La crisi del Covid, con la pesante recessione che ha colpito tutto il mondo (Cina esclusa) insieme alle rilevanti politiche anticicliche messe in campo dai vari governi, ha scavato più in profondità in una tendenza di lungo periodo in direzione di un aggravamento della posizione debitoria, pubblica e privata, delle economie nazionali. In base alle stime dell’Istituto di Finanza Mondiale, il debito complessivo ha raggiunto, nel 2019, alla vigilia della pandemia, il 322% del Pil mondiale, con una proiezione al 342% per il 2020.
Fra 2007 e la stima al 2021-2022 derivante dagli effetti della pandemia, tutte le componenti di debito risulteranno cresciute, con una marcata tendenza all’accelerazione di quello privato nei Paesi emergenti (circa 50 punti di Pil in più) e di quello pubblico nelle economie mature (40 punti di Pil aggiuntivi, con un record di crescita in Paesi come la Spagna, la Grecia, la Gran Bretagna, il Giappone ed il Portogallo, ma anche l’Italia e gli USA). L’area-euro, nel suo insieme, associa un incremento del peso del debito pubblico in linea con quella delle economie mature ad un incremento di quello privato di poco meno di 20 punti di Pil aggiuntivo. La Cina alimenta la sua crescita straordinaria con un incremento molto rilevante del debito privato, finanziato anche dal sistema dello shadow banking.
Soltanto pochissimi Paesi, come Israele, l’Ungheria, l’India e la solita Germania riescono a mantenere un accettabile equilibrio nelle dinamiche di crescita del debito totale.
Variazioni nel rapporto fra debito e Pil con riferimento al debito pubblico (asse verticale) ed a quello privato (orizzontale)
Fonte: IIF
Gli ingredienti sul piatto sono apparecchiati per favorire una nuova crisi finanziaria globale. Potrebbe partire dai Paesi in via di sviluppo, alle prese con livelli di debito esterno molto alti ed un enorme indebitamento privato. Nei giorni scorsi, il Fmi e la Banca Mondiale hanno deciso di prorogare fino a giugno 2021 la moratoria dei pagamenti dei debiti dei Paesi più poveri, una moratoria, però, che non include il pagamento degli interessi e che, soprattutto, viene sabotata dai finanziatori privati, oramai sempre più rilevanti nella composizione del debito di tali Paesi.
Nonostante un fabbisogno di finanziamento per i Paesi emergenti stimato in circa 2.500 miliardi di dollari, a causa delle resistenze messe in atto dall’Amministrazione statunitense, il Fmi non ha potuto utilizzare l’emissione di nuovi DSP e prestiti per più di 90 miliardi. I finanziatori privati dei Paesi beneficiari della moratoria sul debito hanno ufficialmente rifiutato di partecipare all’iniziativa, provocando, come conseguenza, il rifiuto di partecipare persino di alcuni dei Paesi potenzialmente beneficiari, spaventati dall’idea di non poter più accedere ai mercati finanziari privati.
Una serie di fallimenti a catena di Paesi emergenti, con quello argentino, già in atto, che potrebbe aprirne la strada, oltre che produrre effetti sociali disastrosi su tali Paesi, avrebbe ripercussioni globali sui mercati finanziari, sotto forma di andamento erratico dei tassi di interesse, difficoltà o fallimenti di rilevanti investitori privati, crisi bancarie, con le ovvie conseguenze sulla liquidità globale, che è in larga misura prodotta dalle banche.
Se non attraverso i fallimenti sovrani dei Paesi emergenti, la crisi potrebbe assumere i contorni di un crack dei mercati finanziari. Secondo l’Ocse, a partire dal 2008 le società non finanziarie globali hanno emesso 1.800 miliardi di obbligazioni ogni anno, ad un ritmo doppio rispetto a quello degli anni che hanno preceduto la grande depressione del 2008. Nella prima metà del 2020, la crescita ha toccato il livello record di 2.000 miliardi, probabilmente come effetto del tentativo di procurarsi liquidità a fronte del calo delle vendite legato alla crisi pandemica. Secondo l’Unctad, il settore privato non finanziario ha raggiunto un indebitamento globale pari a 75.000 miliardi, in crescita dai 45.000 del 2008.
La qualità di tale debito è, purtroppo, problematica: si stima che appena il 30% di esso abbia un rating pari ad “A”. Come nel 2008, l’anello debole sembra essere il mercato obbligazionario statunitense: sfruttando il Qe ed una serie di incentivi fiscali, le grandi corporation statunitensi utilizzano la tecnica del riacquisto di azioni, essenzialmente, al fine di aumentare il reddito dei manager, aumentando di conseguenza l’indebitamento aziendale necessario per tali operazioni. D’altro canto, il lungo periodo di tassi di interesse molto bassi ha favorito un crescente indebitamento delle famiglie, che la crisi del mercato del lavoro legata al Covid rischia di rendere irredimibile.
D’altra parte, il debito delle società finanziarie delle economie emergenti, cresciuto da 380 miliardi nel 2007 a 3.200 miliardi nel 2017, e rappresentato, per due terzi, dalla Cina, rischia di innescare, se accompagnato da significative svalutazioni dei tassi di cambio rispetto all’euro, fallimenti aziendali e bancari a catena, con effetti globali, simili a quelli della crisi asiatica del 1997-98. Lo shadow banking cinese, pratica molto diffusa in tale Paese e di fatto non soggetta a vigilanza prudenziale, alimenta un mercato di circa 8.000 miliardi di dollari, secondo stime riportate dal Financial Times. Lo stesso quotidiano afferma che detta pratica sostiene circa il 40% del valore dei prestiti erogati nel mercato interno cinese. Tale sistema produce costantemente fattori di instabilità: dalla pratica del cosiddetto “peer to peer” lending, in cui le shadow bank operavano da intermediari di prestiti fra privati, favorendo l’accesso al credito di soggetti non bancabili e vere e proprie truffe, con le piattaforme on line di intermediazione che scomparivano con i soldi degli sprovveduti che vi avevano fatto ricorso, alla pratica di investire in obbligazioni emesse dai Governi regionali e municipali, che diventano così ostaggi di clausole-capestro. Senza contare la propensione degli stessi governi provinciali a dotarsi di società finanziarie pubbliche che operano anche off-shore, su investimenti molto rischiosi che potrebbero compromettere la tenuta dei bilanci pubblici.
Di fronte a tale situazione, servirebbe un nuovo sistema monetario e creditizio regolato su scala globale, una specie di nuova Bretton Woods, che redistribuisca il debito in modo da evitare default asimmetrici, che regoli la liquidità in funzione delle esigenze dell’economia reale e che regolamenti i mercati finanziari per rimetterli al servizio della produzione e dei consumi, e non di una lotteria autoreferenziale. Sapendo che oramai dovremo coabitare per sempre con livelli di debito diffusi su scala globale e sostanzialmente irredimibili, perché in uno scenario globale di deflazione l’idea di tornare alla cara e vecchia austerità è semplicemente assurda.
Siamo entrati, peraltro già da almeno un ventennio, nell’era dell’economia del debito, che per sua natura, man mano che si espande, diventa sempre più incompatibile con il funzionamento di mercati privati liberalizzati che abbiamo conosciuto sinora. In questa era, le vecchie certezze liberiste, basate sul controllo dei saldi di bilancio, benché ancora tenacemente seguite dall’ortodossia economica, sempre più senso e diverranno strumenti inutili. conviveremo con debiti, pubblici e privati, molto elevati, non rimborsabili o riducibili significativamente ma controllabili, in termini di potenziali effetti negativi, soltanto con il ritorno ad una crescita economica sostanziale ed attenta alle compatibilità ambientali, che lo sviluppo industriale ad alto impatto sull'ecosistema non è più sostenibile.
D'altro canto, o si troverà un meccanismo di regolazione pubblica dei mercati finanziari a livello nazionale e globale, oppure, fra crisi economiche, epidemie (e gli esperti ci dicono che il Covid non sarà l’ultima, stante il livello di degrado dell’ambiente) e crisi ambientali torneremo all’età della pietra.
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