domenica 9 febbraio 2020

Una primissima stima degli effetti macroeconomici del coronavirus


L'impatto del coronavirus sull'economia globale, e su quella italiana, sarà, a detta di tutti gli esperti, molto più grave di quello che si ebbe con la Sars, quando l'effetto sul Pil mondiale fu di circa 0,15 punti di riduzione.

Oggi l'economia cinese è quattro volte più grande rispetto ai tempi della Sars, contribuisce per un terzo alla crescita globale, è il primo esportatore ed il secondo importatore del mondo. Gli effetti distruttivi saranno immediati (chiusura di attività produttive e commerciali per via della quarantena, blocco di flussi tusitici verso l'interno e l'esterno, calo della capitalizzazione di Borsa delle imprese miste o private quotate nel Paese) e di più lunga lena (blocco delle catene globali del valore in cui il Paese è coinvolto, con perdite produttive a monte ed a valle, blocco dei flussi turistici, contrazione delle importazioni). Tutto ciò è aggravato dal rallentamento strutturale in atto nell'economia cinese (dipendente da numerosi fattori, invecchiamento demografico, dazi doganali USA, priorità di investimento sbagliate, persistente dinamica negativa nei redditi fra città e campagna, ecc.) che potrebbe rallentare la ripresa, a differenza di quanto avvenuto con la Sars, quando la Cina era in pieno boom. Infine, la nuova malattia sembra avere un tasso di infettività più rapido della Sars, e gli effetti sull'economia, in termini di rallentamento delle attività lavorative, dipende dai contagiati, non dai morti.

Le prime stime preliminari, riferite all'economia globale, parlano di un rallentamento dell'economia mondiale da coronavirus di 1,8 punti percentuali (e di 6 punti per la sola Cina, che praticamente finirebbe in stagnazione dal 6,1% di crescita prevista prima della pandemia) sempre che l'epidemia venga rapidamente isolata e fermata. Altrimenti il conto sarà incomparabilmente più alto. I modelli econometrici stimano che per ogni punto di Pil perso dall'economia cinese, l'economia mondiale ne perde 0,3. Se si avverassero le previsioni più pessimistiche circa il contenimento del virus, che parlano di un rallentamento dell'economia cinese molto più profonda e duratura, allora l'economia mondiale perderebbe 3,3 punti di crescita in un solo anno.

 L'Italia è esposta su due versanti: il rallentamento del turismo cinese, che nel 2019 aveva registrato 5,3 milioni di presenze, un record. Si parla di 500.000 arrivi in meno legati al coronavirus. In termini di spesa lasciata sul territorio italiano, parliamo di 150 milioni di euro in meno per ricettività e ristorazione, altri 750 milioni di meno per acquisti vari. A ciò vanno aggiunte le minori esportazioni, specie di beni di lusso del made in Italy: l'export italiano in Cina, che nel 2018 vale 13,2 miliardi, stante la relazione esistente fra export italiano e Pil cinese, potrebbe risentire per circa 0,9 punti, ovvero per circa 1,3 miliardi di euro, il calo del Pil e dei consumi interni cinesi. Infine, occorre aggiungere al conto i 22 miliardi di euro annui fatturati da imprese italiane presenti in Cina, che potrebbero ridursi, nelle ipotesi più ottimistiche, di un altro miliardo di euro. 

Nell'insieme, se va tutto bene e l'epidemia verrà rapidamente isolata e sconfitta, l'economia italiana potrebbe perdere 3,2 miliardi circa, ovvero 0,2 punti di Pil, fermandosi ad una crescita prevista dello 0,1% per il 2020. Se poi l'epidemia non dovesse fermarsi in tempi rapidi, il conto crescerà esponenzialmente, e non linearmente, e parleremmo di una recessione vera e propria.

E' chiaro che ci troviamo in una emergenza che richiede scelte di politica economica e fiscale (prima ancora che monetaria, visto che le politiche molto accomodanti di Bce e Fed di questi anni hanno impattato poco sulla crescita globale) molto coraggiose e di rottura rispetto all'austerità attuale. Non è il momento di discettare di differenze fra spesa pubblica produttiva e non produttiva, di limitare la deducibilità degli investimenti pubblici dal deficit alle sole spese green (che peraltro hanno spesso impatti ritardati sulla crescita) né di continuare a ragionare in termini di output gap, con gli effetti prociclici che la sua applicazione al bilancio dello Stato implica.

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