Il lungo, e per certi versi
dimenticato, dibattito sulla questione meridionale si è intrecciato, negli
anni, in misura più o meno pretestuosa, con quello di una questione
settentrionale. Le due questioni hanno convissuto l’una con l’altra, in modo sostanzialmente
occulto negli anni del boom economico (nel senso che in quegli anni le esigenze
di sviluppo del Settentrione hanno largamente prevalso su quelle del Sud), per
poi esplodere quando, già dalla fine degli anni Novanta, la crescita economica
italiana è rallentata.
La questione settentrionale, una
volta esplosa, ha dimostrato elementi di problematicità diversi da quelli del
Mezzogiorno. Come afferma Castronovo, la questione settentrionale (cui si possono
assimilare numerose situazioni di aree ad elevata industrializzazione del
Centro Italia) si manifesta “ allorché, da un lato, si affievolì al Nord un
trend economico espansivo su scala territoriale globale e, dall'altro, la
classe politica locale cominciò a perdere quota in sede nazionale e non seppe
formulare proposte adeguate di sviluppo e modernizzazione (…) oggi è venuta
imponendosi alla ribalta una questione settentrionale che covava da tempo e che
è divenuta man mano più acuta. E ciò sia per l'incapacità culturale, da parte
della classe politica, di comprendere i mutamenti avvenuti nella fisionomia
sociale delle comunità locali; sia per il crescente malessere di tante imprese
costrette a competere nel mercato globale senza un adeguato retroterra di
strutture logistiche, di trasporti e comunicazioni, di nuove fonti energetiche,
di investimenti in capitale umano e in alta tecnologia”.
Di conseguenza, a differenza
della questione meridionale, che è legata alle inerzie tipiche del
sottosviluppo, quella settentrionale è legata ad una serie di freni posti sulla
strada di un ulteriore sviluppo, necessario per tenere il passo con le aree più
dinamiche del Centro e del Nord Europa. E’ la sensazione di “perdere terreno”
rispetto ai primi, fra i quali si è appartenuti, che crea una crisi di
identità.
Gran parte della questione
settentrionale e dei suoi erronei rimedi, come il federalismo asimmetrico, nascono
da questo problema, per così dire, di identità: la percezione, in larga parte
giustificata, di non essere più gli stessi, di non avere più la forza economica
e la competitività di un tempo, che costringe il Nord, un tempo orgogliosamente
(ed anche, per molti versi, egoisticamente) auto-percepentesi come “altro”
rispetto al Mezzogiorno, a specchiarsi in fenomeni di degrado tipici del
ritardo di sviluppo, fino ad allora confinati nei territori a sud del Tevere: diffusione
della criminalità organizzata di stampo mafioso, degrado abitativo ed urbano,
deindustrializzazione di grandi complessi produttivi, disoccupazione intellettuale,
fuga di cervelli.
La crisi, prima ancora che
produttiva, diventa culturale, identitaria: perso il modello che ha consentito
anni di crescita e benessere, molte aree del Nord vagano fra ribellismo
rabbioso e cieco, angoscia da insicurezza, difficoltà a gestire una povertà dalla
quale si credeva di essere usciti. E, come tutte le crisi culturali e di
identità, si accompagna a fenomeni di devianza sociale, che sono gli
amplificatori di una difficoltà a restituire senso al proprio modello di vita
da parte di intere comunità improvvisamente impoverite.
A puro titolo di esempio, nel
grafico riportato in fondo al presente articolo, per alcuni indicatori socio-economici di fonte Istat,
ho calcolato la distanza assoluta fra i valori riferiti ad una città del Centro
Nord un tempo fiorente, poi connotata da una lunga fase di declino industriale,
urbano ed occupazionale, come Livorno, e i valori riferiti al Mezzogiorno,
rispetto all’ultimo dato disponibile (“dato recente”) ed allo stesso indicatore
preso nel valore di dieci anni prima (“baseline”). Come è possibile vedere, Livorno
non si è affatto avvicinata al Mezzogiorno, negli ultimi dieci anni, rispetto
alle variabili legate alla competitività economica e produttiva: rispetto agli
indici di internazionalizzazione, infrastrutturazione, qualità del capitale
umano, innovazione e di tenore di vita medio la distanza favorevole a Livorno
rispetto al Mezzogiorno si è, in genere, ampliata.
Di converso, Livorno si è avvicinata
ai dati medi del Mezzogiorno rispetto ad indicatori tipici della devianza
sociale, ad esempio in quelli criminali:
il tasso totale di delittuosità e l’indice di microcriminalità urbana (quest’ultimo
più legato a fenomeni di disagio sociale metropolitano e di disgregazione dell’identità
socio-lavorativa personale che si esprimono in piccoli reati individuali e non
organizzati) hanno valori che assimilano sempre più Livorno ad aree urbane tipicamente meridionali. Inoltre, vale la
pena di evidenziare come il tasso di suicidi diviene, negli anni, più alto a
Livorno che non nella media meridionale.
Si tratta di fenomeni di devianza
legati allo sbriciolamento di un modello in cui una comunità si riconosceva in
passato, senza un modello alternativo. Significativo è anche che un indice di
sperequazione distributiva dei redditi, come la percentuale di detentori di un
reddito imponibile inferiore ai 10.000 euro annui, tenda ad avvicinarsi al dato
meridionale: l’aumento delle sperequazioni distributive è la strada maestra per
generare un incremento di segmenti sociali collocati fuori dal perimetro dell’inclusione
sociale, condotti quindi a non riconoscere più il modello che precedentemente
li tutelava ed a cadere in fenomeni di devianza da de-identificazione. L’impoverimento
diseguale, che colpisce in misura più netta i segmenti sociali più fragili, si
traduce in crisi di identità e di appartenenza, e tali crisi generano devianza
sociale.
Il problema non è tanto e
meccanicisticamente riferibile ai dati di mercato del lavoro: in termini di
valori assoluti di occupati e disoccupati, il mercato del lavoro livornese non
ha subito tracolli tali da portarlo verso le condizioni destrutturate del
mercato del lavoro delle aree del Sud Italia: in un arco decennale, le distanze
con il Mezzogiorno in termini di tassi di disoccupazione e di occupazione
giovanile restano immutati, in termini di tasso di occupazione totale il
vantaggio di Livorno tende addirittura a crescere.
Il problema è nella “meridionalizzazione”
dei sistemi pubblici di redistribuzione, ed in particolare del welfare, che insieme
all’abbassamento dei salari, contribuiscono ad ampliare le diseguaglianze distributive
pur in presenza di un incremento dei tassi di occupazione e delle occasioni di
lavoro. Come è possibile vedere, il vantaggio della provincia di Livorno rispetto
al Mezzogiorno, in termini di quota di Comuni che offrono servizi
socio-assistenziali contro la povertà, il disagio ed a vantaggio dei senza
tetto, tende a dimezzarsi in pochi anni. La crisi abitativa, conseguente al
declino delle politiche di edilizia popolare, continua a conservare per Livorno
un inquietante svantaggio rispetto al Sud.
Concludendo: il cuore della
questione settentrionale è il frutto di una crisi di identità legata all’esaurimento
di un modello che offriva benessere ed inclusione. Tale sperequazione produce una
difficoltà a ricostruire un modello collettivo in cui rispecchiarsi, che
meridionalizza le aree di crisi del Centro Nord in termini di devianza sociale
ed individuale. Un vecchio modello muore sotto i colpi della globalizzazione,
dell’austerità, dell’assenza di progettualità, e non ce n’è uno nuovo dentro il
quale sentirsi cittadini inclusi.
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