa creatura politica, e che al tempo stesso, con le loro brutali e continue violenze, non gli consentivano di acquisire quel “bon ton” necessario per partecipare da statista riconosciuto al consesso politico ed istituzionale. 

 L'ispiratore del Patto di Pacificazione, il premier Ivanoe Bonomi

Il nuovo Governo, guidato dal socialista liberale Bonomi, uomo di Giolitti, ha, del resto, un atteggiamento ambiguo nei confronti del fascismo. Da un lato, con una circolare segreta, ordina all’Esercito di rifornire di mezzi, carburante ed armi le squadre fasciste, conferendo loro una potenza militare, ed una pericolosità, mai sperimentata prima. Dall’altro lato, ogni tanto arriva la risposta repressiva alle scorribande delle camicie nere, come a Sarzana, il 21 luglio, quando una squadra fascista che voleva far evadere lo squadrista Renato Ricci, incarcerato con l’accusa di violenza politica, viene affrontata a fucilate dai carabinieri. E’ evidente l’atteggiamento oscillante da parte degli ambienti monarchici, dai quali dipendono le Forze Armate e di polizia e di quelli borghesi, che da un lato vogliono favorire l’ascesa di Mussolini, ma dall’altra non si fidano ancora di lui, e quindi ogni tanto pensano di doverlo ridimensionare.
In questo contesto di incertezza, Mussolini ha due esigenze: da un lato, deve “smilitarizzare” il movimento fascista, di fronte ad un pericolo rivoluzionario bolscevico oramai superato, per indebolire i tanti ras locali che ne minano l’autorità. Dall’altro, deve conquistarsi le simpatie delle élite economiche del Paese che, stanche del continuo stato di guerra civile, vogliono normalizzare la situazione per poter passare a fare affari. Ed in questo contesto, spinto dallo stesso Premier Bonomi e dal liberale Enrico De Nicola, Presidente della Camera dei Deputati, Mussolini dà mandato al suo deputato più intelligente e moderato, Giacomo Acerbo, di prendere contatto con il gruppo parlamentare socialista per avviare una forma di pacificazione fra le rispettive milizie. Dall’altra parte, i socialisti designano come mediatore Tito Zaniboni, interventista e simpatizzante dell’impresa fiumana di D’Annunzio, quindi uomo tutto sommato, in quel momento specifico, non del tutto ostile al fascismo (poi proverà ad uccidere Mussolini, ma è un’altra storia). Entrambi massoni, Acerbo e Zaniboni tessono, in pochi giorni, lo schema dell’accordo di pacificazione, stipulato il 3 agosto. Socialisti e fascisti si impegnano a cessare ogni attività armata ed illegale ed ogni violenza reciproca, affidandosi ad un collegio arbitrale, in capo a De Nicola, per risolvere pacificamente ogni controversia relativa al patto stesso.
Si tratta, per la sinistra che, per ignavia ed inconcludenza, ha perso di fatto l’appuntamento con la storia, dopo il fallimento del biennio rosso, dell’ultima opportunità per fermare l’ascesa del fascismo. Una adesione intelligente al Patto, infatti, avrebbe aiutato Mussolini a sbarazzarsi della sua ala militare, oramai quasi fuori controllo, normalizzando il Paese, ed al contempo di infilarsi nelle contraddizioni interne al movimento fascista, fra intransigenti e mediatori, accrescendo il peso di questi ultimi, anche grazie al desiderio di Mussolini di rafforzare il lato istituzionale e politico del suo movimento, in questo modo frenando e, forse, invertendo la deriva inevitabile verso una crescente tendenza all’autoritarismo ed al sovversivismo che avrebbe, poi, connotato il partito, culminato nell’omicidio Matteotti.
Un simile accordo avrebbe forse, se avesse avuto successo, gettato le basi per un più avanzato livello di intelligenza politica fra fascismo e socialismo, spostandone più a sinistra il baricentro.
Naturalmente, per chi ragiona in termini di ideologia e di radicalismo, l’intelligenza tattica e mediatrice è una facoltà spenta. Il Patto nasce morto, ma non per colpa di Mussolini, ma per colpa dei comunisti, titolari di alcuni dei gruppi armati più violenti, che si sfilano dal Patto immediatamente, rifiutando per partito preso “intelligenze con il nemico di classe”, e degli Arditi del Popolo che, in totale autonomia, continuano la loro guerra personale contro gli squadristi fascisti.
L’adesione dei socialisti al Patto diviene, quindi, immediatamente inutile, non riuscendo a fermare l’idiotismo di una lotta armata oramai chiaramente perdente contro un nemico di gran lunga più forte ed organizzato, ed equipaggiato con materiale dell’Esercito e dei carabinieri. Comunisti, anarchici ed Arditi del Popolo, nel loro furore ideologico, offrono la sponda ai tanti ras locali del movimento fascista che non ne vogliono sapere niente di una eventuale pacificazione del Paese, poiché dalle loro scorribande ricavano potere, privilegi e ricchezza. Dentro il PSI, si apre un processo politico contro il segretario Bacci, che ha voluto il Patto, e che porterà all’espulsione di tutta l’ala moderata e potenzialmente dialogante, da Turati a Treves.
Con il fallimento del Patto, principalmente causato dal boicottaggio della “sinistra de sinistra”, Mussolini viene quindi messo in posizione difficile all’interno del suo stesso movimento. Dino Grandi cerca di scalzarlo dalla guida del fascismo, rimproverandogli la mollezza di voler la pace con la sinistra, che continua a sparare contro i propri camerati: il 16 agosto, i dirigenti emiliani del movimento, manovrati da Grandi, respingono il Patto. Mussolini, nonostante tutto, cerca di difendere la sua decisione politica, ed il giorno dopo, per protesta, si dimette dal Comitato Centrale dei Fasci. Motiva la sua decisione con argomenti ragionevoli: non si può pensare di eliminare con la forza due milioni di socialisti, l’obiettivo politico del fascismo va raggiunto con mezzi diversi dalle armi.
E’ chiaro che siamo ad un momento cruciale: si è aperto in modo esplicito un conflitto latente fra l’ala politico-parlamentare e quella squadrista del fascismo, in un momento come questo non bisogna dormire ma reagire: sarebbe necessario dare solidarietà a Mussolini, anche chiedere un arresto unilaterale di ogni ostilità come segnale di buona volontà, rafforzando l’ala negoziale, offrendo una sponda. Ma dalla sinistra non arriva niente. Mussolini è quindi isolato, senza sponde e a quel punto, per preservare il suo potere, scarica il Patto: al Consiglio Nazionale del 26 agosto, dove ha in mano la maggioranza, fa in modo di far respingere le sue dimissioni. In cambio del ritorno in sella, offre al rivale Grandi la rinuncia al Patto di pacificazione e la testa di Cesare Rossi, il vicesegretario dei Fasci, che era fra i firmatari del Patto stesso, e che in seguito passerà all’ala poliziesca e intransigente del regime, divenendo l’organizzatore della “Ceka” del Ministero dell’Interno.
Una delle ultime occasioni di utilizzare le contraddizioni interne del fascismo viene sprecata dalla sinistra. A quel punto, l’ascesa di Mussolini diverrà inarrestabile, il suo governo diverrà sempre più autoritario e repressivo, fino a fondare un regime, e la lotta armata degli anarchici e degli Arditi del Popolo verrà soffocata. Dopo l’ennesimo errore strategico dell’Aventino, le opposizioni di sinistra verranno messe a tacere per i successivi vent’anni.

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