Cercherò di mettere in fila le analisi del voto statunitense in larga misura già fatte, tentando di supportarle con i dati e, spero, con sufficiente sintesi. Iniziamo dalla partecipazione al voto, straordinariamente elevata, tanto che Biden risulta essere il recordman dei voti presi, ed il soccombente Trump, pur perdendo, ha preso otto milioni di voti in più rispetto alla sua vittoria del 2016 (questo elemento, tra l’altro, contribuisce a rendere fragile la narrazione trumpiana del “broglio elettorale”).
Sicuramente nell’altissima partecipazione ha influito il grande allargamento della possibilità di voto per posta e del voto anticipato per persona (possibile anche di sabato) scelto come misura di profilassi anticovid. Almeno sei Stati - tra cui Texas, Colorado, Washington, Oregon, Hawaii e Montana - hanno registrato più voti nelle votazioni anticipate e per posta rispetto al totale del voto espresso nelle elezioni del 2016. Altri, tra cui Florida, Georgia e North Carolina, si sono avvicinati al totale del 2016. Va rilevato infatti che molti osservatori attribuiscono il tradizionalmente basso indice di partecipazione al voto a fattori piuttosto banali, come ad esempio il fatto che si voti in un giorno feriale come il martedì, per cui molti elettori, specie i più poveri e precari che lavorano ad ora o a giornata, non possono permettersi di fare la fila ai seggi, perdendo il giorno di lavoro.
Fila ai seggi elettorali USA
E’ meno probabile, invece, che l’altissima partecipazione sia stata stimolata da alcuni dei temi programmatici sui quali i democratici puntavano per riprendersi la Casa Bianca, in una campagna elettorale fatta di insulti e di pochissimi spunti programmatici. Detto onestamente, la vittoria di Biden non può essere considerata “di misura”. Questa illusione ottica proviene dalle prime ore dello spoglio, nelle quali gli Stati più rapidi nel determinare la vittoria (o perché poco popolati, come nel caso del Mid West, o perché largamente dominati da uno dei due contendenti) sembravano dare una maggioranza a Trump. In realtà, a spoglio concluso, dobbiamo evidenziare che Biden, con le più che probabili vittorie in Arizona ed in Georgia, arriverà a 306 grandi elettori, ben 36 in più del minimo necessario per vincere, un margine leggermente superiore a quello che Trump conquistò nel 2016, portando a casa 26 Stati ed un vantaggio sull’avversario, nel voto popolare totale, di oltre 4 milioni di suffragi.
Risultati elettorali nel 2016 (sopra) e nel 2020 (sotto)
Evidentemente, la pessima
gestione dell’epidemia di Covid da parte di Trump, imperniata sull’egoismo
sociale di chi non voleva chiudere il business e ricoperta da una patina
demagogica che ha fatto largo uso di ogni pessimo stereotipo negazionista, una
strategia pagata soprattutto dagli strati popolari che hanno maggiori
difficoltà di accesso alla sanità, ha pesato in modo rilevante sui risultati
finali. Basti pensare che il rapporto fra contagiati e popolazione (287 ogni 10.000 abitanti) è quasi il doppio del dato italiano (149 ogni 10.000) ed anche il rapporto fra morti e popolazione (7,5 ogni 10.000) è peggiore di quello italiano (6,8) e la curva è ancora stabilmente nel braccio esponenziale. Questa catastrofe, affrontata in modo troppo leggero, ha sicuramente pesato sul voto finale.
Tuttavia, questa vittoria non è minimamente nelle proporzioni immaginate dalla retorica del “landslide” con cui i Democratici pensavano di poter trionfare, sondaggi alla mano (ed i sondaggi rivelano nuovamente la loro fragilità predittiva). Evidentemente, l’ipotizzato fattore di coinvolgimento che il movimento “Black Life Matters” si è rivelato, tutt’al più, un elemento di consolidamento del perimetro del voto già orientato verso i Dem, incentivando i simpatizzanti di quel partito ad andare a votare, senza attrarre voti aggiuntivi dal perimetro esterno di quell’area politica. E questo perché, fondamentalmente, l’obiettivo di quel movimento è un obiettivo falso. Come anche cercavo di spiegare in un altro articolo (https://www.blogger.com/blog/post/edit/7596973223154772791/2987783415820434843 ) l’oggetto reale delle violenze poliziesche, al netto forse di qualche sceriffo di contea di qualche Stato del Dixieland o di qualche suprematista che si è arruolato in polizia, non è primariamente razziale, è soprattutto di classe: i corpi di polizia degli USA sono violenti soprattutto con i poveri e gli emarginati, siano essi neri, bianchi, rossi o verdi. Poliziotti neri randellano come tonni arrestati neri come se niente fosse. Questo per vari motivi, alcuni dei quali molto prosaici: se sei povero ed emarginato, non potrai permetterti un avvocato che ti difenda dalle violenze poliziesche. Altre sono ideologiche: nella patria del protestantesimo più ortodosso, se sei povero ed emarginato hai meno diritti di chi è ricco e famoso, non sei eletto dal Signore, sei cattivo, meriti il randello ed il taser. Che poi la stragrande maggioranza delle vittime di violenze poliziesche sia afroamericana dipende essenzialmente dal fatto che i poveri e gli emarginati sono afroamericani in una percentuale spropositata di casi, e che, come evidenzia la ben nota teoria del “labelling”, se sei un membro di una minoranza etnica verrai considerato, agli occhi del poliziotto che ti ferma per un controllo, potenzialmente più pericoloso di un bianco con cravatta e valigetta 24 ore.
Evidentemente, queste considerazioni sono note anche alla piccola (ed, in misura crescente, anche medio/alta) borghesia afroamericana e latina che, di fronte a richieste irragionevoli di definanziamento dei corpi di polizia portate avanti dai Black Life Matters, in contesti urbani dove la criminalità è endemica, alla fine darà poco credito a presunte suggestioni “razziste” e voterà per il GOP. Guardiamo i dati di una inchiesta di tipo “nowcast” effettuata da AP Votecast[1]. Tale indagine, piuttosto affidabile, ci dice che l’8% dell’elettorato afroamericano, una quota più o meno coincidente con la parte di afroamericani che sono ascesi a condizioni sociali borghesi, ha votato per Trump. Tale percentuale sale al 35% per i latinos, per effetto del voto di comunità, come quella cubana della Florida o quella portoricana, quest'ultima spesso radicata nel piccolo commercio o nei servizi alla persona, tendenzialmente vicine ai Repubblicani, che controbilanciano il voto dei chicanos, chiaramente incazzati per i discorsi sul muro lungo il Rio Bravo.
Rimangono però dei fatti
difficilmente contestabili. Che l’altro 80% degli elettori afroamericani, sempre
secondo la rilevazione AP votecast, ha votato per Biden. Che il 53% di chi
guadagna meno di 50.000 dollari all’anno ha votato per Biden. E questo spiega
perché il voto operaio in Stati cruciali della Rust Belt che nel 2016 avevano
determinato la vittoria di Trump, come Pennsylvania, Wisconsin e Michigan, lo
stesso Michigan che, prima dell’arrivo di Trump, ha vissuto il drammatico
default della città di Detroit, che l’ha trasformata in un enorme ghetto
distopico, è passato a Biden. Cfr. il link seguente per le tabelle complete: https://www.npr.org/2020/11/03/929478378/understanding-the-2020-electorate-ap-votecast-survey?t=1604737387776
Il motivo è che Trump ha fondamentalmente deluso le aspettative di riscossa della manifattura statunitense in declino. La crescita occupazionale sotto Trump si è concentrata negli Stati dell’Ovest, che in alcuni casi sono la nuova frontiera dell’industria hi-tech, generando quindi posti di lavoro ad alto livello di competenze digitali e creatività tendenzialmente filodemocratici ed in alcuni Stati del Sud (Texas, Florida, Alabama) che da sempre sono fortini repubblicani. Gli Stati della Rust Belt hanno continuato a restare indietro: mentre la crescita occupazionale nel Texas ed in California ha superato il 6%, nel Michigan, Wisconsin ed Ohio essa è stata del 2%, meno della metà della media nazionale del 4,5%.
Andamento della creazione di lavoro durante il mandato di Trump
Fonte: QCEW-Reuters
Inoltre, e ciò è anche più determinante, i 4 anni di Trump non hanno riequilibrato a livello territoriale le diseguaglianze del territorio, peggiorando le distanze a carico dell’area della Rust Belt. In base all’indice “distressed communities index”, elaborato da AIG in base ad una sintesi di indicatori di povertà, disagio sociale ed educativo, mercato del lavoro e valori immobiliari, il nucleo del crescente disagio è proprio concentrato negli Stati centrali della Rust Belt, oltre che nel Mid West e nel nord est dove i Democratici fanno man bassa.
Variazioni del distress index fra 2000 e 2018
Fonte: AIG
Evidentemente il fallimento di certe promesse di rilancio si paga. Chi, anche da noi, si è illuso che Trump potesse, da destra, riequilibrare le grandi diseguaglianze sociali del Paese dovrà necessariamente ricredersi. Trump ha rappresentato soltanto una diversa versione, più becera ed urlata, del liberismo delle classi dirigenti degli USA, acquisendo un temporaneo consenso fra i ceti sociali più fragili solo in virtù della demagogia.
Resta da capire cosa farà Biden della sua vittoria. Credo molto poco. Il Senato è restato solidamente in mani Repubblicane, il che, almeno nei primi due anni, creerà problemi soprattutto in politica interna e nella politica economica (meno in politica estera, dove il Presidente può sfruttare gli Executive Agreement per bypassare il Congresso), anche se Biden potrebbe usare la sua esperienza e le sue relazioni con i senatori per cercare di ovviare alla sua posizione di minoranza, soprattutto ora che segmenti non piccoli del Partito Repubblicano avranno il problema di sbarazzarsi dei residui del trumpismo. Ma sono soprattutto l’età ed il carattere poco propenso all’avventurismo di Biden a far pensare che ben poco verrà fatto in termini attivi, mentre il grosso del lavoro sarà concentrato sullo smantellamento di quanto realizzato dal suo predecessore rispetto ai temi migratori, sulla difesa dei diritti civili e dell’Obamacare, nonché su un approccio radicalmente diverso all’epidemia di Covid, basato sul primato della salute pubblica rispetto al business. Le prospettate concessioni sindacali e il salario minimo, fatte per acquisire i voti di Sanders, difficilmente saranno realizzate.
In politica estera, dove il
nostro potrebbe avere maggiori margini di manovra, è probabile che l’asse dell’alleanza
in funzione antisciita (ed antipalestinese) messo in atto da Trump insieme al
suo compare Netanyhau e a qualche monarchia araba sarà parzialmente spostato in
direzione della riapertura di un dialogo, comunque necessariamente competitivo,
con l’Iran. E’ altresì probabile che la crescente tensione con la Cina verrà
affrontata con armi più sofisticate rispetto al protezionismo commerciale di
Trump (che non ha prodotto benefici per le imprese esportatrici USA, fortemente
legate ai Dem) cercando una via più politico/diplomatica di costruzione di un
fronte multilaterale di Stati ed agendo sui temi del rispetto dei diritti umani
e della democrazia. Il resto non cambierà di niente.Per noi europei, la prospettiva è quella di un rafforzamento dei meccanismi della Ue, peraltro mai seriamente sfidati da Trump.
E’ peraltro probabile che, fra due anni, Biden “abdicherà”, avendo raggiunto gli 80 anni, a favore della Harris, che sempre più appare ed agisce come il Presidente “in pectore”.
E’ così da sempre negli imperi: al loro cuore, tutto cambia affinché niente di sostanziale cambi.
[1] Tale indagine si basa su questionari sottoposti a campioni di elettori, i cui risultati vengono aggiustati mediante gli esiti di exit polls, combinando i due metodi di analisi su un campione numericamente consistente e statisticamente rappresentativo.
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