giovedì 4 giugno 2020

Le lezioni per l'Italia della crisi argentina

La crisi argentina può insegnare diverse cose anche a noi italiani in questa fase storica. Nel 2001, in corrispondenza con un elemento congiunturale che fa da propellente (la rivalutazione del dollaro e la svalutazione del real brasiliano) l'Argentina entra in una pesantissima crisi. 
LA DISCESA ALL’INFERNO
Viene al pettine il nodo della c.d. "ley de convertibilidad", voluta dall'allora Ministro dell'Economia del governo Menem, Cavallo, che fissa un tasso di cambio rigido di 1 a 1 fra peso e dollaro. L'Argentina non fa parte, come noi, di un'area valutaria comune, ma la rigidità del tasso di cambio con il dollaro sortisce alcuni effetti tipici della partecipazione, in funzione subordinata, ad un'area valutaria comune. In particolare, pone dei vincoli rigidissimi alla politica monetaria e fiscale, di fatto "espropriando" il governo argentino dalla gestione delle leve di politica economia, esattamente come l'euro ci espropria. Nel caso argentino, quando il dollaro rivaluta, occorre fare una politica fiscale restrittiva e deflazionistica, per scoraggiare le importazioni, oltre che una politica monetaria di contrazione della massa monetaria in circolazione, di aumento dei tassi di interesse e di vendita delle riserve valutarie in dollari della Banca centrale per difendere il cambio del peso. Anche nel nostro caso, l'appartenenza all'euro impone politiche di bilancio restrittive mirate a convergere verso i parametri di finanza pubblica del Paese leader, al fine di evitare tensioni inflazionistiche asimmetriche o crisi di fiducia dei mercati nella sostenibilità dell'euro che, in fasi di crisi come quella attuale, costringono i leader a indesiderati bailout dei Paesi più fragili finanziariamente. Esattamente come il governo argentino del tempo, ci troviamo intrappolati in un "chicken game" in cui dobbiamo andare di un millimetro più in là, in direzione di una austerità distruttiva, rispetto alla Germania. Ad aumentare la somiglianza con la nostra situazione di dipendenza da una valuta estera, di fatto l'economia argentina del tempo è "dollarizzata": il grosso delle transazioni commerciali si fa in dollari, non in pesos. 
 Risparmiatori in attesa di prelevare con il corralito
A crisi conclamata, i fragilissimi governi peronisti di transizione (Duhalde, poi Rodriguez Saa e di nuovo Duhalde) fanno alcune cose: sequestrano il risparmio privato bancario tramite i corralitos, per evitare il tracollo delle banche di fronte alla corsa a svuotare i conti correnti, varano una moneta a circolazione interna (il patacon) per mantenere liquida l'economia, ma non si tocca il vincolo esterno, ovvero il cambio rigido 1 a 1 con il dollaro. La risposta dell’economia è disastrosa: per impossibilità di riaggiustare il cambio in maniera realistica e per sfiducia crescente dei mercati, che disinvestono sfruttando la possibilità ancora aperta di far defluire i capitali dal Paese, nel solo anno 2002, il Pil crolla dell’11%, tornando sui livelli del 1992, registrati dieci anni prima. Il tutto mentre l’inflazione, lungi dal calare, accelera disastrosamente. 
Un patacon
 
A quel punto, in una situazione oramai drammatica, Duhalde, assistito dal nuovo Ministro dell’Economia Lavagna, fa due cose: abolisce la legge di convertibilità, lasciando che il peso si svaluti liberamente, dichiara il default sovrano su circa il 70% del debito pubblico e vara una durissima legge di ri-pesificazione dell’economia: l’uso del dollaro viene proibito, i depositi bancari in dollari vengono forzosamente ridenominati in pesos, le inefficaci valute parallele come il patacon abolite. In pratica, con tali manovre il Paese riconquista la piena sovranità monetaria ed economica, al doloroso prezzo di un enorme prelievo di risparmio privato, destinato a ripagare il debito pubblico: con la ripesificazione che si accompagna alla svalutazione del 70% del peso rispetto al dollaro, circa un terzo del valore nominale dei depositi bancari viene spazzato via, case, terreni, esercizi commerciali e capannoni industriali vengono venduti per un tozzo di pane, la classe media argentina viene risucchiata nel gorgo della crisi. 
LA RINASCITA
Sembra la catastrofe, ed invece è l’inizio della risalita verso la luce. L’eliminazione del vincolo esterno con il ripristino della piena sovranità monetaria apre strade fino a quel momento impensabili. Nel successivo ciclo politico, il neo presidente Nestor Kirchner ha l’intelligenza di confermare il Ministro Lavagna. Un Paese in default ma indipendente inizia a nazionalizzare le aziende strategiche nazionali, anni prima privatizzate da Menem e finite in rovina. Nel 2005, viene rinegoziato il debito estero, con il 76% della sua quota capitale che viene sottoposto ad un haircut del 25-35% ed un prolungamento delle scadenze. Con le riserve della Banca centrale, nel 2006 viene liquidato il debito con il Fmi, che aveva un forte potere di condizionamento politico. Vengono posti rigidi paletti all’uscita di capitali. Con la riguadagnata libertà geopolitica, il Paese negozia con la Cina un vantaggioso accordo commerciale di fornitura pluriennale di soia transgenica, che riporta in attivo la sua bilancia commerciale. Vengono investite gigantesche somme in programmi di contrasto alla povertà, di potenziamento dell’educazione e della ricerca. La crescita torna su ritmi dell’8% medio annuo. Il debito pubblico scende al 50% del Pil nonostante un massiccio aumento della spesa pubblica. Nel 2008, la Banca Mondiale classifica l’Argentina, per la prima volta, fra i Paesi ad alto reddito pro capite. 
Certo, poi con la successiva presidenza di Cristina Fernandez tali progressi sono stati in parte compromessi, in parte per l’ostilità della grande finanza internazionale supportata dagli USA e dalla borghesia reazionaria interna, ma anche e soprattutto per errori evitabili: la rotta delle principali aziende nazionalizzate dovuta ai criteri di nomina nepotistici dei vertici, la dilagante corruzione della cerchia interna alla presidenta, insieme a pulsioni autoritarie ed eversive, che ha alienato i favori popolari ed ha messo il Paese in mano ad incapaci, il furore ideologico che ha portato ad un vicolo cieco (ad un certo momento, con i creditori internazionali andava fatto un negoziato più flessibile, il che avrebbe permesso di allentare i vincoli alla fuoriuscita dei capitali ed i controlli valutari forsennati, che si erano tradotti in un crollo delle importazioni di beni di primaria necessità, non prodotti internamente, la svalutazione del peso andava in qualche modo contenuta entro limiti ragionevoli, impedendo di importare nuova inflazione). Ma il peso principale del nuovo default è, tuttavia, sulle spalle di Macrì, che con il ripristino di politiche neoliberiste ha riportato il Paese agli anni bui. 
LEZIONI UTILI ALL’ITALIA
In conclusione, quali lezioni possiamo imparare da questa storia, utili per l’Italia? Secondo me le seguenti:
a) le valute parallele, a circolazione interna, fiscali o altro, servono a ben poco se si è in costanza di un vincolo esterno, nemmeno in una situazione, come quella argentina, di carenza effettiva di liquidità, figuriamoci per una situazione in cui la liquidità è potenzialmente enorme, come quella italiana. E’ il vincolo esterno a guidare le politiche economiche, non la valuta parallela. Se poi il vincolo esterno viene rimosso, con ritorno ad una politica monetaria sovrana, allora la valuta parallela diviene ancor più inutile. Nell’insieme, è un trucco inutile;
b) il risparmio non è del tutto una variabile neutrale, di risulta rispetto agli investimenti (come pensa la teoria classica). Se si va in default, esso viene, in qualche modo, ciucciato via, anche solo per via della susseguente svalutazione della moneta, in caso di moneta sovrana, oppure viene usato per pagare un pezzo del conto del debito pubblico, come nel caso greco. Di conseguenza, nel pre-default il risparmio può essere utilizzato per varie finalità che alleviano il default (o, nel caso dell’ingente risparmio italiano, potrebbero anche evitare il default): nel caso argentino, è stato usato, sostanzialmente, per salvare le banche dal crollo e poi usato come garanzia per facilitare il ritorno sul mercato del debito e pagarne una quota (il debito con il Fmi è stato pagato con le riserve in dollari della Banca centrale, a loro volta prelevate dai risparmi). Prima di farselo puppare via dal default, è utile utilizzarlo per ammortizzare la caduta;
c) non esistono pasti gratis. La rimozione del vincolo esterno, per un certo periodo, fa tanto ma tanto male. Fa cadere il saggio di investimento, produce fuga di capitali solo parzialmente frenabile con i controlli amministrativi (che, peraltro, se troppo stringenti portano ad una forma di autarchia decrescista, come avvenuto con la Fernandez), genera una recessione profonda, anche se temporanea. Per questo, è molto meglio rimuovere tale vincolo in una situazione di crescita, non certo farlo quando si è già in recessione, ampliandone l’effetto;
d) non esistono pasti gratis seconda puntata. Non si può, così, ripudiare il debito estero ad mentula canis, senza essere vittime di ritorsioni atroci. Il ripudio inevitabile del debito in una prima fase va poi ammorbidito nella fase successiva, possibilmente cercando di passare per accordi con istituzioni internazionali, come il club di Parigi, che in cambio di una qualche condizionalità sull’economia interna, garantiscono il percorso di ristrutturazione senza vendette sanguinose da parte dei mercati. Il furore ideologico non serve. Serve presentarsi al tavolo del negoziato per la ristrutturazione del debito forti della rimozione del vincolo esterno e del ritorno alla crescita economica, per guadagnare punti nel negoziato;
e) senza uscita dal vincolo esterno nulla salus. Il vincolo esterno, e non scempiaggini sulla produttività totale dei fattori o le riforme strutturali, è l’unico responsabile della mancata crescita. Persino una economia sgarrupata come quella argentina ha rivisto prospettive di crescita, insieme ad un miglioramento dell’equità sociale, nel momento in cui è uscita dal vincolo esterno. Figuriamoci cosa potremmo fare noi italiani;
f) la legge aurea della riduzione del debito non è l’avanzo primario o lo spread: è la crescita. E questa, come detto sopra, dipende dall’assenza di vincoli esterni;
g) i controlli dei flussi di capitale servono per un periodo limitato, legato soltanto alla fase più acuta della crisi. Prolungarli produce un incremento del costo del capitale tale da scoraggiare gli investimenti. Come si vede dal grafico sottoriportato, che illustra il differenziale fra il costo di un bond in dollari al NYSE (celeste chiaro) ed il costo del medesimo bond nella Borsa di Buenos Aires (blu scuro), tale costo è favorevole all'Argentina solo in una fase iniziale, grazie ai controlli sui capitali, che producono un costo extra di disintermediazione dal Paese che effettua i controlli ma, a lungo andare, la situazione si rovescia. 
Prezzo di una obbligazione in dollari al NYSE (celeste chiaro) e della medesima obbligazione alla Borsa di Buenos Aires (blu scuro)

Fonte: Kiguel e Levy Yeyati (2009)

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