Ho ricevuto su un mio
post anti-sardine una critica da parte di uno degli organizzatori dei
diversi eventi sardinistici che si stanno sviluppando. Presenta il
profilo tipico di molti giovani attuali, costretti a dividersi fra un
pluralità di lavori precari per sopravvivere, evidentemente a
stento.
Non conoscendo la
persona, non ho motivo di mettere in dubbio quanto afferma, e
sicuramente fra quanti riempiono le piazze con questi simboli ce ne
sono molti come lui, sarebbe assurdo affermare che le migliaia di partecipanti alle piazze sardiniste siano tutti iscritti al Pd, come è altrettanto assurdo tacciare di fascisti tutti i partecipanti ai comizi di Salvini. E' quindi necessario cercare di trarre spunto da
tale critica per ragionare un po' di più.
Mentre fuori dal nostro
Paese, anche se generalmente con risultati fallimentari, la sinistra
si è interrogata, o ha finto di farlo, sui legami fra
globalizzazione, diritti economici negati e non difesi e derive
populiste di destra, da noi tale riflessione non è pervenuta. Quando
persino i liberisti più avveduti, come Calenda o Cottarelli,
iniziano ad avanzare timori sugli eccessi raggiunti da una adesione
acritica al liberismo attuale, il pensiero non va oltre quanto
proposto da Barca a Bologna, oltretutto in condizioni di isolamento
rispetto alla dirigenza del Pd: un blando riconoscimento dei danni
sociali dell'apertura eccessiva dei movimenti di capitali e della
concentrazione delle conoscenze e dei saperi su una minoranza
oligarchica, con il conseguente abbattimento di ogni mobilità
sociale. Blandi riconoscimenti di errori a fronte dei quali Barca
propone rimedi modestissimi, e per certi versi inadeguati, perché
ancora nel solco liberista: campioni imprenditoriali europei
nell'high tech (una cosa alla quale riflettevo a metà anni Novanta,
quando tutti, me compreso, eravamo in fase di ubriacatura
europeista), salario minimo (che nella versione piddina altro non è
che il rinvio ai CCNL), qualche controllo in più da parte degli
Ispettorati del Lavoro per verificare la regolarità contributiva
delle imprese, rafforzamento delle competenze dei governi nazionali
in materia di promozione e selezione degli investimenti e ridisegno
delle vocazioni produttive delle aree di crisi (si tratta di un
modesto upgrading delle competenze tecniche dello Stato-arbitro
esterno al mercato, cosa ben diversa da un penetrante ruolo
interventista dello Stato in economia).
Persino questa blanda
critica, e questa curetta modesta, che non rimette in discussione i
fattori strutturali che hanno causato la sconfitta definitiva del
lavoro rispetto al capitale, riescono a penetrare nel corpo del Pd,
non solo nei suoi dirigenti, ma anche nei suoi militanti. I motivi di
un degrado culturale e politico della sinistra italiana così
drammaticamente grave, anche oltre il declino subito in tutto
l'Occidente sviluppato, sono molteplici e non è questa la sede per
approfondirli. Evidentemente, e l'inconsistenza politica e culturale
del movimento delle sardine lo dimostra, una narrazione perversa è
penetrata sin nei gangli più profondi di ciò che resta della sua
militanza storica, che ancora persiste dentro il Pd, legata ad una
obsoleta connessione sentimentale ad una storia che non esiste più,
la cui agonia è iniziata con la Bolognina del 1989 ed il cui epilogo
si consuma al Lingotto.
La narrazione è la
seguente: il conflitto sociale non è desiderabile, perché ci
riporta alle tragedie del Novecento, facendo risorgere comunismo e
fascismo, ed è superabile con la retorica del merito: è sufficiente
liberare la società da ogni vincolo etico e morale, quindi
massimizzare le libertà civili, affinché il merito e la
responsabilità individuale facciano la differenza. Se sei un
laureato precario che fa tre lavori per sopravvivere, se sei un
cinquantenne disoccupato, se non arrivi alla fine del mese pur
lavorando, se sei un piccolo imprenditore affogato nel debito, beh, è
colpa tua. In un mondo teorico completamente libero da qualsiasi
vincolo e dove vige un principio di libertà individuale assoluta,
avresti potuto gestire meglio le tue finanze, avresti potuto fare
quel corso di formazione professionale che ti avrebbe aperto più
porte, avresti potuto farti venire una idea imprenditoriale vincente
e fartela finanziare con il fondo di microcredito della tua regione,
avresti potuto emigrare in Germania, brutto pelandrone che sogna di
radicarsi con una casa ed una famiglia dove c'è la tua identità
personale e culturale, non hai capito che nel corso di Economia
Politica I ti hanno spiegato che i fattori produttivi sono mobili e,
in uno spazio omogeneo e a-identitario, vanno dove c'è domanda di
lavoro?
Se protesti contro questo
destino, sei automaticamente un fascista ed un populista di destra.
Perché, sempre dentro questa visione del mondo, se, anziché
utilizzare la tua libertà personale per cercarti una strada di
miglioramento della tua condizione, osi protestare con l'unica
protesta che è stata lasciata ai ceti popolari (strada
sbagliatissima, come spiegherò a breve), precipiti dentro
l'autocommiserazione e la rabbia contro gli altri, sei un “jerk”,
come il thatcherismo sprezzantemente chiamava i falliti del suo
modello senza società, e sei pericoloso, e vai represso (perché il
“Manifesto” è pieno di frasi esplicitamente minacciose, al di là
della melassa dei buoni sentimenti che lo pervade) perché con la tua
rabbia disturbi il godimento delle libertà di chi è riuscito a
farne qualcosa di utile per sé, e sei pericoloso, perché osi
ripristinare una visione della società dove non c'è libertà
assoluta, dove c'è uno Stato non solo arbitro, ma anche giocatore,
che pone vincoli all'individuo nel nome di un bene superiore. Un
concetto di rapporto fra libertà individuali e Stato che univa sia
il comunismo che il fascismo. Tutt'al più, certo, se ti consideri di
“sinistra” puoi sentire un dovere morale nel fare volontariato,
sostituendoti ad un ruolo che dovrebbe essere perseguito
istituzionalmente da uno Stato degno di questo nome, e non svuotato
delle sue competenze, o al massimo proporre qualche rete di
protezione minimale per chi non ce la fa, ma questa è solo una delle
tante versioni del liberismo, si chiama socio-liberismo. Ed avremmo
tutti, me compreso, dovuto far attenzione, perché questa visione era
già il cardine del Manifesto ulivista prodiano del 1995.
Ebbene, ribadisco, questa
narrazione perversa di cui è intriso il “Manifesto” delle
sardine è borghese, è accucciata ai poteri forti, fa presa su chi,
dentro questo mondo liberato da ogni vincolo e quindi ridotto a
sanguinosa arena per la sopravvivenza, ce l'ha fatta e, purtroppo,
come dimostra la critica di cui parlavo all'inizio, fa presa anche su
chi ne esce con le ossa rotte, ma viene nutrito di speranze che il
futuro sarà migliore a prescindere e catturato dal branco ittico. Le
speranze, specie quando sono ben sostenute da un apparato di
propaganda e da una ideologia rivenduta nei suoi aspetti superficiali
più piacevoli, sono un carburante quando si ha 23 anni, le ho avute
anche io. Alle soglie dei 50 anni, sono solo nostalgia e presa d'atto
razionale. E' inutile dire al precario che si dà da fare fra le
sardine che già Brecht ci ammoniva sul fatto che, spesso, alla testa
dei cortei si colloca il nemico. D'altra parte, il Pd non starebbe al
20% se dovesse basarsi solo sul voto delle categorie sociali che
usufruiscono delle sue politiche.
E, ribadisco, questa
narrazione, di cui gronda il “Manifesto” delle sardine, è più
psicoanalitica che politica, è anti-politica, perché sostituisce la
politica, che è analisi delle condizioni oggettive delle masse, con
una raccolta di sentimenti, illusioni, suggestioni, rêveries,
buoni propositi natalizi. Diventa politica nel momento in cui viene
chiaramente organizzata da ambienti prossimi al Pd, come strumento di
campagna elettorale per un voto regionale strategico per l'agone
della lotta di potere in corso. Perché nessuno è fesso, lo
spontaneismo delle masse non raggiunge i risultati ottenuti dalle
sardine, in termini di mobilitazione e visibilità mediatica, senza
una regia occulta seria e strutturata.
Ed
allora sarebbe il caso di esprimere un contro-Manifesto, se volete,
il Manifesto delle balene. Le balene sono animali longevi e lenti,
non hanno il giovanile guizzo colorato delle sardine. Sono piene di
ferite e quando vanno a morire si separano dal loro branco e muoiono
sole. Il Manifesto delle balene direbbe questo: che la libertà non
esiste. Non esiste. E' una costruzione illusoria. Nemmeno nello stato
di natura siamo liberi, perché siamo accompagnati da un'ombra sin
dal primo vagito: l'ombra della morte, che ci spinge verso una vita
non libera, ma soltanto fatta di reattività contro la morte. Ed è
questo il motivo per il quale, noi, esattamente come le termiti o le
formiche, costruiamo società complesse: sono strutture di
sopravvivenza, modi di procrastinare l'incontro con la morte, o per
collettivizzare la paura o, per meglio dire, per spostare quote di
paura da un gruppo più forte verso altri gruppi più deboli,
attraverso la lotta per la conquista delle risorse economiche che,
come è ovvio, prolungano la vita a chi le ha, accorciandola a chi ne
è privo. La società colloca le sue strutture, quindi, sulla paura e
sul conflitto, non sull'armonia e l'amore universale.
Se
la società è lotta dentro uno spazio di costrizioni e non di
presunte libertà, la lotta non si esorcizza, come cerca
capziosamente di suggerire il “Manifesto” sardinista, con la
predicazione di una impossibile libertà universale (che è soltanto
danno apportato ad altri) e di amore dentro una società distopica di
armonia assoluta. La lotta si deve riconoscere, anche nella sua
cattiveria e crudeltà, ed occorre orientarla dentro canali
democratici e di confronto civile, altrimenti, se tali canali sono
negati ed addirittura umiliati, perché “non abbiamo bisogno di
essere liberati da niente”, come affermano gli autori del
“Manifesto” (forse loro no, ma milioni di deprivati di questo
Paese invece sì) essa, esattamente come l'Ombra personale quando
viene negata, sorgerà in forme molto più aggressive.
Se
è vero che il populismo leghista non è affatto la soluzione, ma
parte, rilevante, del problema, e devo fare l'ennesima autocritica
del mio percorso personale, costellato solo da errori e mai da
soluzioni (attenzione, ho parlato del populismo leghista-salvinista,
che del populismo vero ha soltanto la mistica del leader, non del
populismo tout court, se è vero che, a mero titolo di esempio, dal
peronismo è nata la figura di Kirchner) esso non si combatte con il
pesce azzurro. Quello, al più, serve a controllare il colesterolo.
Non si combatte pretendendo che sia stato Salvini a creare delle
paure inesistenti nel corpo sociale. Si tratta di una madornale ed
imperdonabile mistificazione. Salvini non ha creato paure, ha
raccolto paure preesistenti e le ha amplificate. Ha scavato nelle
fondamenta della società, che non sono di amore, ma di terrore. Non
si combatte appellandosi alla generosità, perché la generosità
serve solo per mondarci l'anima, in attesa che essa voli via.
Il populismo delle origini era di sinistra
Il populismo delle origini era di sinistra
La destra si
combatte parlando alla paura, alla rabbia ed anche all'egoismo. Come
facevano gli antichi socialisti e comunisti. Parlando di lavoro, di
Stato assistenziale e non vessatorio, di protezione dagli aspetti più
predatori della globalizzazione, di politica dei redditi, di identità
nazionale, sì, cari miei, l'identità nazionale è una risposta al
disperato bisogno di radici della condizione umana, che è quella di
un fuscello esposto ai venti. Non lo volete chiamare socialismo?
Detestate il rossobrunismo? Bene, allora chiamatelo sarchiapone, e
come diavolo volete voi. Ma è di questo che dovete parlare. Ed è
questo che manca completamente nel vostro “Manifesto” ittico.
Che, in assenza di ciò, lo ribadisco, è per me soltanto una
confabulazione intimistica e scollegata dalla realtà.
Con
affetto verso i tanti pesci che sono vittime di questo Paese
modellato da una sinistra deviante e da una destra pessima. Ma nessun
affetto per chi ha organizzato questo movimento per finalità
elettorali, per chi spera di trarne vantaggi personali di visibilità,
per chi non vuole capire, perché non voler capire l'evidenza corrisponde ad
esserne complice, oltre che vittima.