domenica 8 maggio 2022

I conti sulle reali perdite dell'esercito russo e le opzioni militari e politiche di Putin



In base alle fonti dell'ISW e del Ministero della Difesa britannico, la Russia avrebbe immesso nella cosiddetta operazione militare speciale fra i 10.000 ed i 12.000 mezzi di vario genere di cui circa 1.700 carri armati. 

Le stime più o meno indipendenti sulle perdite di equipaggiamento russo, come quelle derivanti da Oryx, opportunamente attualizzate, segnalano quasi 2.000 veicoli blindati, dei quali circa 630 carri armati, distrutti o catturati dagli ucraini, cui occorre aggiungere la perdita di 103 camion da trasporto truppe e materiali, 107 pezzi di artiglieria campale o da traino, 62 lanciarazzi multipli, 58 sistemi missilistici terra-terra mobili e circa 200 altri veicoli di supporto. All'incirca, 2.500 mezzi sono andati persi, ovvero il 22-23% della forza totale (37% nel caso dei carri armati). 

Con un calcolo così, il profano potrebbe dire che l'esercito russo ha spazi infiniti per continuare la guerra. Intanto perché la sua forza di invasione attuale ha ancora a disposizione il 77-78% dei mezzi e il 63% dei carri armati. E poi perché le riserve russe in retrovia sono enormi. Sulla base della stima di Forces.net, la Russia potrebbe ancora schierare 1.200-1.300 carri armati aggiuntivi, quasi 4.000 altri mezzi blindati di supporto alla fanteria, altrettanti pezzi di artiglieria, semoventi, trainati o campali. Tutti equipaggiamenti attualmente in riserva e non ancora utilizzati in Ucraina. 

Tuttavia, non è questo il calcolo corretto da fare. Un sistema d'arma non ha senso se non è inserito dentro una unità, all'interno cioè di una organizzazione militare. Da questo punto di vista, l'unità organizzativa di base delle forze d'assalto russe è il battaglione tattico da combattimento, il BTG, una sorta di divisione "in miniatura", che include fanteria motorizzata, forze corazzate, artiglieria, forze missilistiche, contraerea e reparti di supporto, in grado, virtualmente, di operare in autonomia (così non è stato, e questo spiega gran parte del fallimento militare russo). Si stima che l'esercito russo disponga di 168 BTG, e ne abbia impegnati in Ucraina  il massimo possibile, stanti le capacità logistiche della Russia, ovvero 100 (i migliori, che hanno già esperienza di combattimento, tratti dalle Armate Combinate più prestigiose e beneficiarie dei principali ammodernamenti).

Una stima dell'Esercito statunitense evidenzia che vi è una soglia critica, in termini di perdite di equipaggiamento, oltre la quale un BTG diventa inoperativo: un manipolo di soldati e equipaggiamenti residui che, però, avendo perso una frazione rilevante del proprio armamento, non è più in grado di operare in modo coeso come BTG. Tale soglia si aggira attorno al 30%. Poiché le cifre sopra indicate (23% circa di mezzi persi, 37% di perdite fra le forze corazzate) sono delle medie, è ovvio che vi sia un certo numero di BTG non più in grado di operare. Quanti sono? Difficile saperlo. Gli ucraini dichiarano che 60 BTG, ovvero il 60% della forza, non sono più in grado di operare. Ma si tratta evidentemente di cifre gonfiate dalla propaganda.

Poiché un BTG è composto da circa 800 uomini, e le stime migliori parlano di circa 15.000 russi morti e altri 50.000 feriti o prigionieri, e poiché tali perdite non sono tutte concentrate nei BTG (hanno perso uomini anche le forze speciali, la fanteria di Marina, la Guardia nazionale, il personale logistico e di supporto) è possibile stimare che i BTG non più in grado di operare siano una quarantina, ovvero il 40% della forza totale schierata dai russi. 

Quindi, in termini di effettiva capacità di combattimento, le forze di invasione russe potrebbero aver perso il 40% del proprio potenziale nel giro di due mesi e mezzo di guerra. Con un ritmo simile, anche volendo sostituire i BTG persi con i 68 ancora in riserva, con altri otto-nove mesi di guerra Putin avrebbe bruciato tutte le sue forze. Anche perché un BTG degradato al punto da aver superato la famosa soglia del 30% di equipaggiamenti distrutti deve essere riattrezzato con nuovi uomini e mezzi, o fuso con altri BTG degradati. In entrambi i casi, è necessario un periodo di addestramento di numerosi mesi, indispensabile per creare la coesione e l'affiatamento interno all'unità e ricostruirne la catena di comando. I pochi giorni concessi da Putin ai BTG ritirati dal fronte di Kiev e dal nord dell'Ucraina, presumibilmente gravemente degradati, non sono sufficienti, ed infatti l'avanzata russa  nel Donbass, in questa seconda fase della guerra, è pressoché insignificante. 

Ed il rischio per la Russia è che, a partire da giugno-luglio, gli ucraini, opportunamente riarmati dalla Nato, passino ad una offensiva generale, i cui prodromi si vedono già sul fronte di Kharkhiv, dove l'offensiva ucraina ha respinto le forze russe fuori dalla gittata dell'artiglieria (cioè oltre i 20 chilometri dalla città) e rischia persino di mettere a repentaglio la linea di approvvigionamento principale dei russi, che da Belgorod arriva ad Izyum, attraversando l'oblast di Kharkhiv. 

A questo punto, lo Stato Maggiore russo ha due sole opzioni:

a) ridurre le perdite al minimo, passando da una posizione offensiva ad una difensiva, scavando trincee, minando il terreno, stendendo le linee spinate elettrificate, interrando obici e carri armati, per tenere la porzione di territorio già conquistata, magari provando ad ampliarla ancora, se possibile, con una offensiva di altri due o tre mesi;

b) continuare nella guerra offensiva, ma a questo punto diviene fondamentale dichiarare formalmente la guerra all'Ucraina, in modo da poter passare alla mobilitazione generale, per poter mobilitare una forza umana di quasi 2 milioni di riservisti, oltre agli ingenti armamenti in riserva (obsoleti tecnologicamente, ma funzionanti, almeno in teoria) creando e rigenerando in continuo nuovi BTG o BTG degradati, mantenendo quindi in Ucraina la forza attuale (che, come detto, è il massimo possibile che la logistica russa può consentire) magari sperando, nel medio termine, di ricevere nuovi e più moderni sistemi d'arma dalla Cina, con cui Mosca ha appena stipulato un trattato di cooperazione militare. 

Resta però un fatto indiscutibile: con l'opzione b), Putin deve rinunciare alla retorica dell'operazione militare speciale e passare alla guerra totale. Cioè ammettere davanti al suo popolo che l'intervento militare è fallito, e che occorre passare ad una scala di conflitto più ampia. E' probabile che il popolo russo, la Russia profonda, lo segua ancora, ma con la riserva mentale con cui si segue un comandante che ha già un fallimento alle spalle. 



sabato 23 aprile 2022

Il DEF delle meraviglie

 



Il Governo incassa, come prevedibile, l’approvazione di un Def 2022 basato su ipotesi macroeconomiche, e quindi previsioni tendenziali e programmatiche, piuttosto fuori dalla realtà. In un documento che sembra una favola per bimbi, si stima un andamento della crescita tendenziale (cioè a politiche invariate[1]) pari al 2,9% nel 2022, al 2,3% nel 2023 ed all’1,8% nel 2024, con il Pil 2025 che dovrebbe poi attestarsi su quella che, con la metodologia dell’output gap, è considerata la crescita potenziale dell’economia italiana, ovvero l’1,4%, nel 2025 8con ciò ammettendo implicitamente che la spesa del Pnrr non produrrà alcun “salto” strutturale della crescita italiana verso livelli più alti, ma solo la difesa della crescita possibile attuale).

Mentre il crollo della produzione industriale nel primo trimestre ci avvia sulla strada di una imminente recessione tecnica, il Fmi inizia già a correggere il tiro delle previsioni governative: il Pil italiano del 2022 non crescerà oltre il 2,3%, ovvero 0,6 punti in meno rispetto alla stima del Mef, e la crescita sarà dell’1,7% nel 2023, anche in questo caso 0,6 punti sotto la stima del Governo. Il tutto in uno scenario in cui la guerra in Ucraina si fermi nei prossimi mesi facendo calare significativamente i prezzi dell’energia, non vi siano recrudescenza pandemiche e le politiche monetarie restino su un sentiero moderatamente espansivo dal lato dei tassi di interesse. Cioè se si verificherà uno scenario surreale. Diversamente, le stime saranno necessariamente ancora più basse.

Evidentemente, con le cifre di quadro macroeconomico sbagliate, il dato tendenziale del disavanzo rispetto al Pil esposto dal Def è privo di fondamento: il governo prevede una crescita che non ci sarà, in grado di far scendere il disavanzo tendenziale dal 5,1% del Pil nel 2022 al 2,5% nel 2025, pur conservando un “tesoretto” pari a mezzo punto di Pil da destinare a misure espansive nel corso di quest’anno.

Molto più affidabilmente, per effetti legati alla minore crescita rispetto alla previsione e per i conseguenti effetti indotti della minor crescita sui conti pubblici, ci troveremo, nel 2022, con un deficit/Pil (tendenziale) attorno al 6% del Pil (comunque in discesa dal 7,2% del 2021) ed un debito/Pil (tendenziale) del 148-149% del Pil, rispetto al 150,8% del 2021.

Se poi nel 2023, insieme all’abbandono da parte della Bce del programma Pepp a sostegno del servizio del debito, dovesse essere ripristinato il Patto di Stabilità “as it is” (ma non c’è troppo da preoccuparsi: persino i falchi olandesi stanno cedendo ad una ipotesi di rinvio per tutto il 2023 e la Yellen, proprio ieri, in cambio dell’aiuto italiano al massacro ucraino, ha detto che dal punto di vista suo e del vecchio zio Joe il Patto di Stabilità va rivisto per rendere più flessibili le possibilità di fare investimenti) l’Italia andrebbe dritta al default.

Anche perché lo scenario di debito pubblico da mancanza di gas stimato dal Def, qualora Putin si seccasse delle nostre continue donazioni di armi agli ucraini, farebbe schizzare il debito pubblico al 152,6% del Pil nel 2023 (più affidabilmente il 153-154% considerando i sopra rammentati errori nelle previsioni del Pil), cioè un livello analogo a quello dell’anno della pandemia. E’ chiaro che i mercati finanziari trarrebbero le loro conseguenze da un livello di debito/Pil che non scende nemmeno con il rimbalzo del ciclo del 2021/2022.

Ma come detto, non preoccupiamoci troppo. A costo di dolorose riforme strutturali, lo stellone si salverà nuovamente. Vediamo invece gli obiettivi di policy, cioè la componente programmatica del Def. Il “tesoretto” per il 2022, guadagnato grazie ad una crescita di fine 2021 superiore alle attese, e pari a mezzo punto di Pil, dovrebbe essere destinato ad interventi urgenti (ed a impatto zero sul bilancio, poiché derivanti dall’extracrescita del 2021) per il sostegno a famiglie ed imprese alle prese con il caro-energia. Nel primo semestre, sono stati adottati interventi per 14,7 a sostegno delle imprese energivore e del settore dell’autotrasporto. Si aggiungono ulteriori interventi in favore di specifiche categorie (contributi a fondo perduto e sostegno della liquidità delle imprese), quelli per coprire parte dei costi di Regioni ed enti locali e quelli per il settore della sanità (nel complesso, per ulteriori 4,1 miliardi nel 2022). Il tutto basterebbe a coprire, come ammette lo stesso Governo, solo un quarto della maggiore bolletta energetica di imprese e famiglie, con il che, evidentemente, si rileva che senza uno scostamento di bilancio per ulteriori 45-50 miliardi, la sportiva partecipazione al disastro ucraino costerà migliaia di imprese in fallimento ed un ulteriore aumento del trend della povertà. A fronte di ciò, si prevede un modesto intervento urgente (da attuarsi ad aprile) pari a mezzo punto di Pil, ovvero 9,4 miliardi, poi scesi ad 8 nel recentissimo dl appena approvato, lontanissimi cioè dal fabbisogno reale dell’economia, per il sostegno alle bollette elettriche ed al settore energivoro, il rifinanziamento delle garanzie alle imprese ed alcune misure di carattere sanitario.

Quello che invece esiste nelle ipotesi programmatiche del Def è quanto segue:

-         Un rallentamento della crescita nominale della spesa pubblica di parte corrente a partire dal 2022, che si attesterà a +3%, a fronte del +5,1% del 2021, il che in termini reali, considerando un deflatore programmatico del 3%, significa una crescita nulla della spesa corrente per il 2022 ed una riduzione (cioè un nuovo ciclo di austerity) di circa 20 miliardi a partire dal 2023, a fronte di aumenti di spesa in conto capitale, per investimenti fissi lordi, per circa 10 miliardi reali nel solo 2022 (al netto dell’inflazione) e di ulteriori 15-20 miliardi circa nel 2023, anche grazie al Pnrr;

-     Una pressione fiscale sostanzialmente immutata al di sopra del 43% del Pil, nonostante la riforma fiscale (ancora in discussione parlamentare, peraltro), che a regime avrebbe un effetto limitato, di circa 0,4 punti di Pil, su tale parametro, che rimane ancora fra i più alti del mondo occidentale;

-         Spese welfaristiche strutturali in riduzione rispetto al Pil, anche se ovviamente in aumento in termini di valori assoluti: la spesa sanitaria passerebbe, entro il 2025, dal 6,5-7% del Pil degli anni pre-Covid al 6,2%, con un aumento annuale del suo valore assoluto reale di circa 1,1 punti (dando ovviamente per buone le trionfalistiche previsioni sulla crescita del Pil formulate dal Governo). Parimenti, la spesa per istruzione passerebbe dal 4% del Pil nel 2020 al 3,5% al 2025, con un incremento di spesa reale dello 0,7% all’anno. La spesa previdenziale, infine, passerebbe dal 17% del Pil al 2020 al 16,1% nel 2025, con un incremento di spesa reale di 1,3 punti all’anno (come effetto, da un lato, di maggiori pensionamenti anticipati legati alle code di “quota 100” e “quota 102” e dall’altro di una crescita delle indicizzazioni delle pensioni vigenti). Naturalmente, è appena il caso di precisare che, se anche le spese sociali, dell'istruzione e sanitarie crescono in valore assoluto, la loro riduzione in termini di incidenza sul Pil segnala scelte redistributive della nuova ricchezza creata di tipo regressivo;

-      Grazie al cielo, i proventi da privatizzazione sono considerati pari a zero nel triennio, quindi si spera che il Governo non intenda procedere nelle sue intenzioni di privatizzare pezzi di industria militare come Oto Melara.  

Su tutto questo, si è abbattuta una mozione di maggioranza, in sede di approvazione parlamentare del Def, che dovrebbe impegnare il governo ad un eventuale scostamento di bilancio ulteriore nel 2022, utilizzando “gli spazi derivanti dalla manovra (che per gli errori nelle previsioni troppo ottimistiche del Pil non ci saranno, ndr) per nuove iniziative espansive disponendo ulteriori interventi per contenere l’aumento dei prezzi dell’energia nonchè mediante la revisione del sistema dei prezzi di riferimento e dei carburanti, assicurando la necessaria liquidità alle imprese mediante la concessione di garanzie”. Tale risoluzione prevede anche alcuni interventi specifici (la proroga del superbonus alle villette, l’ampliamento del bonus sociale, la prosecuzione degli esoneri contributivi per donne e giovani neoassunti.

E’ naturalmente del tutto futile dire che tale mozione di maggioranza, essendo impegnativa solo sotto il profilo politico e morale, non verrà implementata dal Governo, che era contrario, anche perché, per l’appunto, non ci sono margini finanziari, per cui resterà l’impianto di un Def francamente anche difficile da interpretare, perché basato su un quadro macroeconomico ottimistico e farlocco, che però dal 2023, a prescindere da qualsiasi dibattito sul Patto di Stabilità, reintrodurrà forme di austerità sulla spesa corrente e di riduzione del debito, anche se, per fortuna, ed almeno in termini previsionali, la spesa in istruzione e sanità continuerà a crescere in valore assoluto (la riduzione dell’incidenza sul Pil si applica su un Pil di dimensioni maggiori), insieme agli investimenti fissi lordi, alimentati dal Pnrr.

Va infatti evidenziato che le linee-guida della Commissione Europea per il 2023, che sono state scritte a prescindere da quello che sarà il destino del Patto di Stabilità, e che valgono anche nell’ipotesi, più che probabile, di un suo ulteriore congelamento, stabiliscono che occorre:

i)      assicurare il coordinamento a livello europeo e realizzare un mix coerente di politiche tale da rispettare le esigenze di sostenibilità e quelle di stabilizzazione

ii)    garantire la sostenibilità del debito pubblico attraverso un aggiustamento di bilancio graduale, attento alla qualità della finanza pubblica ed alla crescita economica;

iii)  promuovere gli investimenti e la crescita sostenibile, dando priorità alla transizione verde e digitale.

 

In particolare, gli stati membri ad alto debito, come l’Italia, dovranno ridurre lo stesso, realizzando un aggiustamento di bilancio già a partire dal 2023 (anche se non viene dato un target quantitativo, ma saranno comunque formulate raccomandazioni in termini di contenimento della spesa pubblica ordinaria). Come dire…un Patto di Stabilità senza il Patto di Stabilità, con il beneficio di una previsione di riduzione del debito di tipo qualitativo e senza (ancora) l'infernale meccanismo del ritmo di riduzione di un ventesimo all'anno prestabilito dal Six Pack! Di conseguenza, il Def non può che ricalcare tale tendenza.



[1] In questa nota, per semplicità, gli scenari “a legislazione vigente” ed a “politiche invariate” sono usati come sinonimi, perché gli scostamenti fra i due sono molto limitati (sono nulli nel 2022 e pari a 0,1 punti di Pil sul lato delle entrate ed a 0,3 punti di Pil su quello delle spese per il 2023).


sabato 16 aprile 2022

Qualche esercizio di previsione di possibili scenari.

 

E’ sempre, ovviamente, difficile fare previsioni, ma qualche elemento sugli assetti socio-economici futuri sembra emergere per possibili riflessioni. Ovviamente tutto parte dall’esito prevedibile del conflitto in atto.

L'esito del conflitto russo-ucraino è oramai concentrato sul versante delle aree in mano ucraina del Donbass. Il suo risultato è veramente appeso ad un filo e molto dipende da chi dei due fra Ucraina e Russia riesce a riorganizzarsi per primo: oltre agli insostituibili sistemi portatili antiaerei ed anticarro, l'Ucraina ha bisogno di armi pesanti e mobilità, quindi Acv (già pervenuti dall’Australia, mentre gli Usa ne hanno promesso altri), carri armati, artiglieria di lunga gittata (gli USA dovrebbero inviare alcuni Howitzer), lanciarazzi, munizioni loitering, come il centinaio di droni-kamikaze Switchblade già istradati, che forse diverranno 300, e sistemi di difesa aerea e costiera di lungo raggio, insieme ad un kit di nuovi radar di sorveglianza e guida delle armi; in prospettiva avrà necessariamente bisogno di cacciabombardieri, quindi dei Mig 29 dei Paesi ex Patto di Varsavia inizialmente proposti e poi non forniti, e di elicotteri da trasporto e da attacco (gli USA hanno già promesso di fornire i Mi-17). Tutto questo richiede tempo, perché i donatori devono decidere di agire, raccogliere le armi necessarie, sostituirle con altre e inviarle, e i riceventi devono integrarle nel loro dispositivo di difesa. E poi gli ucraini devono ulteriormente potenziare le posizioni sulla già fortificatissima linea Izyum-Sloviansk, su Rubizhne (a protezione della città capoluogo, ovvero Severodonetsk), sull'area di Kherson-Mykolaiv e di Zhaporizhia-Dnipro-Kyyvi Riv, nonché nel saliente di Popasna. È in queste aree che si deciderà la guerra, dando ormai Mariupol per persa. Questo implica spostare truppe da altri luoghi e amalgamarle in modo coerente con quelle già presenti, ed anche questo richiede tempo e capacità organizzativa.

La Russia, dal canto suo, ha bisogno di tempo per riorganizzare e preparare una nuova forza: secondo una stima del Pentagono riportata dal Guardian, su 128 battaglioni tattici da combattimento di cui dispone l’Armata russa, circa 37-38 sono stati decimati e sono inutilizzabili. Le stime indipendenti, come quelle condotte da Oryx, parlano di perdite molto gravi: almeno 45.000 militari morti, dispersi o feriti in modo grave, fra i quali almeno 8 alti ufficiali del Comando supremo, 2.500 veicoli blindati o pezzi di artiglieria, di cui almeno 480 carri armati, distrutti, circa 20 aerei, 30 droni e altri 35 elicotteri abbattuti, 4 navi perse, fra le quali anche l’incrociatore Moskva, nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero, due terzi delle scorte di missili terra-terra ad alta precisione Iskander. Una ecatombe, che l’industria militare russa, già rallentata dalle difficoltà del bilancio dello Stato, impiegherà molto tempo per coprire.

Occorre ricostruire nuove unità di combattimento fondendo unità logorate ed elementi nuovi venuti per sostituire le perdite, ed addestrarle a operare congiuntamente, il che richiede tempo. Anche le unità integre e fresche appena giunte, soprattutto dall'estremo oriente o dalle aree di peace keeping, vanno addestrate perché non hanno esperienza di combattimento. Le unità esperte sono già state buttate in guerra ed hanno subito perdite tremende. Si parla di battaglioni ricostituiti con appena 300 unità, delle 800 standard. Fra forze già operanti nell’area del Donbass e del sud e rinforzi pervenuti, si parla di circa 10-20.000 uomini, una forza ampiamente insufficiente a raggiungere obiettivi ambiziosi, quali la conquista dell’intero Donbass e di Odessa. Tra l’altro molte di queste unità sono logorate dai combattimenti.  Le stesse truppe russe in Transnistria sono composte da 2.000 uomini con armamento leggero, quindi non costituiscono una minaccia reale. E’ ovvio che sarà necessario altro tempo per ammassare e preparare nuove risorse.

Inoltre bisogna riorganizzare tutta la catena di comando, amalgamando unità che provengono da distretti diversi e sono state poste agli ordini del nuovo comandante generale sul campo. Bisogna organizzare meticolosamente la logistica, anche ricostruendo infrastrutture danneggiate, onde evitare la figura di merda della precedente offensiva. E risolvere i problemi di coordinamento fra esercito ed aeronautica.

Chi dei due arriva per primo a risolvere le sue questioni avrà un vantaggio decisivo. Quindi il fattore tempo è fondamentale, insieme a quello della potenza di fuoco che si può mettere insieme e della mobilità (sarà una offensiva di movimento, almeno in una prima fase, in cui i russi tenteranno, una volta consolidata la conquista di Mariupol, di risalire da nord verso Zhaporizhia e di scendere da sud verso Severodonetsk, per chiudere in una sacca le potenti difese ucraine, che avranno bisogno di mobilità per riposizionarsi).

Secondo valutazioni specialistiche, quali quelle dell’IFW, dopo un primo avanzamento russo, o gli ucraini riusciranno nuovamente ad impantanare l'esercito di Mosca, oppure, se dovessero essere travolti, riusciranno ad organizzare una resistenza molto tenace ed efficace. Già nelle aree meridionali conquistate dai russi, ed in particolare su Kherson, accanto alla protesta civile si stanno muovendo gruppi di resistenza armati che colpiscono le code dei convogli russi, producendo danni.  

In entrambi i casi, i russi saranno costretti a restare impegnati sul terreno per molto tempo, per anni, o in una guerra di trincea logorante, o in una guerra di bassa intensità contro i partigiani ucraini. Non è un caso che i russi stiano richiamando i riservisti anziani, che hanno perso le loro abilità militari e che quindi richiedono tempi lunghi di preparazione prima di essere usati. Sanno che i tempi saranno lunghi.

La situazione attuale sul campo nel Donbass, in preparazioen di una guerra di posizione molto lunga?

Fonte: ISW

Ciò implicherà uno stallo della situazione a tempo indefinito, con una situazione dell'Ucraina che non si stabilizzerà, allontanando anche i tempi per la ricostruzione. I Paesi occidentali, nell'arco di 10 anni, non prima, cesseranno di acquistare materie prime energetiche russe. La previsione della Commissione Europea di liberarsi entro il 2022 dei due terzi delle forniture russe tramite il piano Repower Eu, riducendo di un grado il riscaldamento, aumentando l’autoproduzione e la generazione di energia rinnovabile (che però arriverà soltanto al 15%del totale entro il 2022) e diversificando le fonti di approvvigionamento delle energie fossili, è irrealistica. Si tratta di liberarsi di 155 miliardi di metri cubi di gas, il 45% delle forniture provenienti da Paesi extracomunitari nel 2021. Di fatto, nel 2022 andrà a scadenza un contratto europeo di fornitura con la Russia per soli 15 miliardi di mc, mentre i contratti consistenti scadranno solo a partire dal 2030 (40 miliardi di metri cubi per il 2030, il resto negli anni successivi). Le previsioni più ottimistiche vertono su una riduzione di 75-80 miliardi di metri cubi nel 2022, rispetto ai 102 miliardi necessari per rispettare la previsione di taglio dei due terzi delle forniture dalla Russia. E non tengono conto della fame di energia asiatica, cinese in primis, che ridurrà la capacità di diversificare le forniture. Quindi probabilmente i reali effetti del piano Repower Eu per il 2022 saranno anche più bassi.

 La Russia avrà quindi tutto il tempo per reinvestire i proventi della vendita di gas che continueranno ad affluire, seppur in misura ridotta, per girare a sud est il suo sistema di infrastrutture energetiche, oggi orientato verso l’occidente, e per attirare investitori cinesi nelle joint venture abbandonate dalle imprese occidentali, facendo ripartire crescita ed occupazione. Il rublo, come imposto dalla Russia, sarà usato in luogo del dollaro e dell’euro come valuta di scambio per le residue importazioni energetiche occidentali (ancora molto cospicue, seppur in riduzione, per i prossimi 10 anni, come si è detto) evitandone lo sprofondamento, che produrrebbe una inflazione catastrofica ed un tracollo del sistema dei pagamenti interni. Il debito pubblico russo sarà sostenuto da investimenti cinesi. Già a fine 2021, la Cina detiene il 6% del debito pubblico russo (fonte: Ocpi) ed è il sesto creditore della Federazione (e peraltro il default sovrano russo, con un debito totale, pubblico e privato, inferiore al 40% del Pil, è una ipotesi inesistente, la Federazione è stata dichiarata in default solo per motivi tecnici, perché per via delle sanzioni le sue banche non riescono ad operare sui mercati valutari per procurarsi la valuta estera necessaria per pagare i bond acquistati da soggetti stranieri). Il 14% delle riserve ufficiali della Banca centrale russa in valuta estera è al sicuro in Cina, sfuggendo alle sanzioni.

In ultima analisi, la Federazione Russa integrerà sempre più la sua economia con la Cina, anche se in una posizione di relativa debolezza, perché fornirà, oltretutto senza più poter diversificare i suoi sbocchi, a causa della progressiva chiusura  dei mercati europei e degli USA, commodities energetiche ed alimentari a basso prezzo in cambio di tecnologie avanzate e beni di consumo essenziali a prezzo più alto, e perché le sue aziende saranno sempre più dipendenti dalle joint venture con imprese cinesi per poter realizzare grandi programmi di investimento.

La Cina emergerà come il nuovo centro di un polo antiamericano ed anti occidentale in cui Russia ed alleati (Bielorussia, Kazakhstan, Repubbliche-fantoccio filorusse) e, per altri motivi, Iran, Corea del Nord, Siria, forse Pakistan (oggetto di un colpo di Stato i cui mandanti non sono chiari, ma che sembra essere filo-USA) India e Paesi africani su cui Pechino ha investito (come l'Angola) diverranno un blocco nel quale il potere cinese sarà prevalente, forse conteso solo dall'India.

L'Occidente affronterà una fase molto dura di declino: avrà crescenti problemi a penetrare sui mercati dell'altro blocco, che hanno tassi di crescita molto più alti, dovrà rinunciare all'idea della globalizzazione liberale e ristrutturare ed accorciare, in una logica di autosufficienza, le sue filiere, con grossi investimenti e costi rilevanti. Dovrà subire una fase lunghissima di costi energetici alti, perché se elimini dal mercato il primo produttore di energia, per una semplice legge di domanda ed offerta, i prezzi restano alti anche se ti rivolgi ad altri produttori. I grafici relativi alle previsioni di prezzo del gas, basate sul mercato dei futures, scontano infatti il mantenimento di un livello molto alto dei prezzi anche ne 2023.

L’Europa dovrà anche sostenere costi militari crescenti, per fare fronte ad un mondo dove le tensioni sono più alte. I Paesi dell’Unione Europea, sommati insieme, hanno già oggi la seconda più alta spesa militare del mondo, dopo gli USA, più del triplo della spesa militare russa, per intenderci. Tale spesa, che si assesta all’1,5% del Pil europeo, è sostenuta per quasi la metà da Francia e Germania, con l’Italia in terza posizione. Essa verrà rapidamente portata al 2% ed i Paesi già al 2% faranno ulteriori sforzi finanziari, incrementandosi cioè di circa 212 miliardi immediatamente, arrivando a cica 440 miliardi annui. E siamo solo all’inizio. Questo incremento di risorse, inevitabilmente, creerà tensioni di bilancio, se la crescita non ripartirà, e come detto prima i prezzi dell’energia molto alti costituiranno un impedimento.

Spese militari per Stato nel 2020

Fonte: Corriere della Sera

Nelle aree di attrito fra i due blocchi le frizioni saranno continue e genereranno conflitti costanti. Parlo di aree come il Caucaso, Taiwan, i Paesi che affacciano sulla via della Seta, come quelli attorno al golfo di Malacca (non a caso gli Usa si stanno riposizionando nello scenario del Pacifico e dell'Oceano Indiano) percepiti dalla Cina come una sorta di “nodo scorsoio” alle sue ambizioni di espansione commerciale, e del resto basta vedere da dove passa la via della Seta terrestre e marittima, per capire che, sul versante terrestre, le relazioni con la Russia e con Repubbliche ex sovietiche con forti legami con la Russia, come il Kazakhstan, l’Uzbekistan e la Bielorussia, siano fondamentali, così come lo sono quelle con Paesi come il Pakistan e l’Iran, che offrono una seconda via di passaggio terrestre per le merci cinesi istradate in Occidente. Sul versante marittimo, Taiwan, il Vietnam, l’Indonesia, la Malesia, la Somalia, l’Eritrea e l’Egitto diventano Paesi assolutamente fondamentali da controllare per la Cina, perché le garantiscono il passaggio navale.

Via della seta cinese, terrestre e marittima

Fonte: Inside Over

Ma parlo anche delle repubbliche post sovietiche dell'Asia Centrale ad elevata offerta di materie prime energetiche, i Paesi africani in cui la Cina e la Russia stanno cercando di scalzare il neocolonialismo occidentale (ivi compresa la Libia, ma anche Paesi petroliferi come l’Angola o la Guinea Equatoriale, fortemente penetrati dalla Cina). 

Ed occorre ricordare la contesa internazionale sull'Artico, ricco di materie prime preziosissime liberate dai ghiacci dal cambiamento climatico, ed il cui status non è ancora definito fra i vari Paesi che ambiscono ad una fetta delle ricchezze e delle nuove rotte marittime che si apriranno a nord: Paesi europei, Russia ma anche Giappone e Usa. in particolare, le acque artiche rivendicate dalla Russia intercettano analoghe ambizioni canadesi, statunitensi, norvegesi e danesi, mentre la contesa fra Russia e Giappone per le isole Curili, la cui posizione è militarmente strategica. Evidentemente, le ricchezze minerarie (petrolio, che potrebbe rappresentare il 13% delle riserve mondiali gas, che potrebbe costituire il 30% di dette riserve, terre rare, che potrebbero intaccare la posizione dominante della Cina, che oggi ne controlla il 90%) e le possibilità di aprire nuove rotte marittime commerciali che superino i costi del passaggio da Suez (un elemento di particolare interesse per la Cina) faranno dell'Artico, nei prossimi anni, un vero e proprio terreno di guerra. 

Fonte: Business Insider


Sarà un mondo più povero, più violento, un mondo di tensioni e guerre localizzate costanti, dove un conflitto diretto fra i blocchi, almeno inizialmente di tipo convenzionale, non è da escludere, e quindi dove tutti dovranno armarsi e dove il concetto di frontiera, ed anche il nazionalismo, risorgeranno dalla nebbia della storia, e riprenderanno il ruolo che gli compete.


domenica 13 marzo 2022

Gli obiettivi presumibili di Putin. Cosa potrebbe fare (utilmente) l'Occidente

 


Molti si chiedono quali siano i veri obiettivi di Putin e cosa dovrebbe fare l'Occidente per rispondere. La risposta a tali domande va fatta partendo dall'esame della natura del regime russo nella particolare fase storica in cui si trova il Paese.

Il putinismo è una forma, adattata al contesto russo ed alla modernità, di fascismo, di cui condivide, oltre ovviamente all’assolutismo, tratti di corporativismo (il principale sindacato russo, il Fnpr, è di fatto succube del governo e legato al partito di potere, Russia Unita ed il ruolo principale di Putin e dei siloviki della sua cerchia di potere è quello di mediare fra gli interessi dei vari oligarchi, che rappresentano i centri del potere economico del Paese, e fra questi e il mondo del lavoro) di nazionalismo aggressivo, di tradizionalismo sociale e clericalismo, nonché la classica concezione in cui gli apparati dello Stato sono sovraordinati rispetto agli interessi individuali. Poi si differenzia dal fascismo tradizionale perché camuffa la natura autocratica dello Stato dietro parvenze di democrazia multipartitica, pluralismo ed un formale riconoscimento dei diritti civili e politici, tanto che si è coniato, per definirlo, il termine “democratura”.

Come in ogni forma di fascismo, il regime russo si fonda su un rapporto mistico fra il leader e la massa. Tale rapporto crea un consenso popolare attorno al leader, rendendolo autonomo dal sistema di potere retrostante, ed è quindi fondamentale per evitare che il Capo venga assorbito e distrutto dagli interessi economici rapaci degli oligarchi e le brame di potere del Deep State dei siloviki. Il rapporto mistico fra leader e massa richiede una narrazione, in grado di creare catene equivalenziali fra significanti rimasti non soddisfatti, come direbbe Laclau.

La narrazione putiniana è fondamentalmente basata, oltre che sul tradizionalismo spirituale e sociale slavo, supportato dal rapporto strettissimo con la Chiesa ortodossa, sul nazionalismo militaristico. Lo stesso simbolo di Russia Unita riproduce un orso, simbolo della Russia ma anche del suo imperialismo. In questo Putin raccoglie le insoddisfazioni e le umiliazioni della Russia post sovietica, ridotta all’impotenza militare, smembrata territorialmente, con le sue comunità russofone disperse, e spesso minacciate di sparizione, nelle tante nuove Repubbliche create dalla disintegrazione dell’Urss, impoverita dalle terapie liberiste shock degli anni novanta.

Il nazionalismo militarista russo ha padri e nonni, e una idea di fondo, che si chiama euroasiatismo. Tale movimento intellettuale, nato a fine ottocento con Leont’ev e Trubeckoj, enfatizza la natura prevalentemente asiatica della Russia, evidenziandone la tendenza all’autocrazia ed allo spiritualismo anti-positivista, generata da radici che affondano nei popoli delle steppe e, da ultimo, nell’influenza del dominio mongolo, nonché nella cultura bizantina. Lev Gubilev riprende questi temi, elaborandoli ulteriormente, nella sua teoria dell’etnogenesi, una teoria che non soltanto giustifica esplicitamente le aggressioni militari come frutto della “passionarietà” delle etnie emergenti e giovani guidate da un capo carismatico e non democratico, ma che rielabora l’origine della Russia come una sorta di “super ethnos” nato dalla fusione di elementi slavi, turchi e mongoli.

Le idee di Gubilev confluiscono, infine, nel neo-euroasiatismo, il cui esponente principale è un bizzarro nuovo Rasputin, un filosofo molto, molto addentro i circoli di potere legati a Putin, spesso utilizzato dai circoli militari russi per basare la propria dottrina strategica, e le cui teorie lo stesso Putin spesso cita, ovvero Alexander Dugin. Sebbene i rapporti fra Putin e Dugin siano a corrente alternata e non di rado polemici, non vi è dubbio che il filosofo euroasiatico faccia parte della cerchia di potere più interna del putinismo, dai suoi contributi all’Accademia Militare di Mosca ai suoi editoriali su Izvestija, fino al suo supporto a Putin nei momenti critici (supporto che lo ha condotto a definire malati di mente gli oppositori politici del Presidente).

L’elaborazione teorica di Dugin è profondamente ostile ai valori culturali dell’Occidente, tacciati di materialismo, laicismo, progressismo ed individualismo e richiama la necessità della formazione di un blocco euroasiatico in grado di contrastare il dominio geopolitico e culturale statunitense. Tale blocco sarebbe basato sui valori tradizionali di comunitarismo, spiritualismo, familismo, lealtà al leader carismatico che conformano l’area storica dei popoli nomadi centroasiatici.

Più pragmaticamente, i confini geografici di questa Nuova Russia, Novorossja, vengono indicati in modo molto chiaro da Dugin: Ucraina, con priorità per la Crimea ed il Donbass (non a caso le prime aree conquistate o rese indipendenti dall’intervento di Putin nel 2014), Bielorussia, con la quale è sul tavolo un progetto concreto di unificazione nazionale, che presumibilmente diverrà operativo quando Lukashenko riterrà di volersi ritirare, Georgia ed Armenia, Kazakhstan. Ad un dipresso, tranne la Georgia e l’Ucraina (riluttanti a stringere i rapporti con la Russia e quindi particolarmente “curate” da Putin in questi anni, la prima subendo la secessione dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, la seconda con i fatti cui assistiamo) si tratta dello stesso perimetro della Unione Economica Eurasiatica, che comprende Russia, Bielorussia, Kazakhstan, Armenia e Kirghizistan.

Per avere una idea della possibile estensione dell'Eurasia immaginata dal nazionalismo russo



Se tale integrazione dovesse realizzarsi, Mosca tornerebbe ad un perimetro non lontano da quello della ex Urss, diventando il primo fornitore mondiale di gas naturale e petrolio, integrando le riserve kirghize e kazake (attualmente la Russia è il secondo produttore mondiale di gas naturale e petrolio dopo gli USA e l’Arabia Saudita), nonché di uranio (attualmente il primo produttore mondiale è il Kazakhstan, la Russia è sesta e l’Ucraina nona) e di grano. Non solo: ma come si vede dalla mappa degli oleodotti e gasdotti, il controllo del Caucaso tramite la Georgia e l’Armenia produrrebbe pressioni importanti sull’Azerbaijan, ventitreesimo produttore mondiale di petrolio e sul Turkmenistan, decimo produttore mondiale di gas naturale, costretti ad utilizzare, per le forniture all’Europa, oleodotti e gasdotti che passerebbero per il territorio della Nuova Russia, e quindi di allinearsi alle direttive energetiche di Mosca, rafforzandone la posizione di potere. 

La rete di gasdotti ed oleodotti caucasica: il suo controllo totale da parte russa presuppone l'integrazione con Georgia ed Armenia

La proiezione marittima russa sul Mar Nero ed il Mar Caspio sarebbe di entità tale da annichilire le tentazioni neo ottomane della Turchia di Erdogan sui Paesi musulmani e di stirpe turca dell’ex spazio sovietico. Ad ovest, la Russia panslava tornerebbe ad essere il riferimento di tutto il mondo slavo, con ovvie ripercussioni sugli equilibri nei Balcani, determinati sino ad oggi dalla Nato. L’integrazione della Transnistria, che sembra essere la prosecuzione evidente dell’invasione in atto dell’Ucraina meridionale, porrebbe pressione sull’intera Europa sud orientale e carpatica, diventando la zona militare-cuscinetto fra fianco meridionale della Nato e Russia.

In definitiva, il progetto euroasiatico, quand’anche non dovesse sfociare nell’annessione territoriale diretta di Ucraina, Bielorussia, Armenia e Georgia, ma nella loro riduzione a condizioni di protettorati della Russia (magari anche mutilati di parti di territorio strategiche, come ad esempio la costa ucraina), forse più coerente con le mutate condizioni storiche, proietterebbe la Nuova Russia direttamente su un livello di capacità competitive pari a quelle degli USA, riducendo al contempo in modo sensibile le ambizioni di potenza regionale della Turchia. Trasformerebbe l’Unione Europea in un insieme di mendicanti di risorse energetiche, in modo ancor più marcato di quanto non sia oggi. Perché la verità è che la sbandierata Transizione Energetica, al netto dell’energia nucleare, che però richiede l’uranio, su cui la Russia avrebbe comunque una posizione di semi-monopolio mondiale integrando Kazakhstan ed Ucraina, non sarà in grado, per i prossimi decenni, di sostituire in misura significativa l’energia da fonti fossili: tali fonti costituiscono ancora l’80% del consumo energetico mondiale, e secondo uno studio di fonte Ocse/Iea esse rappresenteranno ancora il 76% dei consumi nel 2030[1].

La domanda delle domande è però la seguente: possiamo noi occidentali fermare questo progetto eurasiatico di stampo imperialistico, aiutando l’Ucraina di Zelensky ad impantanare l’esercito federale russo in una guerra di logoramento di lungo periodo, attendendo che il deterioramento dell’economia russa, favorito dalle pesanti sanzioni economiche, induca una rivolta, da dentro e da fuori l’apparato di potere di Mosca, tale da estromettere Putin e generare un “regime change” a noi favorevole? L’obiettivo dichiarato degli Usa, della Gran Bretagna e dei guerrafondai nostrani alla Letta è proprio questo.

Al momento in cui si scrive questo articolo, la situazione militare russa sul terreno ucraino appare, in effetti, piuttosto difficile: l’improvvisazione di intelligence e di pianificazione strategica (costata la testa all’intero Stato Maggiore dell’esercito ed all’ufficio 5 dell’Fsb, quello che si occupa dell’Ucraina), i limiti della logistica, persino inaspettati ritardi tecnologici (in particolare nella guerra elettronica) insieme alla resistenza più che tenace degli ucraini stanno facendo progressivamente perdere ai russi la capacità di iniziativa militare, generando perdite molto consistenti a fronte di avanzamenti territoriali piuttosto limitati. Anche il refillment delle forze sul terreno con nuovi effettivi appare problematico, sia perché rischia di aggravare il pesante congestionamento logistico, sia perché dovrebbe affidarsi essenzialmente a coscritti o a truppe di scarsa qualità e modesta capacità di combattimento, atteso che i migliori reparti russi sono già presenti in Ucraina ed hanno anche subito perdite significative (come i circa 800 Speznatz che hanno cercato invano di presidiare l’aeroporto di Hostomel o i Marines più volte respinti nei primi giorni della battaglia per Berdyansk e Mariupol). La Russia è arrivata al punto di dover reclutare mercenari siriani o della Wagner per sostituire le proprie perdite, non potendo contare sui propri coscritti. L’uccisione di un numero significativo di ufficiali superiori esperti, pressoché insostituibili per esperienza e capacità di comando, mostra le carenze del sistema russo di comando e controllo, che costringe i generali a seguire le truppe in prima linea. L’Aviazione è pressoché inutilizzabile nel supporto tattico delle truppe a terra, perché vulnerabile ai sistemi antiaerei di cui gli ucraini si sono dotati grazie alla Nato. I modernissimi razzi anticarro portatili Javelot, anch’essi di costruzione Nato, mettono in luce le carenze dei sistemi di corazzatura reattiva dei tank di Mosca.

Sul versante economico, il downgrade a livello spazzatura del debito pubblico russo, l’impossibilità di utilizzare gran parte delle risorse in valuta estera congelate in piazze bancarie occidentali, la caduta libera della quotazione del rublo stanno congiurando per un rapido default tecnico, che impedirebbe al governo russo di utilizzare i mercati finanziari per sostenere il suo sforzo bellico, mentre l’embargo sull’esportazione di prodotti primari (come i farmaci) o di componenti ad alta tecnologia, se rispettato, dovrebbe mettere in crisi sia la popolazione sia l’industria militare. La svalutazione del rublo insieme alla prevedibile fiammata inflazionistica potrebbero produrre addirittura forme di ritorno al mercato nero ed al baratto di stampo veterosovietico. Il risparmio privato dovrebbe crollare rapidamente, contribuendo ad un ulteriore impoverimento del Paese. L’abbandono di molte grandi aziende occidentali genererà un incremento importante della disoccupazione.

Ma tutto questo servirà a fermare il progetto russo? Quand’anche Putin fosse defenestrato e, come appare sempre più possibile, l’offensiva militare in Ucraina impantanata, il progetto eurasiatico russo non potrà che continuare, con nuovi uomini e nuovi strumenti. Perché non è altro che il destino stesso di quel Paese. Per molti versi la Russia è condannata ad inseguire quel progetto. Perché una volta liberatasi da Putin e dal putinismo rimarrebbe sotto il controllo degli oligarchi (magari newcomers che pasteggeranno sulla rovina dei precedenti) e degli apparati di sicurezza e militari, che comandano il Paese sin dai tempi dell’Urss, e che sono transitati pressoché intatti nella nuova Russia postcomunista. Perché non esiste una borghesia nazionale in grado di sostituirsi agli oligarchi: la Russia non ha conosciuto la rivoluzione industriale occidentale, essendosi industrializzata nella fase dello stalinismo; non ha interiorizzato gli ideali di razionalità e positivismo dell’Illuminismo, finiti nei sottosuoli spiritualistici di Dostoevskij. Perché il cuore profondo della Russia interna e rurale non ha sperimentato la modernità se non tramite il socialismo, conservandone però un ricordo controverso perché le ha rubato le terre per collettivizzarle ed ha bruciato le icone religiose. Questa Russia profonda, fatta di contadini, è ancora culturalmente vicina alle condizioni del tardo zarismo, avversa la modernità e, insieme ad una classe operaia fatta in primis da minatori, tende a credere nella terra come elemento fondamentale su cui ruota la vita. Perché una economia mineraria ed agricola ha bisogno di terra, di spazi fisici, per poter crescere, non di asset finanziari e reti virtuali, come i post-capitalismi smaterializzati dell’Occidente. E gli spazi fisici, la terra, si conquistano ancora oggi con le guerre, come facevano gli antichi popoli di nomadi e guerrieri delle steppe. Perché un’altra Russia profonda, fatta di pensionati dei grandi dormitori urbani di epoca sovietica e di chi al socialismo ha creduto o ne è stato protetto, non accetta di essere compressa entro confini che non riconosce: quando Putin dice che Ucraina e Bielorussia sono fatte della stessa carne e sangue della Russia, sa di trovare orecchie che approvano. Sa di essersi impoverita per colpa delle sanzioni economiche occidentali. Non potrà che odiare l’Occidente per la sua umiliazione ed il suo impoverimento. La stessa geopolitica, che è soggetta a forze centrifughe esattamente come i corpi fisici, non può che indurre il solido sasso russo a penetrare nei molli corpi di molte Repubbliche ex sovietiche che, diciamolo pure, dalla loro indipendenza ad oggi non hanno trovato nemmeno un senso da dare alla loro sovranità ed una strada autonoma di sviluppo.

Allora qui il problema per l’Occidente, come sempre, non è quello di perseguire l’isolamento e la domesticazione dell’Orso russo, come fatto nel 1991 con Eltsin. Ogni tentativo produrrà un nuovo Putin. Il problema fondamentale dell’Occidente è quello di spogliarsi del suo arrogante senso di superiorità culturale e morale, per capire che la Russia funziona su coordinate differenti, sulle quali occorre sintonizzarsi. Non per frenare un progetto che, nel lungo periodo, non può probabilmente essere frenato, ma per negoziare, con questo progetto, un futuro comune migliore. Dove l’aggettivo “migliore” non è necessariamente legato, come ritiene la cultura europea, all’indipendenza di qualche “stan”, ma piuttosto alla pacifica convivenza di un mondo necessariamente multipolare, dove chi comanda riesce a trovare un modus vivendi accettabile sia per i propri pari che per i propri controllati. Vale di più un negoziato onesto sul modo in cui la Russia conta di gestire la sua influenza su Ucraina e Bielorussia, che ingannare quei popoli con rivoluzioni colorate eterodirette e promesse di occidentalizzazione che, peraltro, portano solo a saltare da un padrone all’altro. Probabilmente questo approccio negoziale può anche ammorbidire le basi socio-culturali del fascismo russo e del suo nazionalismo più esasperato, inducendo una mutazione più liberale della sua società.

E’ d’altra parte poco comprensibile il motivo per il quale, di fronte alla minacciata monopolizzazione delle fonti fossili da parte del progetto espansionistico russo, l’Occidente non reagisca, semplicemente, riammettendo nel consesso commerciale mondiale l’Iran (quinto produttore mondiale di petrolio e terzo di gas), esattamente come fece Obama, con un negoziato, e pacificando (in questo caso anche con un ragionevole uso della forza) la Libia, potenzialmente nono produttore mondiale di greggio. Senza contare le potenzialità estrattive presenti negli stessi Paesi occidentali, non sfruttate per motivi di costo (è più conveniente importare). La sola Italia estrae appena il 3% delle sue riserve petrolifere accertate: qualora utilizzate in pieno, garantirebbero la totale autosufficienza energetica del Paese, ad importazioni zero, per 25 anni. Discorso analogo per il gas: appena 20 anni fa, l’Italia estraeva dai suoi giacimenti 7 volte più gas di oggi.

In conclusione, meno pruriti bellici e più investimenti.

 



[1] Fonte: Ocse/Iea, World Energy Outlook 2020

lunedì 7 febbraio 2022

Prospettive poco incoraggianti per l'economia italiana e globale: è il caso di tornare a politiche monetarie restrittive?

 Brutte notizie per l’economia globale: i principali indici congiunturali scontano un netto rallentamento della crescita nei mesi a venire. La forte ripresa post-Covid sembra in fase di forte rallentamento. Sia l’indice PMI globale di Markit che il Baltic Dry Index (un indice costruito sui valori dei noli delle navi rinfusiere, generalmente assunto come indicatore anticipatore della dinamica del commercio globale) manifestano una evidente decrescita dopo il 2021 (nel caso del secondo indicatore, però, tale diminuzione può attribuirsi al parziale decongestionamento dei principali porti, con un connesso moderato calo dei noli, che nei mesi scorsi avevano raggiunto valori record). Il dato dell’indice PMI, invece, riassume previsioni di calo della produzione, dell’occupazione e degli ordinativi nell’industria manifatturiera mondiale per i prossimi mesi, con un valore che rimane al di sotto della soglia di 50, in genere indicativo di recessioni. Il pesante rallentamento della crescita cinese, soprattutto nei servizi, e la battuta di arresto della produzione industriale tedesca (-0,3% a gennaio rispetto al mese precedente) hanno contribuito in misura evidente.

Baltic Dry Index: andamento al 7 febbraio 2022



In Italia, l’indice composito PMI rallenta di ben 4,6 punti rispetto a dicembre, attestandosi sulla soglia della stagnazione economica (50,1) per effetto di un calo più accelerato nel comparto dei servizi. Tali dati di rallentamento sono confermati dal clima di fiducia di imprese e consumatori. L’indicatore in questione è in netto calo, soprattutto sul versante imprenditoriale, dove raggiunge il valore più basso degli ultimi nove mesi, per effetto di un deciso peggioramento delle previsioni di ordinativi, e soprattutto nei servizi (turismo, trasporti e in misura minore commercio) e nell’industria dei beni di consumo finale. Le famiglie italiane, dal canto loro, scontano una previsione di peggioramento del clima economico generale, una maggiore propensione al risparmio e previsioni di riduzione degli acquisti di beni durevoli nei prossimi mesi.

Indice di fiducia dei consumatori e delle imprese in Italia



Nel frattempo, sul versante dei prezzi energetici, le notizie non sono buone. I valori sui mercati future del gas naturale e del petrolio Brent mostrano, infatti, valori ancora piuttosto alti ed una propensione a diminuire molto moderata. Pur essendo in lieve riduzione, già da qualche giorno, il valore del gas naturale sul mercato future è analogo a quello del 2014 (quando, guarda caso, ci fu la prima crisi Russia-Ucraina) ed è di due volte e mezzo più alto del minimo toccato ad inizio 2020. Quello dei future sul petrolio Brent è il quadruplo del valore minimo di inizio pandemia. Avremo davanti ancora mesi di prezzi energetici alti, anche se la fiammata di crescita sembra essersi consumata, e di lento decongestionamento del traffico marittimo, che impedirà ai valori dei noli di diminuire troppo rapidamente. Per una economia energivora come l’Italia, tale andamento è molto preoccupante.

Non sembra però che la politica monetaria abbia granché da dire, sia sul versante della crescita che su quello dell’inflazione. Mettendo a confronto in un unico grafico l’andamento del costo del denaro applicato dalle principali banche centrali mondiali (Fed, Bce, Banca Centrale del Giappone e Banca Centrale britannica), l‘andamento dell’indice PMI globale e l’indice dei prezzi globale, scopriamo che nel periodo 1999-2001 e nel 2003-2007, politiche monetarie restrittive sui tassi hanno avuto effetti del tutto irrilevanti sull’andamento globale dei prezzi, mentre il crollo dell’inflazione nel 2009 ed il successivo mantenimento dell’indice dei prezzi su valori vicini allo zero fino al 2020 non sembra risentire di andamenti erratici delle politiche sui tassi, prima fortemente ridotti e poi moderatamente ricresciuti a partire dal 2017, come effetto del primo tapering effettuato dalla Fed.

Andamento dei tassi di interesse ufficiali delle principali banche centrali, dell'indice sui prezzi globali e dell'indice composito PMI globale



Analogamente, la crescita economica globale, rappresentata dall’indice PMI, risente poco dell’andamento dei tassi di interesse ufficiali: essa è alta in periodi di crescita rapida dei tassi ufficiali e dei prezzi, e rallenta in periodi di tassi negativi e prezzi vicino allo zero. Questo perché, evidentemente, i tassi di interesse vengono scontati per i prezzi, per cui i mercati li prendono in considerazione in termini reali. Pertanto, fasi di crescita dell’economia e di surriscaldamento dell’inflazione, come quelli pre-crisi del 2007 annullano gli effetti di eventuali politiche restrittive sui tassi, poiché l’aumento del tasso nominale è compensato dal parallelo aumento dei prezzi. Viceversa, in fasi di crescita stagnante o di crisi e di deflazione, la riduzione dei tassi nominali è in una certa misura già anticipata da quella dei tassi reali, e non produce grandi effetti.

Il tema centrale sembra quindi essere il seguente: pensare di curare l’attuale fase inflazionistica con una restrizione sui tassi di interesse ufficiali rischia di essere una medicina sbagliata per un paziente affetto da tutt’altra malattia. L’incremento prospettico dei tassi nominali arriverebbe dopo l’aumento dei prezzi, sicché in termini reali la dinamica del costo del denaro sarebbe modesta (addirittura, per piccoli incrementi dei tassi nominali, continuerebbe a mantenersi negativa) e non avrebbe effetti rilevanti né sul comparto reale dell’economia, né sul raffreddamento dell’inflazione. Le dinamiche di crescita e di inflazione dipendono infatti da fattori reali e geopolitici: i livelli ancora molto alti dei costi energetici, la domanda interna per consumi che non riparte, aspettative ribassiste alimentate anche da “rumors” sul ritorno imminente di politiche di austerità delle finanze pubbliche nell’area euro, il forte rallentamento economico cinese, legato a sua volta a fattori, come la bolla immobiliare e la crisi da debito dei grandi costruttori edili, tipici di quel Paese.

Oltre che ininfluente, una sterzata troppo forte sui tassi di interesse, soprattutto da parte della Bce, invierebbe ai mercati un segnale negativo di complessivo restringimento delle politiche economiche in senso di un ritorno all’austerità neoliberista, anche nell’ottica del prossimo appuntamento sulla riforma del Patto di Stabilità. Ciò rischia di creare scommesse al default per i Paesi a più alto debito pubblico dell’area euro, fra i quali il nostro, alimentando ulteriormente la già evidente tendenza al rallentamento della crescita economica e rischiando di creare le premesse per una sorta di previsione recessiva autoavverantesi.

La politica monetaria dovrebbe quindi mantenersi sufficientemente accomodante nei prossimi mesi, soprattutto nell’area euro, continuando a fornire al sistema la liquidità a basso costo (o a costo zero) di cui necessita, confidando in una forte ripresa di investimenti pubblici che, però, senza un debito comune europeo rischia di concentrarsi sui Paesi con i margini finanziaria più alti, accentuando le asimmetrie ed i divari interni all’area euro. Un’area monetaria comune in cui le traiettorie dei singoli membri si allontanano troppo, e non esistono sufficienti meccanismi di compensazione, rischia di implodere.

mercoledì 29 dicembre 2021

Il teatro di cartapesta


A pensarci bene, ci troviamo in una "drôle de situation" in questo Paese. In questa fase storica, la nostra borghesia, dichiaratamente incapace di trasformarsi in una classe dirigente nazionale, sta pensando ad un ritorno indietro all'Italia post-unitaria, con un Sovrano/Presidente della Repubblica che, dall'alto diuna presunzione di semi-divina competenza, nomina premier e ministri che rispondono, in prima istanza a lui, anche se in seconda battuta devono trovare una maggioranza in un Parlamento ridotto ad un catino di manutengoli e trasformisti. Una restaurazione fondata su una idea imbastardita del liberalismo, il liberalismo all'italiana, drogato dalla morale cattolica, in cui il Bene Supremo da difendere è quello di una pacificazione nazionale all'insegna dell'accettazione del potere esclusivo, naturale e semi-dinastico di una élite riconosciuta tale per diritto di nascita. Una élite che ha manomesso l'ascensore sociale per non farlo funzionare più. 

E' in fondo una rivisitazione del giolittismo, non a caso considerato dalla storiografia ufficiale come una fase felice della nostra politica, e non quello che fu veramente, cioè un porcile. Nel giolittismo, come è noto, si congela la fotografia sociale, eliminandone la dinamica, in cambio di un trickling down di piccole concessioni socio-economiche, quanto basta per ottenere la pace sociale ed impedire che le tensioni sfocino in proteste. A questa visione Draghi è diretto: ecco che al popolaccio infame diamo un pò di decontribuzione, non troppa, per un anno, un aiutino per pagare le bollette, una leggina inutile sulle delocalizzazioni, un pò di formazione professionale, un assegnino per i figli. Purché non chieda una partecipazione diretta alla gestione del potere, purché non faccia scioperi, purché accetti una compressione definitiva della sua rappresentanza politica, purché, in ultima analisi, accetti la realtà di una oligarchizzazione e verticalizzazione della società senza rompere le palle al timoniere, alle lobby di potere che lo circondano ed alla corte di servitori, lobbisti e manutengoli che servono per sorreggerlo.

Questo obiettivo viene pervicacemente ma maldestramente perseguito pensando, tramite il controllo quasi totale dell'informazione, di nascondere sotto il tappeto la polvere delle tensioni sociali crescenti.

Si sparano dati ad cazzum su una pretesa ripresa economica con boom di assunzioni, senza dire che si tratta solo di un fisiologico e momentaneo rimbalzo della congiuntura e che le assunzioni sono quasi tutte con contratti precari e sottopagati, mentre migliaia di lavoratori a tempo indeterminato perdono il posto per la delocalizzazione che, in alcuni settori (automotive, tessile/abbigliamento, elettrodomestici, trasporto aereo) assume le dimensioni di un fugone generalizzato da una barca in affondamento e 200.000 lavoratori in CIG, fra tre giorni dal momento in cui scrivo, si ritroveranno senza nessuna copertura sociale. 

Si fa trasudare una ottimistica e trionfalistica retorica su una presunta progressiva vittoria sulla pandemia, tanto più grottesca quanto più i dati sono lì a smentirla, fino ad arrivare a vette di totale irragionevolezza a-scientifica, come la decisione odierna di non far fare la quarantena a chi è vaccinato, o le torsioni assurde per evitare di tornare indietro anche a mini-lockdown molto limitati nel tempo e nello spazio, che però potrebbero alleggerire le strutture ospedaliere.

Si esalta il piano giavazzian-draghiano di riforma del Patto di Stabilità, chiamando a raccolta anche i pochi economisti ancora di sinistra, senza dire che è un collage di vecchie idee avariate senza nessuna possibilità di essere accettate, senza dire che Macron ci scaricherà non appena avrà convenienza a tornare al dialogo preferenziale con Berlino. 

In definitiva, si conta sul fatto che le tensioni sociali, messe sotto il tappeto di una informazione totalmente avulsa da un minimo senso di realtà e spesso francamente ridicola, non abbiano una direzione politica, speculando sul disastro politico e sindacale della sinistra, smorzando le richieste popolari con i ragionamenti addormentanti e sedativi di un Letta o di un Orlando o con l'ecumenica pacatezza di un sindacato giallo. Si manda in avanscoperta Mattarella a dire che lascia un "Paese unito", quando le strade e le case ribollono di una tensione mai più vista negli ultimi trent'anni.

Ma le tensioni intanto crescono, e non possono trovare uno sbocco a sinistra, perché la possibilità che rinasca una sinistra politico-sindacale sufficientemente all'altezza dei tempi è pari allo zero termico, per una serie di fattori concomitanti (sgretolamento dell'unità di classe e della relativa coscienza come effetto della disgregazione del mercato del lavoro, retorica dell'individualismo libertario che è penetrata a fondo nell'identità collettiva, posizionamento - unico in tutta Europa - di un partito dichiaratamente non socialista nell'area sociale tradizionalmente di proprietà della sinistra, arretramento culturale del sindacato e frammentazione alla sua base). 

Non trovando sbocco a sinistra, esse transitano attraverso la retorica poujadista e antistatalista della piccola borghesia, che si manifesta nel movimento no-green pass, attraverso il libertarismo dirittocivilista ed elitista dei ceti medi istruiti sardinati, direttamente cooptati nel sistema oligarchico con un posizionamento solo apparentemente, e nel solo breve periodo, favorevole, attraverso l'autorganizzazione scoordinata, rabbiosa ma sterile, dei gruppi di lavoratori che perdono il lavoro, attraverso la solitudine disperata, consumata per ora tra le mura domestiche, del cinquantenne che ha perso il lavoro, o del pensionato che non arriva a fine mese, o di chi è lasciato solo con un disabile o un malato cronico, e che si manifesta all'esterno con l'impressionante crescita degli omicidi-suicidi di interi nuclei familiari. 

La pura e semplice legge di gravità, però, vale anche in politica, e ci dice che, prima o poi, tutte queste proteste isolate e prive di una possibilità di coordinamento, perché esprimenti idee ed interessi molto diversi (niente unisce il millenial o il negoziante che protestano per una idea di "libertà" individuale legata alla mercificazione di ogni aspetto della vita con l'operaio che lotta contro la delocalizzazione della sua azienda) finiranno per collassare in una massa unica, attirandosi l'una con l'altra per inerzia. L'unico collante possibile sarà quello di una rabbiosa e cieca rivalsa contro il potere, anzi, contro tutto ciò che ha abbastanza autorità per far parte della sfera ampia del concetto di potere: la casta politico-imprenditoriale, con i suoi addentellati consulenziali e giornalistici, la scienza, percepita come asservita al potere, la scuola, la legge e l'ordine pubblico, e così via. Una furia cieca e senza direzione, che farà esplodere un incendio, pronta, probabilmente, a farsi addomesticare dall'Uomo Forte, l'ennesimo avventuriero con mascella di acciaio, virtù salvifiche e con una idea di "terza via" che affolla l'italica storia. 

Ciò potrebbe avvenire a breve. Nel giro di un paio di anni, il rimbalzo congiunturale spacciato per "ripresa" si incarterà su sé stesso, il Paese si ritroverà impoverito e precarizzato ulteriormente, con l'aggravante che finirà anche il sostegno monetario a manetta della Bce, per cui per evitare il default, in condizioni di isolamento politico e diplomatico, occorrerà tornare a forme di austerità dolorose e da macelleria sociale. A quel punto, anche il Corpo Mistico del Santo Banchiere, rivenduto al popolo come demiurgo infallibile, si scioglierà, rivelando la realtà di un tetragono e un pò grigio burocrate con una fame di incarichi senza fine. Il teatrino di cartapesta, pietosamente usato per smerciare l'idea di un Paese in rinascita, brucerà, e i suoi burattinai resteranno nudi di fronte alla loro stessa sconfitta. 

L'Italia probabilmente scivolerà rapidamente verso una crisi da default, un arretramento definitivo verso il gruppo dei Paesi a reddito medio-basso, forse anche una fuoriuscita "forzata" dall'euro ed una disgregazione territoriale "de facto" sotto i vessilli del federalismo, sarà necessario ricorrere a forme di autoritarismo caudillistico per tenere insieme i brandelli strappati del Paese. 

Chi è causa del suo mal pianga sé stesso. 

sabato 9 ottobre 2021

L'astensionismo alle ultime elezioni amministrative: una analisi più da vicino

 


La tornata di voto amministrativo, significativa numericamente perché coinvolgeva circa un quarto dell’intero corpo elettorale nazionale, è stata dominata dall’astensionismo. Questo è probabilmente il dato più significativo di tutti. A votare è andato il 54,7% degli elettori, con un calo di quasi 7 punti rispetto alle precedenti amministrative.

L’analisi interna dell’astensionismo è fondamentale, oramai, perché tale fenomeno ha una incidenza molto importante nel determinare gli esiti finali di un voto, ed anche per segnalare lo stato di salute di una democrazia. Va premesso, peraltro, che tale fenomeno, per la sua liquidità e soggettività, in parte basata su considerazioni emotive o non del tutto razionali, rifugge da qualsiasi codificazione rigida dei motivi ed andrebbe analizzato in modo puntuale per ogni tornata elettorale (l’astensionismo alle politiche può avere un significato diverso da quello delle amministrative), per ogni territorio (probabilmente l’astensionismo al Sud ha motivazioni parzialmente diverse da quello del Centro Nord) e per ogni tipo di area (non sono identici i motivi dell’astensionismo nelle grandi città – ed all’interno di queste fra i centri gentrificati e le periferie più estreme – e nelle aree periurbane e rurali).

In altri termini, il fenomeno va analizzato per quello che è nell’hic et nunc, e non con categorie analitiche utilizzate in precedenti tornate elettorali, oppure, peggio ancora, con la lente deformante dei nostri desideri. Mi riferisco in particolare ad un bizzarro editoriale sul Corriere della Sera a firma di Polito – peraltro analista politico molto acuto, in altre circostanze – in cui il Nostro, mosso dal pio desiderio di portare un soccorso (peraltro inutile) al già fortissimo Governo Draghi, evince dall’elevato astensionismo un misterioso e non riscontrabile clima di “tregua nazionale”, in cui gli elettori, lasciate a casa le rabbie antisistema dei tempi giacobini del M5s e dei tempi sovranisti della destra, avrebbero deciso di restare a casa perché non avvertono, in una politica commissariata dai tecnici alla Draghi, l’esigenza di esprimere un parere su visioni alternative del mondo, che peraltro i partiti non sono in grado di fornire.

Ora, a parte il fatto che parlare di un clima di “calma piatta”, per cui gli elettori avrebbero segnalato che “non è il tempo della protesta”, è una palese, e direi anche psicologicamente preoccupante, dissociazione dalla realtà del Paese, attraversato da correnti multicolori di protesta (dai no green-pass alle ben più serie proteste dei lavoratori delle fabbriche in chiusura), la considerazione di Polito potrebbe avere un qualche minimo rilievo se stessimo parlando di elezioni politiche nazionali. Alle amministrative ci si concentra sulle proposte per il proprio Comune, quindi su un elenco di progetti di natura prevalentemente amministrativa, più che politica. Il voto è mosso più dalle proposte su dove disegnare le strisce blu dei parcheggi che da considerazioni “macro” sulla capacità dei partiti di rappresentare interessi sociali generali.

E però…però…una parte di ragione Polito ce l’ha, quando afferma che “molti italiani mostrano poco interesse per la gara dei partiti, perché la reputano irrilevante rispetto alle cose che contano”. Guardiamo il fenomeno in modo oggettivo, curiosando dentro i primi dati sui flussi e le motivazioni di voto provenienti dalle prime elaborazioni, purtroppo ancora limitate alle grandi città (in particolare Milano, Bologna e Napoli, i dati su Roma sono ancora parzialmente latenti). Manca quindi la foto dell’Italia profonda, del reticolo di piccole e medie città che costituisce, forse più delle grandi aree metropolitane, la radice del nostro Paese, mancano, inoltre, le cosiddette “aree interne”, montane e rurali, che però in alcune delle regioni della dorsale appenninica, specie quelle del Sud, hanno un peso elettorale importante, nonostante lo spopolamento e la marginalizzazione.

Con questo limite metodologico non indifferente, concentrandoci sul voto metropolitano (che però è spesso anche il più informato, almeno mediaticamente) notiamo come il grande serbatoio dell’astensionismo, tradizionalmente collocato a Sud (ancora a queste elezioni, le regionali calabresi vedono una partecipazione di appena il 44,4%), l’astensionismo attacchi i grandi centri urbani, anche del nord. La partecipazione al voto nelle città di Torino, Milano, Roma e Napoli è stata, in termini aggregati, del 48% appena, a Bologna è scesa fino al 35%, tutto nettamente sotto la media nazionale del 54,7%. Regioni tradizionalmente considerate affette dall’astensionismo, come la Basilicata o la Campania, hanno messo a segno percentuali, rispettivamente, del 58,5% e del 58,1%, inferiori ai dati della precedente tornata ma superiori alla media nazionale. Il Molise, tipica regione “interna”, ha messo a segno un 58,4%.

Possiamo già qui scardinare un luogo comune, ovvero quello per cui le aree extraurbane hanno un grado di partecipazione politica necessariamente inferiore a quello delle aree urbane, dove esiste un elettorato più consapevole e più inserito nelle dinamiche amministrative e di governo. Questo non è sempre vero e dipende dalla natura di chi, volta per volta, si astiene (dipende anche dalla presenza o assenza di fenomeni di voto di scambio e consociativismo a livello locale, che a volte “gonfiano” artificialmente il voto).

Stavolta si è astenuto, perlopiù, un elettorato urbano, il più delle volte residente nelle periferie o nei quartieri in degrado. Vero è che a Bologna, in periferie come Borgo Panigale, si sono avuti dati di affluenza più alti. Però a Roma si è determinato un più “classico” differenziale fra quartieri benestanti (Parioli, Roma nord) che hanno votato in modo più diffuso, e periferie in degrado, specie della zona est o anche Ostia. Analogo risultato si è avuto a Napoli: al Vomero vota il 40% degli elettori, a Poggioreale-Zona Industriale o a Secondigliano e Scampia votano fra il 30 ed il 35% degli aventi diritto. A Milano, al netto dell’anomalia relativa al centro storico, si vota di più nella benestante e centrale zona di via Buenos Aires-San Vittore che in quella del Forlanini-Ponte Lambro e del Corvetto, e meno ancora si è votato nella zona Barona-Gratosoglio-Primaticcio, fra le meno prospere della città in termini di reddito medio pro capite (fonte Youtrend).

Questi dati scardinano del tutto il postulato di Polito: se dovessimo dargli retta, i quartieri più arrabbiati sarebbero quelli centrali e benestanti, mentre le periferie in degrado sarebbero pacificate. Ovviamente non ha senso, mentre ha senso dire che, quando si vota per il Comune, la disaffezione elettorale, un po' come i fenomeni di inurbamento dei Paesi poveri, si trasferisce dalle campagne alle città, fermandosi nelle periferie scassate. Questo perché, mentre i centri medio-piccoli sono relativamente più facili da amministrare ed il rapporto fra sindaco e cittadini è più diretto, nelle sterminate periferie dei grandi centri urbani il senso di abbandono delle istituzioni alimenta una maggiore disaffezione elettorale.

La composizione sociale e culturale non può che seguire la geografia urbana: secondo le prime elaborazioni di Swg, infatti, a Torino il 66% del voto operaio è andato in astensionismo. A Milano, il 67% degli elettori a bassa scolarità è rimasto a casa. Analoga percentuale (64%) per gli elettori di bassa scolarità romani e per quelli napoletani (65%). A Trieste ha rinunciato al voto il 47% degli operai ed il 71% dei disoccupati. Tra l’altro, in tali categorie, fra chi è andato a votare ha prevalso quasi sempre la scelta per il candidato di destra.

Continuando nell’analisi del voto delle grandi aree urbane, vediamo altre cose che appaiono evidenti. Come appare dai dati elaborati da Youtrend, a Torino e Milano l’astensionismo crescente è alimentato in primo luogo da elettori del M5s, in secondo luogo da elettori di centrodestra, leghisti e dei FdI. A Napoli, il flusso crescente di rifiuto del voto è alimentato in primo luogo da elettori di centrodestra, ed in secondo luogo, e ciò costituisce una specificità locale, da voto in uscita da De Magistris, quindi da un elettorato tendenzialmente di sinistra radicale che non ha trovato più un suo candidato e non ha voluto sostenere il centrista Manfredi, proposto dal Pd. Anche a Bologna c’è una particolarità: l’aumento dell’astensionismo è, sì, collegato in primo luogo al M5s (4,2% punti in più) ma, in seconda posizione, vi è astensionismo in uscita dal Pd (2,3% punti di maggior astensionismo) che supera quello in uscita dalla destra (0,8 punti in più). Ciò è l’effetto, molto probabilmente, di un esito elettorale assolutamente scontato, che ha indotto elettori piddini a restare a casa (anche perché a Bologna era periodo di ponte per via della festa patronale).

Nella sostanza, tirando le somme di questi dati, l’astensionismo alle recenti amministrative appare essere un fenomeno perlopiù metropolitano, concentrato soprattutto nelle periferie del disagio sociale, fra i ceti sociali “sconfitti” dalla ristrutturazione liberista di questi anni, allegramente proseguita con l’idea a-scientifica e pseudo-schumpeteriana di Draghi della ristrutturazione “creatrice” dei settori produttivi. Da un punto di vista più strettamente politico, è il frutto della delusione per idee di alternativa sociale propugnate dal M5s delle origini e dalla Lega nella sua fase sovranista e populista (e a Napoli dalla presunta “rivoluzione arancione” di De Magistris, mai comparsa all’orizzonte), oramai collassate nella versione draghiana del “there is no alternative”.

Va aggiunto, peraltro, che se viene meno una proposta di alternativa allo stato di cose esistente ed i partiti finiscono per proporre piccole alternative adattive ad una linea comune (e qui concordo con Polito) allora le organizzazioni partitiche che dovrebbero sostenere una idea diversa del mondo vengono abbandonate. Il degrado delle organizzazioni partitiche, a sua volta, determina maggior astensionismo perché viene meno una struttura organizzativa radicata sul territorio che porti gli elettori a votare (non a caso, l’astensionismo più forte è fra ex elettori del M5s e della Lega che, in tutto il Paese nel primo caso e nel Centro Sud nel secondo, hanno un radicamento territoriale meno forte, quindi minori capacità di fidelizzazione dell’elettorato).

A quel punto la differenza la fa, in un paradosso aberrante, la figura del leader: infatti, secondo la rilevazione Demopolis, il 60% degli elettori delle 4 aree urbane principali ha scelto il candidato non per appartenenza partitica o di campo, ma per la sua identità personale. Solo un residuo 14% ha scelto il partito a prescindere dal candidato che presentava (ciò spiega tra l’altro il successo di Calenda, privo di qualsiasi struttura partitica che lo supportasse). Il paradosso è aberrante perché tale orientamento degli elettori, tipicamente populista, è stato facilitato proprio da quelle parti politiche che, a parole, hanno sempre combattuto il populismo, ma che poi hanno contribuito, ad esempio tramite la glorificazione del leader o l’abolizione del finanziamento pubblico, a demolire i partiti. Adesso siamo ipso facto in una condizione di populismo strutturale.

Alle politiche si giocherà una partita diversa, ovviamente. Il M5s, che più ha contribuito all’aumento dell’astensionismo su base territoriale, potrebbe recuperarne una parte non indifferente su scala nazionale. Lega e centrodestra usciranno dall’attuale fase di riorganizzazione e di stallo, e probabilmente saranno in grado di rafforzare la loro proposta fra il sottoproletariato urbano ed i ceti popolari abbandonati dalla sinistra, recuperando altre quote di astensionismo. Avremo una riduzione di questo bacino, ed un parziale cambiamento del suo colore. È possibile che esso verrà alimentato maggiormente da elettorato centrista e moderato, non ritrovatosi nel governo di Draghi e nelle proposte che verranno fatte dai due schieramenti in gioco (Calenda e Renzi sono meteore, a vario titolo, Forza Italia si sta sgretolando sotto il declino fisico del suo fondatore) e, in misura molto minore, da elettori di sinistra radicale che abbandoneranno, almeno in parte, le proposte fake di LeU, Sinistra Italiana e frattaglie varie, o da elettorato di sinistra attualmente dentro M5s che sarà deluso dall’inevitabile svolta centrista e moderata che Conte imprimerà al movimento.