Nel referendum sulla riduzione dei parlamentari quasi sicuramente vincerà un sì, non motivato da argomenti razionali, ma da una sordida rabbia per la Kasta ed un irrefrenabile individualismo, nel quale i presunti ed illusori risparmi economici da riduzione dei parlamentari assumono una veste simbolica di riduzione dello spazio pubblico a vantaggio di quello privato, di contrazione dello spazio collettivo, legata alla spesa pubblica ed agli organi di rappresentanza, a vantaggio di quello individuale, che rivendica spazi di libertà fiscale.
Si tratta, insieme alla piratesca e perenne riproposizione di forme di premierato, dell'ultimo frutto avvelenato di una stagione antipolitica, nella quale sguazzano a loro agio gli interpreti della pancia rancorosa ed individualista del Paese: Renzi, Salvini, i pentastellati.
Sarebbe tuttavia un errore grave, in prospettiva storica, associare a questo periodo particolarmente tormentato della nostra storia il vento dell'antipolitica. L'antipolitica è una costante storica del nostro popolo. La troviamo negli sciagurati che tifavano per la magistratura eterodiretta nel periodo di Tangentopoli, in certe tonalità bonapartiste e liquidatrici del tardo craxismo, nella formulazione compiutamente antipolitica, anti istituzionale e individualista del Fronte dell'Uomo Qualunque di Giannini nel secondo dopoguerra, nei bivacchi di manipoli e nell'antiparlamentarismo viscerale del fascismo, nell'anarchismo eversivo tardo ottocentesco ed in alcuni tratti del garibaldinismo e potremmo risalire ancora, fino a Masaniello.
Tale costante culturale e psicologica che si agita nell'ombra del popolo italiano tende ad emergere nelle fasi di crisi o di transizione, dove lo Stato ed i suoi apparati vengono vissuti come una odiosa elite che sottopone il popolo ad odiose restrizioni, tasse esagerate o grandi iniquità. Tende invece a sparire sottotraccia nelle fasi di stabilità politica e sociale, come ad esempio il lungo periodo giolittiano o i Trenta gloriosi sostituito, però, almeno in larghi strati della popolazione, da una forma di passività, di inerzia e disinteresse rispetto alla politica, che evidenzia come essa se ne senta comunque lontana, anche nelle fasi più favorevoli.
I motivi di questo peculiare antistatalismo ed antipoliticismo degli italiani sono complessi, a mio modo di vedere derivano dallo sgretolamento dell'unità politico amministrativa dell'Impero romano, a partire dalla quale non si ebbe più uno Stato unitario nazionale, dalla lunga dominazione di popoli e Stati stranieri, che crearono entità statuali non sentite come proprie dai sudditi, dalla influenza nefasta del lunghissimo confronto tra Chiesa secolarizzata e Impero, che insegnarono agli italiani una visione opportunistica, trasformista e violenta dello Stato, all'azione colonizzatrice della monarchia sabauda, che unifico' il Paese sottomettendolo militarmente e reprimendone brutalmente ogni istanza autonomistica, creando una lunga onda di risentimento ed estraneità dagli apparati statali, specie nel Sud Italia.
Ma, al netto delle ragioni di tale atteggiamento, esso esiste, si manifesta in modo esplicito e distruttivo nelle fasi di crisi, quasi come fosse una specie di rimedio catartico all'angoscia sociale tipica di tali fasi. E si presenta anche oggi, che siamo in una fase di crisi e transizione.
Essendo parti integranti del nostro modo di essere, l'antipolitica e l'antikasta non si possono battere, si possono però tenere sotto controllo. Perché se non controllata, tale tendenza produce o fasi reazionarie (vedi fascismo) o spinge chi vi si oppone a costruire, per autodifesa e per spegnere il dissenso distribuendo qualche briciola, a forme di politica trasformistiche e consociativo/corruttive (vedi Giolitti e Dc nelle fasi in cui hanno dominato).
Questa tendenza si tiene sotto controllo educando le masse, come si sarebbe detto in tempo, ovvero inserendole dentro sistemi politico culturali che esaltano la dimensione collettiva e solidale non in antitesi, ma in parallelo a quella individuale, come fossero due dimensioni coeve e mutuamente alimentantisi, come fecero il socialismo, il comunismo, il repubblicanesimo e il cattolicesimo sociale.
E si controlla portando il Paese fuori dalla crisi: a pancia anche solo per metà piena, ma con un futuro garantito, l'italiano medio tende a delegare la gestione politica, a tollerarla, quindi a non rivendicare lo smantellamento degli organi istituzionali e dei corpi intermedi.
giovedì 20 febbraio 2020
sabato 15 febbraio 2020
Il mondo nuovo della Casaleggio
Di recente, un piccolo
giornale on-line, beccandosi una querela, ha definito il M5s un
movimento di lobbisti. Casaleggio ha sentito l'esigenza di andare in
televisione a chiarire che il MoVimento è dei cittadini che lo
supportano e che durante il periodo di governo pentastellato nessuno
dei clienti della sua azienda è stato in alcun modo favorito.
Anche io credo, in
effetti, che accusare i pentastellati di lobbismo, nel senso classico
di questo termine, sia sbagliato ed ingiusto. Il tema non è quello
di un M5s che favorisce clienti e business di Casaleggio o la
carriera artistica di Grillo. Il tema è che, come ogni forza
politica, il M5s difende interessi specifici e non un generico popolo
di “cittadini” senza definizione di classe, come pretende
Casaleggio.
E la rappresentanza di
interessi che difende il M5s è di tipo imprenditoriale ed appartiene
alla stessa tipologia di realtà aziendali cui afferisce la
Casaleggio e Associati. Si tratta delle imprese che Mediobanca,
Picone ed altri studiosi hanno chiamato il “Quarto Capitalismo”
italiano. Dopo i grandi gruppi industriali delle famiglie storiche
(Agnelli, Pirelli etc.) del Primo Capitalismo tardo ottocentesco,
dopo il capitalismo di Stato nato nei primi anni Trenta con la
nazionalizzazione delle grandi banche e la creazione dell'IRI, il
Secondo Capitalismo, dopo il Terzo Capitalismo dei distretti
industriali e dei sistemi produttivi locali di piccola impresa a
gestione padronale-familiare nato negli anni Sessanta, dopo queste
fasi, che non vanno pensate come escludentesi l'una con l'altra, ma,
anzi, come fasi che hanno convissuto insieme, stratificandosi e
relazionandosi reciprocamente, il Quarto Capitalismo, nato già a
fine anni Novanta ed irrobustitosi durante la crisi economica che ha
colpito le spoglie dei capitalismi precedente ancora in vita, è un
modello di rottura con le relazioni dei tre capitalismi pregressi ed
ha caratteristiche molto specifiche:
- è costituito da imprese di medie dimensioni (approssimativamente, fra i 50 ed i 249 addetti, con natura giuridica di società di capitali), non troppo grandi da non poter sfruttare i vantaggi, in termini di flessibilità operativa e commerciale, tipici della piccola impresa, e non troppo piccole da non potersi avvantaggiare di economie di scala e di capacità di investimento anche rilevanti tipiche di imprese più grandi;
- la sua impresa tipica ha un assetto di governance ancora basato sulla famiglia del fondatore, ma è stata abile ad aprire il capitale sociale all'apporto di nuovi soci finanziatori ed a delegare la gestione a manager qualificati, incorporando competenze e capitali, a differenza della vecchia piccola impresa padronale, gelosamente chiusa al mondo esterno;
- si tratta di una impresa a strategia fortemente innovativa, non solo in termini di varo di nuovi prodotti, ma soprattutto di personalizzazione e redesign di prodotti esistenti, anche tradizionali (mobili, vestiti, occhiali o scarpe) al fine di personalizzarli per una nicchia di mercato ancora non sfruttata;
- si tratta di una impresa fortemente internazionalizzata, che quasi disdegna il mercato interno, e che vive con la testa sui mercati esteri, valorizzando al massimo la qualità dei suoi prodotti e l'immagine di eccellenza del marchio del made in Italy. Generalmente la strategia commerciale internazionale è gestita dal figlio del fondatore, che ha studiato all'estero ed ha poche radici in Italia.
Tale tipologia di
impresa, che non di rado esce dai sistemi distrettuali esistenti come
impresa leader, che ha ridotto il resto del distretto allo stato di
subfornitore specializzato, si sviluppa sull'asse Milano-Venezia e si
propaga in Emilia-Romagna ed in alcune aree della Toscana e del
Centro Italia, nei sistemi produttivi di eccellenza
dell'agroalimentare, delle macchine utensili e della meccanica di
precisione, si concentra sul made in Italy ma non solo, perché nelle
realtà urbane si sviluppa nel terziario avanzato, nella creatività,
nel design, nella cultura.
Questo è il tipo di
capitalismo che il M5s difende, perché gli appartiene la Casaleggio.
Ovviamente, tale tipo di capitalismo emergente intrattiene con i
resti dei modelli precedenti relazioni in parte conflittuali, in
parte negoziali. Vi si oppone fieramente nella misura in cui, pur
essendo la componente che sostiene esportazioni e PIL, viene
sottorappresentato nei “salotti che contano”. Confindustria, così
come i partiti tradizionali, tendono ancora, da un lato, a
privilegiare i grandi gruppi industriali privati e le grandi famiglie
del capitalismo tradizionale italiano (come i Benetton, non a caso
così osteggiati dal MoVimento) e, dall'altro (si pensi alla Lega) a
favore il mondo dei distretti industriali tradizionali e dei sistemi
produttivi locali di componentisti e subfornitori. Mentre ciò che
resta dell'industria pubblica viene tutelato perché ancora fonte di
prebende ed incarichi.
L'intero apparato
ideologico del M5s va letto in funzione delle caratteristiche e degli
interessi del Quarto Capitalismo ed è interessante perché evidenzia
come i padroni del domani vedono il mondo. Un mondo nel quale i
tradizionali rapporti fra grandi famiglie dell'imprenditoria privata
e sistema pubblico dialogano, tessendo una rete di concessioni e
favori reciproci, anche tinteggiata da corruzione (tali imprenditori,
non a caso, vengono chiamati “prenditori” da Di Maio). Da lì
derivano le ossessioni pentastellate sulla lotta alla corruzione e
sull'onestà: si tratta di spezzare una rete relazionale fra privati
e politica cui le imprese emergenti del nuovo capitalismo italiano
non partecipano e dalla quale non traggono beneficio.
Un mondo nel quale
l'organizzazione produttiva di massa del Primo Capitalismo, la
politicizzazione delle relazioni industriali del Secondo Capitalismo,
il forte radicamento territoriale e la responsabilità per le
comunità locali tipiche del capitale sociale creato dai distretti
industriali del Terzo Capitalismo hanno creato, da un lato, forti
organizzazioni sindacali, e dall'altro importanti radicamenti
localistici e territoriali, che vanno smantellati. Da lì provengono
gli strali continui dei pentastellati, Grillo in testa, contro i
sindacati, da lì proviene la proposta di salario minimo (che di
fatto svuota la negoziazione fra parti sociali sulla componente
economica dei CCNL, la più importante) e da lì la strampalata
proposta di Grillo sulle cosiddette “macroregioni”, che avrebbero
definitivamente distrutto i margini di autonomia locale dell'attuale
assetto regionalistico dello Stato, fortemente legato ai mercati
locali ed ai distretti radicati su territori dei quali si assumono la
responsabilità dello sviluppo.
Come detto sopra,
sociologicamente il M5s è interessante perché rispecchia i valori e
le credenze di questo Quarto Capitalismo, la sua visione di
democrazia, ben sintetizzata da Casaleggio, con l'espressione
“governo dei migliori”. Una forma di democrazia diretta,
interamente intermediata da piattaforme informative, in cui le
istituzioni ed i corpi intermedi scompaiono, in cui ai cittadini
vengono chieste le priorità generali da perseguire, la cui sintesi
in una linea politica complessiva viene demandata ad un ristretto
gruppo di “elevati” fortemente carismatici, ma non eletti e
generalmente tenutari delle chiavi di accesso alle piattaforme
informative di cui sopra, e la cui esecuzione viene affidata, fuori
da meccanismi rappresentativi, a persone provenienti dalla società
civile, opportunamente qualificate sotto il profilo professionale e
specialistico, scelte dagli elevati tramite l'analisi dei Cv, come se
fossero candidati ad offerte di lavoro di aziende private. Ciò al
netto dei soli candidati alla guida dell'istituzione, votati on line
dai cittadini, ma i cui requisiti di ammissibilità alla candidatura
vengono stabiliti unilateralmente dagli elevati, in modo tale da
assicurarsi la fedeltà di chiunque sia il vincitore.
Si tratta, evidentemente,
di un incubo da romanzo di Huxley, una forma di oligarchia con una
apparenza di democrazia, ma in cui gli elettori possono, di fatto,
soltanto esprimere dei fabbisogni, delle richieste, affidandone la
trasformazione in un programma politico e l'esecuzione a persone non
elette, non rappresentative o, nei pochi casi in cui le stesse
verranno elette, scelte in una rosa di personalità che hanno
ottenuto dall'alto una autorizzazione preventiva alla candidatura e
quindi prive di indipendenza di pensiero.
E' ovvio che tale incubo
sia, nella mente dei Quarti Capitalisti, il sogno di una società
ideale: essendo cresciuti in un Paese che non ne valorizzava il
talento, essendo stati esclusi ab origine dai circuiti concertativi
fra famiglie imprenditoriali e politica, essendo stati costretti a
cercarsi i clienti sui mercati esteri ed a fare innovazione continua
in un Paese che non premia l'innovazione, avendo avuto successo
delegando la gestione dal fondatore che rischia i suoi capitali ad un
manager aziendale competente tecnicamente, essi hanno maturato una
ideologia meritocratica per la quale solo il competente, solo chi ha
acquisito determinati skill professionali, può dirigere la politica.
In fondo, l'idea di Stato
ridotto a “democrazia dei migliori”, come sopra tratteggiato, non
è nient' altro che la replica dei modelli di governance delle
imprese del Quarto Capitalismo estesa alla Cosa Pubblica. Un gruppo
di “fondatori”, o “elevati”, che detiene le chiavi di
controllo dei sistemi politico-elettorali, con operazioni di
marketing estrae dagli elettori (ovvero i clienti) la loro domanda di
mercato e ne fa una sintesi programmatica (un business plan) la cui
esecuzione viene affidata a manager e tecnici specializzati (i
Tridico della situazione). Al fine di dare una apparenza di
democrazia, qualche utile poveretto, incolto ed incapace (il di Maio
della situazione) viene messo in una posizione di formale comando
politico (in realtà priva di contenuti, Di Maio non ha mai deciso
niente che non gli arrivasse dal suo Casaleggio-Grillo) che può
essere facilmente eliminato quando diventa fastidioso o inutile. Il
dibattito interno non esiste (chi dissente o anche soltanto opina
viene infatti espulso dal M5s) e non vi è controllo sulle modalità
con le quali il programma, partendo dai fabbisogni dell'elettorato,
viene costruito ed attuato.
Una dittatura abilmente
mascherata con tratti libertari del tutto svuotati di senso. La
dittatura perfetta, del resto, avrà sembianze di democrazia, una
prigione senza muri, Huxley docet.
domenica 9 febbraio 2020
Una primissima stima degli effetti macroeconomici del coronavirus
L'impatto del coronavirus sull'economia globale, e su quella italiana, sarà, a detta di tutti gli esperti, molto più grave di quello che si ebbe con la Sars, quando l'effetto sul Pil mondiale fu di circa 0,15 punti di riduzione.
Oggi l'economia cinese è quattro volte più grande rispetto ai tempi della Sars, contribuisce per un terzo alla crescita globale, è il primo esportatore ed il secondo importatore del mondo. Gli effetti distruttivi saranno immediati (chiusura di attività produttive e commerciali per via della quarantena, blocco di flussi tusitici verso l'interno e l'esterno, calo della capitalizzazione di Borsa delle imprese miste o private quotate nel Paese) e di più lunga lena (blocco delle catene globali del valore in cui il Paese è coinvolto, con perdite produttive a monte ed a valle, blocco dei flussi turistici, contrazione delle importazioni). Tutto ciò è aggravato dal rallentamento strutturale in atto nell'economia cinese (dipendente da numerosi fattori, invecchiamento demografico, dazi doganali USA, priorità di investimento sbagliate, persistente dinamica negativa nei redditi fra città e campagna, ecc.) che potrebbe rallentare la ripresa, a differenza di quanto avvenuto con la Sars, quando la Cina era in pieno boom. Infine, la nuova malattia sembra avere un tasso di infettività più rapido della Sars, e gli effetti sull'economia, in termini di rallentamento delle attività lavorative, dipende dai contagiati, non dai morti.
Le prime stime preliminari, riferite all'economia globale, parlano di un rallentamento dell'economia mondiale da coronavirus di 1,8 punti percentuali (e di 6 punti per la sola Cina, che praticamente finirebbe in stagnazione dal 6,1% di crescita prevista prima della pandemia) sempre che l'epidemia venga rapidamente isolata e fermata. Altrimenti il conto sarà incomparabilmente più alto. I modelli econometrici stimano che per ogni punto di Pil perso dall'economia cinese, l'economia mondiale ne perde 0,3. Se si avverassero le previsioni più pessimistiche circa il contenimento del virus, che parlano di un rallentamento dell'economia cinese molto più profonda e duratura, allora l'economia mondiale perderebbe 3,3 punti di crescita in un solo anno.
L'Italia è esposta su due versanti: il rallentamento del turismo cinese, che nel 2019 aveva registrato 5,3 milioni di presenze, un record. Si parla di 500.000 arrivi in meno legati al coronavirus. In termini di spesa lasciata sul territorio italiano, parliamo di 150 milioni di euro in meno per ricettività e ristorazione, altri 750 milioni di meno per acquisti vari. A ciò vanno aggiunte le minori esportazioni, specie di beni di lusso del made in Italy: l'export italiano in Cina, che nel 2018 vale 13,2 miliardi, stante la relazione esistente fra export italiano e Pil cinese, potrebbe risentire per circa 0,9 punti, ovvero per circa 1,3 miliardi di euro, il calo del Pil e dei consumi interni cinesi. Infine, occorre aggiungere al conto i 22 miliardi di euro annui fatturati da imprese italiane presenti in Cina, che potrebbero ridursi, nelle ipotesi più ottimistiche, di un altro miliardo di euro.
Nell'insieme, se va tutto bene e l'epidemia verrà rapidamente isolata e sconfitta, l'economia italiana potrebbe perdere 3,2 miliardi circa, ovvero 0,2 punti di Pil, fermandosi ad una crescita prevista dello 0,1% per il 2020. Se poi l'epidemia non dovesse fermarsi in tempi rapidi, il conto crescerà esponenzialmente, e non linearmente, e parleremmo di una recessione vera e propria.
E' chiaro che ci troviamo in una emergenza che richiede scelte di politica economica e fiscale (prima ancora che monetaria, visto che le politiche molto accomodanti di Bce e Fed di questi anni hanno impattato poco sulla crescita globale) molto coraggiose e di rottura rispetto all'austerità attuale. Non è il momento di discettare di differenze fra spesa pubblica produttiva e non produttiva, di limitare la deducibilità degli investimenti pubblici dal deficit alle sole spese green (che peraltro hanno spesso impatti ritardati sulla crescita) né di continuare a ragionare in termini di output gap, con gli effetti prociclici che la sua applicazione al bilancio dello Stato implica.
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