Su Repubblica di oggi, un Veltroni uguale a sé stesso
ripropone la minestrina preconfezionata dei populismi pericolosi per la
democrazia, per la pax funebris imposta dall’euro sui cadaveri delle economie
mediterranee sconfitte, per la libertà e la solidarietà verso i fratelli giunti
da noi dall’altra parte del mar. Una minestrina che sembra essere l’unico
argomento cui si aggrappano gli sconfitti della storia.
A Veltroni, a differenza di altri piddini, va riconosciuta
lealtà per le sue idee e coerenza, ma quello che non capisce, ma io credo
addirittura in buona fede, il che è ancora peggio, è che i pericoli da lui
evocati nell’intervista a Repubblica, dalla crisi della democrazia
rappresentativa ai possibili focolai di una guerra prima commerciale e poi
militare, ammesso e non concesso che abbiano un fondamento e non siano degli
spauracchi legati ad una visione meccanicistica della storia, come in larga
misura io credo che siano, non sono il frutto avvelenato dei populismi, sono il
portato delle pratiche politiche di una sinistra degenerata, che nel caso
italiano ha raggiunto l’apice del suo degrado ideale e culturale con il
Lingotto.
La crisi della democrazia non affonda le sue radici in
Salvini o nelle pratiche di gestione del consenso dei pentastellati, ma nel
primato del maggioritarismo, associato alla liquefazione del concetto di
rappresentanza intermedia insito nella visione del partito liquido di Veltroni
e nei progetti di riforma della Costituzione portati avanti testardamente dal
PD in tutti questi anni. Maggioritarismo e liquefazione della rappresentanza
intermedia in nome di una partecipazione non mediata portano dritti a soluzioni
padronali come unica via per fare sintesi. Se il partito-massa novecentesco non
è più replicabile, l’utopia libertaria del movimento liquido ed aperto ad una
società civile teorizzata ma inesistente non porta a niente.
I rischi per la pace dipendono da un credito eccessivo
assegnato alle presunte virtù della globalizzazione dei mercati, di cui
l’europeismo acritico, ammantato di assurde utopie sulla politicizzazione di un
processo essenzialmente mercantilistico, è una specificazione. Tale processo
crea darwinismo fra nazioni, e il darwinismo produce tensioni, che sfociano in
guerre economiche e poi militari.
La xenofobia non deriva dalle urla di Salvini o di Orban, ma
da una immigrazione senza freni, accompagnata da modelli di integrazione
sbagliati, basati sul multiculturalismo indifferenziato e paritario, promossi
dal veltronismo e dalla sua versione femminile, il boldrinismo. A peggiorare la
situazione interviene il moralismo da sermone domenicale, che Veltroni ed i
suoi ammanniscono a larghe dosi, che tenta di promuovere l’immigrazione tramite
una colpevolizzazione degli italiani, dipinti come razzisti genetici ed
inconsci e tramite un solidarismo a senso unico, molto generoso con il
nigeriano e completamente assente nei confronti dell’italiano povero.
Maggioritarismo plebiscitario da primarie a due euro il
chilo, globalismo ed eurismo acritici e compradori, multiculturalismo da
patchwork comprato nel mercatino delle pulci, interclassismo ecumenico che
mette insieme l’individualismo metodologico dell’homo economicus con quello
libertario dei diritti civili dentro una ideologia basata sulla
responsabilizzazione individuale dell’uomo lasciato solo senza protezioni in
una società mercatistica, selettiva e malvagia (che significa la liturgia della
meritocrazia, se non chi è senza meriti, o con meriti minori, deve morire?) tutti
questi ingredienti del blair/veltrinismo non hanno fatto altro che produrre
minore accesso alle capacitazioni democratiche formali e sostanziali,
producendo un popolo subalterno, impoverito e sradicato dalla sua identità.
I populismi, quindi, non sono affatto un prodotto della
rabbia e dell’esacerbazione, ma primariamente della ricerca di una risposta ai
problemi che la sinistra, nelle tre versioni temibili del blair/veltronismo,
del radicalismo di maniera e del libertarismo movimentista, ha alimentato e/o
non ha saputo risolvere. La rabbia e l’esasperazione sono soltanto la
manifestazione sovrastrutturale ed emotiva di questa ricerca di soluzioni.
Veltroni dovrebbe sapere (ma a Frattocchie c’è stato? I fondamenti del mestiere
glieli hanno trasmessi?) che la storia non è mossa dalle passioni e dalle
pulsioni, ma dal substrato di interessi materiali che compone la base del
conflitto sociale. Pulsioni e passioni sono solo una conseguenza, non una forza
propulsiva.
E’ al cuore del modello di società proposto dal riformismo
degenerante della sinistra post-muro, e allo stupido e folkloristico contorno
di carabattole che la sinistra pseudo-radicale vi ha aggiunto, senza cambiare
niente alla portata principale, che occorre risalire per capire perché i populismi
sono un tentativo di soluzione ai problemi, non la fonte di quei problemi e
pericoli che Veltroni evoca.
E Veltroni può anche non rassegnarsi, ma la ruota della
storia gira indipendentemente da lui, e la ruota gira in una direzione ben
chiara: sta distruggendo ciò che resta delle velleità politiche della sinistra.
La sinistra è già morta, solo che nessuno glielo ha detto, e non lo sa. Morta
perché non è culturalmente, organizzativamente, umanamente ed emotivamente in
grado di dare risposte alle istanze di eguaglianza formale e sostanziale, di
giustizia e di solidarietà che continuano a vivere dentro la società. In Italia
la mortalità è accelerata dalla particolare stupidità messa in mostra dalla sua
dirigenza e dal misto di dogmatismo e tifoseria da stadio della sua militanza,
ma la patologia non tarderà ad allargarsi al resto del mondo occidentale, e non
saranno gli sforzi di Sisifo di pochi eroi, si chiamino Corbyn, Sanders o
Mélenchon, a salvarla.
Ma ciò avviene per un motivo banale: il conflitto sociale
principale si è spostato dall’asse fra lavoro e capitale a quello interno al
capitale stesso, fra piccola borghesia nazionale e grande borghesia apolide e
finanziarizzata. Questo è il senso del lunghissimo ventennio di pensiero unico,
culminato nella finalizzazione fisiologica della crisi e della sua risposta
neoliberista: la sconfitta definitiva del lavoro, privato di una sua identità,
di una sua rappresentanza e persino di un suo immaginario, visto che la
frontiera ideologica proposta dal sistema è quella di trasformare il lavoratore
in una sorta di imprenditore di sé stesso. Solo quando il lavoro, oggi
frammentato in tante forme e modalità diverse dopo la crisi del fordismo,
riuscirà a ritrovare forme di unitarietà, l’asse del conflitto sociale potrà favorire
una nuova sinistra di massa. Ma al momento non è dato capire quando e come ciò
avverrà, e quindi è legittimo prevedere tempi molto lunghi. Troppo lunghi per
valere la pena di spendersi.
Oggi, necessariamente, la risposta ai problemi creati da
Veltroni e dai suoi compari deve rinvenirsi dentro il conflitto sociale
rappresentato, nello scenario politico, dalla battaglia fra una destra
economica, globalistica e liberale ed una destra popolare, nazionale e
corporativa. E’ dentro questo asse che bisogna schierarsi, a favore dei
populismi, cercando di portarvi le istanze degli ultimi, lavorando sugli spazi
e le contraddizioni interne al loro blocco sociale, per tentare di spostare il
più a sinistra possibile il punto di equilibrio, in un esercizio dialettico e
non conflittuale.
Chi ne vuole restare fuori in nome di una terza posizione è una
testimonianza di un mondo che non esiste più, e che non tornerà. Ha il diritto
all’onore delle armi ed al riconoscimento del coraggio del combattente isolato.
Ma morirà.