Molti si chiedono quali siano i veri obiettivi di Putin e cosa dovrebbe fare l'Occidente per rispondere. La risposta a tali domande va fatta partendo dall'esame della natura del regime
russo nella particolare fase storica in cui si trova il Paese.
Il putinismo è una forma, adattata al contesto russo ed alla modernità, di
fascismo, di cui condivide, oltre ovviamente all’assolutismo, tratti di
corporativismo (il principale sindacato russo, il Fnpr, è di fatto succube del
governo e legato al partito di potere, Russia Unita ed il ruolo principale di
Putin e dei siloviki della sua cerchia di potere è quello di mediare fra gli
interessi dei vari oligarchi, che rappresentano i centri del potere economico
del Paese, e fra questi e il mondo del lavoro) di nazionalismo aggressivo, di
tradizionalismo sociale e clericalismo, nonché la classica concezione in cui
gli apparati dello Stato sono sovraordinati rispetto agli interessi
individuali. Poi si differenzia dal fascismo tradizionale perché camuffa la
natura autocratica dello Stato dietro parvenze di democrazia multipartitica,
pluralismo ed un formale riconoscimento dei diritti civili e politici, tanto
che si è coniato, per definirlo, il termine “democratura”.
Come in ogni forma di fascismo, il regime russo si fonda su un rapporto mistico fra il leader
e la massa. Tale rapporto crea un consenso popolare attorno al leader,
rendendolo autonomo dal sistema di potere retrostante, ed è quindi fondamentale
per evitare che il Capo venga assorbito e distrutto dagli interessi economici
rapaci degli oligarchi e le brame di potere del Deep State dei siloviki. Il
rapporto mistico fra leader e massa richiede una narrazione, in grado di creare
catene equivalenziali fra significanti rimasti non soddisfatti, come direbbe
Laclau.
La narrazione putiniana è
fondamentalmente basata, oltre che sul tradizionalismo spirituale e sociale
slavo, supportato dal rapporto strettissimo con la Chiesa ortodossa, sul
nazionalismo militaristico. Lo stesso simbolo di Russia Unita riproduce un
orso, simbolo della Russia ma anche del suo imperialismo. In questo Putin
raccoglie le insoddisfazioni e le umiliazioni della Russia post sovietica,
ridotta all’impotenza militare, smembrata territorialmente, con le sue comunità
russofone disperse, e spesso minacciate di sparizione, nelle tante nuove
Repubbliche create dalla disintegrazione dell’Urss, impoverita dalle terapie
liberiste shock degli anni novanta.
Il nazionalismo militarista russo
ha padri e nonni, e una idea di fondo, che si chiama euroasiatismo. Tale
movimento intellettuale, nato a fine ottocento con Leont’ev e Trubeckoj,
enfatizza la natura prevalentemente asiatica della Russia, evidenziandone la tendenza all’autocrazia ed allo spiritualismo anti-positivista, generata da
radici che affondano nei popoli delle steppe e, da ultimo, nell’influenza del
dominio mongolo, nonché nella cultura bizantina. Lev Gubilev riprende questi
temi, elaborandoli ulteriormente, nella sua teoria dell’etnogenesi, una teoria
che non soltanto giustifica esplicitamente le aggressioni militari come frutto
della “passionarietà” delle etnie emergenti e giovani guidate da un capo
carismatico e non democratico, ma che rielabora l’origine della Russia come una
sorta di “super ethnos” nato dalla fusione di elementi slavi, turchi e mongoli.
Le idee di Gubilev confluiscono,
infine, nel neo-euroasiatismo, il cui esponente principale è un bizzarro nuovo
Rasputin, un filosofo molto, molto addentro i circoli di potere legati a Putin,
spesso utilizzato dai circoli militari russi per basare la propria dottrina
strategica, e le cui teorie lo stesso Putin spesso cita, ovvero Alexander
Dugin. Sebbene i rapporti fra Putin e Dugin siano a corrente alternata e non di
rado polemici, non vi è dubbio che il filosofo euroasiatico faccia parte della
cerchia di potere più interna del putinismo, dai suoi contributi all’Accademia
Militare di Mosca ai suoi editoriali su Izvestija, fino al suo supporto a Putin
nei momenti critici (supporto che lo ha condotto a definire malati di mente gli
oppositori politici del Presidente).
L’elaborazione teorica di Dugin è
profondamente ostile ai valori culturali dell’Occidente, tacciati
di materialismo, laicismo, progressismo ed individualismo e richiama la necessità
della formazione di un blocco euroasiatico in grado di contrastare il dominio
geopolitico e culturale statunitense. Tale blocco sarebbe basato sui valori
tradizionali di comunitarismo, spiritualismo, familismo, lealtà al leader
carismatico che conformano l’area storica dei popoli nomadi centroasiatici.
Più pragmaticamente, i confini
geografici di questa Nuova Russia, Novorossja, vengono indicati in modo molto
chiaro da Dugin: Ucraina, con priorità per la Crimea ed il Donbass (non a caso
le prime aree conquistate o rese indipendenti dall’intervento di Putin nel
2014), Bielorussia, con la quale è sul tavolo un progetto concreto di
unificazione nazionale, che presumibilmente diverrà operativo quando Lukashenko
riterrà di volersi ritirare, Georgia ed Armenia, Kazakhstan. Ad un dipresso,
tranne la Georgia e l’Ucraina (riluttanti a stringere i rapporti con la Russia
e quindi particolarmente “curate” da Putin in questi anni, la prima subendo la
secessione dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, la seconda con i fatti cui
assistiamo) si tratta dello stesso perimetro della Unione Economica Eurasiatica,
che comprende Russia, Bielorussia, Kazakhstan, Armenia e Kirghizistan.
Per avere una idea della possibile estensione dell'Eurasia immaginata dal nazionalismo russo
Se tale integrazione dovesse realizzarsi, Mosca tornerebbe ad un perimetro non lontano da quello della ex Urss, diventando il primo fornitore mondiale di gas naturale e petrolio, integrando le riserve kirghize e kazake (attualmente la Russia è il secondo produttore mondiale di gas naturale e petrolio dopo gli USA e l’Arabia Saudita), nonché di uranio (attualmente il primo produttore mondiale è il Kazakhstan, la Russia è sesta e l’Ucraina nona) e di grano. Non solo: ma come si vede dalla mappa degli oleodotti e gasdotti, il controllo del Caucaso tramite la Georgia e l’Armenia produrrebbe pressioni importanti sull’Azerbaijan, ventitreesimo produttore mondiale di petrolio e sul Turkmenistan, decimo produttore mondiale di gas naturale, costretti ad utilizzare, per le forniture all’Europa, oleodotti e gasdotti che passerebbero per il territorio della Nuova Russia, e quindi di allinearsi alle direttive energetiche di Mosca, rafforzandone la posizione di potere.
La rete di gasdotti ed oleodotti caucasica: il suo controllo totale da parte russa presuppone l'integrazione con Georgia ed Armenia
La proiezione marittima russa sul Mar Nero ed il Mar Caspio sarebbe di entità tale da annichilire le tentazioni neo ottomane della Turchia di Erdogan sui Paesi musulmani e di stirpe turca dell’ex spazio sovietico. Ad ovest, la Russia panslava tornerebbe ad essere il riferimento di tutto il mondo slavo, con ovvie ripercussioni sugli equilibri nei Balcani, determinati sino ad oggi dalla Nato. L’integrazione della Transnistria, che sembra essere la prosecuzione evidente dell’invasione in atto dell’Ucraina meridionale, porrebbe pressione sull’intera Europa sud orientale e carpatica, diventando la zona militare-cuscinetto fra fianco meridionale della Nato e Russia.
In definitiva, il progetto
euroasiatico, quand’anche non dovesse sfociare nell’annessione territoriale
diretta di Ucraina, Bielorussia, Armenia e Georgia, ma nella loro riduzione a
condizioni di protettorati della Russia (magari anche mutilati di parti di
territorio strategiche, come ad esempio la costa ucraina), forse più coerente
con le mutate condizioni storiche, proietterebbe la Nuova Russia direttamente
su un livello di capacità competitive pari a quelle degli USA, riducendo al
contempo in modo sensibile le ambizioni di potenza regionale della Turchia.
Trasformerebbe l’Unione Europea in un insieme di mendicanti di risorse
energetiche, in modo ancor più marcato di quanto non sia oggi. Perché la verità
è che la sbandierata Transizione Energetica, al netto dell’energia nucleare,
che però richiede l’uranio, su cui la Russia avrebbe comunque una posizione di
semi-monopolio mondiale integrando Kazakhstan ed Ucraina, non sarà in grado,
per i prossimi decenni, di sostituire in misura significativa l’energia da
fonti fossili: tali fonti costituiscono ancora l’80% del consumo energetico
mondiale, e secondo uno studio di fonte Ocse/Iea esse rappresenteranno ancora
il 76% dei consumi nel 2030[1].
La domanda delle domande è però
la seguente: possiamo noi occidentali fermare questo progetto eurasiatico di
stampo imperialistico, aiutando l’Ucraina di Zelensky ad impantanare l’esercito
federale russo in una guerra di logoramento di lungo periodo, attendendo che il
deterioramento dell’economia russa, favorito dalle pesanti sanzioni economiche,
induca una rivolta, da dentro e da fuori l’apparato di potere di Mosca, tale da
estromettere Putin e generare un “regime change” a noi favorevole? L’obiettivo
dichiarato degli Usa, della Gran Bretagna e dei guerrafondai nostrani alla
Letta è proprio questo.
Al momento in cui si scrive
questo articolo, la situazione militare russa sul terreno ucraino appare, in
effetti, piuttosto difficile: l’improvvisazione di intelligence e di
pianificazione strategica (costata la testa all’intero Stato Maggiore
dell’esercito ed all’ufficio 5 dell’Fsb, quello che si occupa dell’Ucraina), i
limiti della logistica, persino inaspettati ritardi tecnologici (in particolare
nella guerra elettronica) insieme alla resistenza più che tenace degli ucraini
stanno facendo progressivamente perdere ai russi la capacità di iniziativa
militare, generando perdite molto consistenti a fronte di avanzamenti
territoriali piuttosto limitati. Anche il refillment delle forze sul terreno
con nuovi effettivi appare problematico, sia perché rischia di aggravare il
pesante congestionamento logistico, sia perché dovrebbe affidarsi
essenzialmente a coscritti o a truppe di scarsa qualità e modesta capacità di
combattimento, atteso che i migliori reparti russi sono già presenti in Ucraina
ed hanno anche subito perdite significative (come i circa 800 Speznatz che
hanno cercato invano di presidiare l’aeroporto di Hostomel o i Marines più
volte respinti nei primi giorni della battaglia per Berdyansk e Mariupol). La
Russia è arrivata al punto di dover reclutare mercenari siriani o della Wagner
per sostituire le proprie perdite, non potendo contare sui propri coscritti.
L’uccisione di un numero significativo di ufficiali superiori esperti,
pressoché insostituibili per esperienza e capacità di comando, mostra le
carenze del sistema russo di comando e controllo, che costringe i generali a
seguire le truppe in prima linea. L’Aviazione è pressoché inutilizzabile nel
supporto tattico delle truppe a terra, perché vulnerabile ai sistemi antiaerei
di cui gli ucraini si sono dotati grazie alla Nato. I modernissimi razzi
anticarro portatili Javelot, anch’essi di costruzione Nato, mettono in luce le
carenze dei sistemi di corazzatura reattiva dei tank di Mosca.
Sul versante economico, il
downgrade a livello spazzatura del debito pubblico russo, l’impossibilità di
utilizzare gran parte delle risorse in valuta estera congelate in piazze
bancarie occidentali, la caduta libera della quotazione del rublo stanno
congiurando per un rapido default tecnico, che impedirebbe al governo russo di
utilizzare i mercati finanziari per sostenere il suo sforzo bellico, mentre
l’embargo sull’esportazione di prodotti primari (come i farmaci) o di
componenti ad alta tecnologia, se rispettato, dovrebbe mettere in crisi sia la
popolazione sia l’industria militare. La svalutazione del rublo insieme alla
prevedibile fiammata inflazionistica potrebbero produrre addirittura forme di
ritorno al mercato nero ed al baratto di stampo veterosovietico. Il risparmio
privato dovrebbe crollare rapidamente, contribuendo ad un ulteriore
impoverimento del Paese. L’abbandono di molte grandi aziende occidentali
genererà un incremento importante della disoccupazione.
Ma tutto questo servirà a fermare
il progetto russo? Quand’anche Putin fosse defenestrato e, come appare sempre
più possibile, l’offensiva militare in Ucraina impantanata, il progetto
eurasiatico russo non potrà che continuare, con nuovi uomini e nuovi strumenti.
Perché non è altro che il destino stesso di quel Paese. Per molti versi la
Russia è condannata ad inseguire quel progetto. Perché una volta liberatasi da
Putin e dal putinismo rimarrebbe sotto il controllo degli oligarchi (magari
newcomers che pasteggeranno sulla rovina dei precedenti) e degli apparati di
sicurezza e militari, che comandano il Paese sin dai tempi dell’Urss, e che
sono transitati pressoché intatti nella nuova Russia postcomunista. Perché non
esiste una borghesia nazionale in grado di sostituirsi agli oligarchi: la
Russia non ha conosciuto la rivoluzione industriale occidentale, essendosi
industrializzata nella fase dello stalinismo; non ha interiorizzato gli ideali
di razionalità e positivismo dell’Illuminismo, finiti nei sottosuoli
spiritualistici di Dostoevskij. Perché il cuore profondo della Russia interna e
rurale non ha sperimentato la modernità se non tramite il socialismo,
conservandone però un ricordo controverso perché le ha rubato le terre per
collettivizzarle ed ha bruciato le icone religiose. Questa Russia profonda,
fatta di contadini, è ancora culturalmente vicina alle condizioni del tardo
zarismo, avversa la modernità e, insieme ad una classe operaia fatta in primis
da minatori, tende a credere nella terra come elemento fondamentale su cui
ruota la vita. Perché una economia mineraria ed agricola ha bisogno di terra,
di spazi fisici, per poter crescere, non di asset finanziari e reti virtuali,
come i post-capitalismi smaterializzati dell’Occidente. E gli spazi fisici, la
terra, si conquistano ancora oggi con le guerre, come facevano gli antichi
popoli di nomadi e guerrieri delle steppe. Perché un’altra Russia profonda,
fatta di pensionati dei grandi dormitori urbani di epoca sovietica e di chi al
socialismo ha creduto o ne è stato protetto, non accetta di essere compressa
entro confini che non riconosce: quando Putin dice che Ucraina e Bielorussia
sono fatte della stessa carne e sangue della Russia, sa di trovare orecchie che
approvano. Sa di essersi impoverita per colpa delle sanzioni economiche
occidentali. Non potrà che odiare l’Occidente per la sua umiliazione ed il suo
impoverimento. La stessa geopolitica, che è soggetta a forze centrifughe
esattamente come i corpi fisici, non può che indurre il solido sasso russo a
penetrare nei molli corpi di molte Repubbliche ex sovietiche che, diciamolo
pure, dalla loro indipendenza ad oggi non hanno trovato nemmeno un senso da
dare alla loro sovranità ed una strada autonoma di sviluppo.
Allora qui il problema per
l’Occidente, come sempre, non è quello di perseguire l’isolamento e la domesticazione
dell’Orso russo, come fatto nel 1991 con Eltsin. Ogni tentativo produrrà un
nuovo Putin. Il problema fondamentale dell’Occidente è quello di spogliarsi del
suo arrogante senso di superiorità culturale e morale, per capire che la Russia
funziona su coordinate differenti, sulle quali occorre sintonizzarsi. Non per
frenare un progetto che, nel lungo periodo, non può probabilmente essere
frenato, ma per negoziare, con questo progetto, un futuro comune migliore. Dove
l’aggettivo “migliore” non è necessariamente legato, come ritiene la cultura
europea, all’indipendenza di qualche “stan”, ma piuttosto alla pacifica
convivenza di un mondo necessariamente multipolare, dove chi comanda riesce a
trovare un modus vivendi accettabile sia per i propri pari che per i propri
controllati. Vale di più un negoziato onesto sul modo in cui la Russia conta di
gestire la sua influenza su Ucraina e Bielorussia, che ingannare quei popoli
con rivoluzioni colorate eterodirette e promesse di occidentalizzazione che,
peraltro, portano solo a saltare da un padrone all’altro. Probabilmente questo
approccio negoziale può anche ammorbidire le basi socio-culturali del fascismo
russo e del suo nazionalismo più esasperato, inducendo una mutazione più
liberale della sua società.
E’ d’altra parte poco comprensibile
il motivo per il quale, di fronte alla minacciata monopolizzazione delle fonti
fossili da parte del progetto espansionistico russo, l’Occidente non reagisca,
semplicemente, riammettendo nel consesso commerciale mondiale l’Iran (quinto
produttore mondiale di petrolio e terzo di gas), esattamente come fece Obama,
con un negoziato, e pacificando (in questo caso anche con un ragionevole uso
della forza) la Libia, potenzialmente nono produttore mondiale di greggio. Senza
contare le potenzialità estrattive presenti negli stessi Paesi occidentali, non
sfruttate per motivi di costo (è più conveniente importare). La sola Italia estrae
appena il 3% delle sue riserve petrolifere accertate: qualora utilizzate in
pieno, garantirebbero la totale autosufficienza energetica del Paese, ad
importazioni zero, per 25 anni. Discorso analogo per il gas: appena 20 anni fa,
l’Italia estraeva dai suoi giacimenti 7 volte più gas di oggi.
In conclusione, meno pruriti
bellici e più investimenti.
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