domenica 24 novembre 2019

Lettera aperta alle sardine


Ho ricevuto su un mio post anti-sardine una critica da parte di uno degli organizzatori dei diversi eventi sardinistici che si stanno sviluppando. Presenta il profilo tipico di molti giovani attuali, costretti a dividersi fra un pluralità di lavori precari per sopravvivere, evidentemente a stento.
Non conoscendo la persona, non ho motivo di mettere in dubbio quanto afferma, e sicuramente fra quanti riempiono le piazze con questi simboli ce ne sono molti come lui, sarebbe assurdo affermare che le migliaia di partecipanti alle piazze sardiniste siano tutti iscritti al Pd, come è altrettanto assurdo tacciare di fascisti tutti i partecipanti ai comizi di Salvini. E' quindi necessario cercare di trarre spunto da tale critica per ragionare un po' di più.
Mentre fuori dal nostro Paese, anche se generalmente con risultati fallimentari, la sinistra si è interrogata, o ha finto di farlo, sui legami fra globalizzazione, diritti economici negati e non difesi e derive populiste di destra, da noi tale riflessione non è pervenuta. Quando persino i liberisti più avveduti, come Calenda o Cottarelli, iniziano ad avanzare timori sugli eccessi raggiunti da una adesione acritica al liberismo attuale, il pensiero non va oltre quanto proposto da Barca a Bologna, oltretutto in condizioni di isolamento rispetto alla dirigenza del Pd: un blando riconoscimento dei danni sociali dell'apertura eccessiva dei movimenti di capitali e della concentrazione delle conoscenze e dei saperi su una minoranza oligarchica, con il conseguente abbattimento di ogni mobilità sociale. Blandi riconoscimenti di errori a fronte dei quali Barca propone rimedi modestissimi, e per certi versi inadeguati, perché ancora nel solco liberista: campioni imprenditoriali europei nell'high tech (una cosa alla quale riflettevo a metà anni Novanta, quando tutti, me compreso, eravamo in fase di ubriacatura europeista), salario minimo (che nella versione piddina altro non è che il rinvio ai CCNL), qualche controllo in più da parte degli Ispettorati del Lavoro per verificare la regolarità contributiva delle imprese, rafforzamento delle competenze dei governi nazionali in materia di promozione e selezione degli investimenti e ridisegno delle vocazioni produttive delle aree di crisi (si tratta di un modesto upgrading delle competenze tecniche dello Stato-arbitro esterno al mercato, cosa ben diversa da un penetrante ruolo interventista dello Stato in economia).
Persino questa blanda critica, e questa curetta modesta, che non rimette in discussione i fattori strutturali che hanno causato la sconfitta definitiva del lavoro rispetto al capitale, riescono a penetrare nel corpo del Pd, non solo nei suoi dirigenti, ma anche nei suoi militanti. I motivi di un degrado culturale e politico della sinistra italiana così drammaticamente grave, anche oltre il declino subito in tutto l'Occidente sviluppato, sono molteplici e non è questa la sede per approfondirli. Evidentemente, e l'inconsistenza politica e culturale del movimento delle sardine lo dimostra, una narrazione perversa è penetrata sin nei gangli più profondi di ciò che resta della sua militanza storica, che ancora persiste dentro il Pd, legata ad una obsoleta connessione sentimentale ad una storia che non esiste più, la cui agonia è iniziata con la Bolognina del 1989 ed il cui epilogo si consuma al Lingotto.
La narrazione è la seguente: il conflitto sociale non è desiderabile, perché ci riporta alle tragedie del Novecento, facendo risorgere comunismo e fascismo, ed è superabile con la retorica del merito: è sufficiente liberare la società da ogni vincolo etico e morale, quindi massimizzare le libertà civili, affinché il merito e la responsabilità individuale facciano la differenza. Se sei un laureato precario che fa tre lavori per sopravvivere, se sei un cinquantenne disoccupato, se non arrivi alla fine del mese pur lavorando, se sei un piccolo imprenditore affogato nel debito, beh, è colpa tua. In un mondo teorico completamente libero da qualsiasi vincolo e dove vige un principio di libertà individuale assoluta, avresti potuto gestire meglio le tue finanze, avresti potuto fare quel corso di formazione professionale che ti avrebbe aperto più porte, avresti potuto farti venire una idea imprenditoriale vincente e fartela finanziare con il fondo di microcredito della tua regione, avresti potuto emigrare in Germania, brutto pelandrone che sogna di radicarsi con una casa ed una famiglia dove c'è la tua identità personale e culturale, non hai capito che nel corso di Economia Politica I ti hanno spiegato che i fattori produttivi sono mobili e, in uno spazio omogeneo e a-identitario, vanno dove c'è domanda di lavoro?
Se protesti contro questo destino, sei automaticamente un fascista ed un populista di destra. Perché, sempre dentro questa visione del mondo, se, anziché utilizzare la tua libertà personale per cercarti una strada di miglioramento della tua condizione, osi protestare con l'unica protesta che è stata lasciata ai ceti popolari (strada sbagliatissima, come spiegherò a breve), precipiti dentro l'autocommiserazione e la rabbia contro gli altri, sei un “jerk”, come il thatcherismo sprezzantemente chiamava i falliti del suo modello senza società, e sei pericoloso, e vai represso (perché il “Manifesto” è pieno di frasi esplicitamente minacciose, al di là della melassa dei buoni sentimenti che lo pervade) perché con la tua rabbia disturbi il godimento delle libertà di chi è riuscito a farne qualcosa di utile per sé, e sei pericoloso, perché osi ripristinare una visione della società dove non c'è libertà assoluta, dove c'è uno Stato non solo arbitro, ma anche giocatore, che pone vincoli all'individuo nel nome di un bene superiore. Un concetto di rapporto fra libertà individuali e Stato che univa sia il comunismo che il fascismo. Tutt'al più, certo, se ti consideri di “sinistra” puoi sentire un dovere morale nel fare volontariato, sostituendoti ad un ruolo che dovrebbe essere perseguito istituzionalmente da uno Stato degno di questo nome, e non svuotato delle sue competenze, o al massimo proporre qualche rete di protezione minimale per chi non ce la fa, ma questa è solo una delle tante versioni del liberismo, si chiama socio-liberismo. Ed avremmo tutti, me compreso, dovuto far attenzione, perché questa visione era già il cardine del Manifesto ulivista prodiano del 1995.
Ebbene, ribadisco, questa narrazione perversa di cui è intriso il “Manifesto” delle sardine è borghese, è accucciata ai poteri forti, fa presa su chi, dentro questo mondo liberato da ogni vincolo e quindi ridotto a sanguinosa arena per la sopravvivenza, ce l'ha fatta e, purtroppo, come dimostra la critica di cui parlavo all'inizio, fa presa anche su chi ne esce con le ossa rotte, ma viene nutrito di speranze che il futuro sarà migliore a prescindere e catturato dal branco ittico. Le speranze, specie quando sono ben sostenute da un apparato di propaganda e da una ideologia rivenduta nei suoi aspetti superficiali più piacevoli, sono un carburante quando si ha 23 anni, le ho avute anche io. Alle soglie dei 50 anni, sono solo nostalgia e presa d'atto razionale. E' inutile dire al precario che si dà da fare fra le sardine che già Brecht ci ammoniva sul fatto che, spesso, alla testa dei cortei si colloca il nemico. D'altra parte, il Pd non starebbe al 20% se dovesse basarsi solo sul voto delle categorie sociali che usufruiscono delle sue politiche.
E, ribadisco, questa narrazione, di cui gronda il “Manifesto” delle sardine, è più psicoanalitica che politica, è anti-politica, perché sostituisce la politica, che è analisi delle condizioni oggettive delle masse, con una raccolta di sentimenti, illusioni, suggestioni, rêveries, buoni propositi natalizi. Diventa politica nel momento in cui viene chiaramente organizzata da ambienti prossimi al Pd, come strumento di campagna elettorale per un voto regionale strategico per l'agone della lotta di potere in corso. Perché nessuno è fesso, lo spontaneismo delle masse non raggiunge i risultati ottenuti dalle sardine, in termini di mobilitazione e visibilità mediatica, senza una regia occulta seria e strutturata.
Ed allora sarebbe il caso di esprimere un contro-Manifesto, se volete, il Manifesto delle balene. Le balene sono animali longevi e lenti, non hanno il giovanile guizzo colorato delle sardine. Sono piene di ferite e quando vanno a morire si separano dal loro branco e muoiono sole. Il Manifesto delle balene direbbe questo: che la libertà non esiste. Non esiste. E' una costruzione illusoria. Nemmeno nello stato di natura siamo liberi, perché siamo accompagnati da un'ombra sin dal primo vagito: l'ombra della morte, che ci spinge verso una vita non libera, ma soltanto fatta di reattività contro la morte. Ed è questo il motivo per il quale, noi, esattamente come le termiti o le formiche, costruiamo società complesse: sono strutture di sopravvivenza, modi di procrastinare l'incontro con la morte, o per collettivizzare la paura o, per meglio dire, per spostare quote di paura da un gruppo più forte verso altri gruppi più deboli, attraverso la lotta per la conquista delle risorse economiche che, come è ovvio, prolungano la vita a chi le ha, accorciandola a chi ne è privo. La società colloca le sue strutture, quindi, sulla paura e sul conflitto, non sull'armonia e l'amore universale.
Se la società è lotta dentro uno spazio di costrizioni e non di presunte libertà, la lotta non si esorcizza, come cerca capziosamente di suggerire il “Manifesto” sardinista, con la predicazione di una impossibile libertà universale (che è soltanto danno apportato ad altri) e di amore dentro una società distopica di armonia assoluta. La lotta si deve riconoscere, anche nella sua cattiveria e crudeltà, ed occorre orientarla dentro canali democratici e di confronto civile, altrimenti, se tali canali sono negati ed addirittura umiliati, perché “non abbiamo bisogno di essere liberati da niente”, come affermano gli autori del “Manifesto” (forse loro no, ma milioni di deprivati di questo Paese invece sì) essa, esattamente come l'Ombra personale quando viene negata, sorgerà in forme molto più aggressive.
Se è vero che il populismo leghista non è affatto la soluzione, ma parte, rilevante, del problema, e devo fare l'ennesima autocritica del mio percorso personale, costellato solo da errori e mai da soluzioni (attenzione, ho parlato del populismo leghista-salvinista, che del populismo vero ha soltanto la mistica del leader, non del populismo tout court, se è vero che, a mero titolo di esempio, dal peronismo è nata la figura di Kirchner) esso non si combatte con il pesce azzurro. Quello, al più, serve a controllare il colesterolo. Non si combatte pretendendo che sia stato Salvini a creare delle paure inesistenti nel corpo sociale. Si tratta di una madornale ed imperdonabile mistificazione. Salvini non ha creato paure, ha raccolto paure preesistenti e le ha amplificate. Ha scavato nelle fondamenta della società, che non sono di amore, ma di terrore. Non si combatte appellandosi alla generosità, perché la generosità serve solo per mondarci l'anima, in attesa che essa voli via.

Il populismo delle origini era di sinistra

La destra si combatte parlando alla paura, alla rabbia ed anche all'egoismo. Come facevano gli antichi socialisti e comunisti. Parlando di lavoro, di Stato assistenziale e non vessatorio, di protezione dagli aspetti più predatori della globalizzazione, di politica dei redditi, di identità nazionale, sì, cari miei, l'identità nazionale è una risposta al disperato bisogno di radici della condizione umana, che è quella di un fuscello esposto ai venti. Non lo volete chiamare socialismo? Detestate il rossobrunismo? Bene, allora chiamatelo sarchiapone, e come diavolo volete voi. Ma è di questo che dovete parlare. Ed è questo che manca completamente nel vostro “Manifesto” ittico. Che, in assenza di ciò, lo ribadisco, è per me soltanto una confabulazione intimistica e scollegata dalla realtà.
Con affetto verso i tanti pesci che sono vittime di questo Paese modellato da una sinistra deviante e da una destra pessima. Ma nessun affetto per chi ha organizzato questo movimento per finalità elettorali, per chi spera di trarne vantaggi personali di visibilità, per chi non vuole capire, perché non voler capire l'evidenza corrisponde ad esserne complice, oltre che vittima.

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